Esistono “malattie
professionali degli insegnanti” di carattere psichico e nervoso? Su
questo aspetto delicato e inquietante del "mal di scuola"
lavorò nel 1990 ProForma, associazione di studio e ricerca sui
problemi della formazione, ricavandone un opuscolo intitolato Follia
docente, pubblicato con la collaborazione di Scuola notizie di
cui era supplemento (N. 8-9, ott.-nov. 1990).
La domanda era: “Cosa
distingue alienazione, estraneità, sviluppo di meccanismi di difesa
di tipo nevrotico nel lavoro insegnante dalla psicopatologia
quotidiana di altri lavori?”. E poi, provocatoriamente: "la
follia è una dimensione che può caratterizzare, in casi seppure
estremi, questa professione? C'è forse qualcosa di specifico
nell'insegnare, nel mettersi continuamente in gioco non solo
professionalmente, ma anche emotivamente, che rendono la follia quasi
una malattia professionale?".
Walter Maraschini
riassunse in “sette tesi sulla follia docente” le coordinate di
una prima ricognizione del problema. L'ipotesi principale è che i
casi estremi di comportamento evidentemente disturbato (molto più
numerosi nei resoconti degli studenti di quanto appaiano nei
fuggevoli rapporti tra colleghi) erano la punta visibile di un
iceberg patogeno che è la vita quotidiana nella scuola, acceleratore
e detonatore di equilibri individuali fragili e instabili. Le
riprendo qui ricordando che sono il risultato sintetico del materiale
raccolto nel fascicolo, tra cui gli estratti, non incredibili, di
agghiaccianti resoconti sui loro professori fatti da studenti delle
scuole medie superiori.
Cesare Pianciola, che
commentò il fascicolo su “Rossoscuola”, (anno XIII n.2, marzo
1991) vi appose due marginali appunti di lettura, condivisibili:
primo, la necessità di disaggregare la questione in relazione ai
diversi livelli di scuola giacché le tesi tendono a generalizzare a
tutto il corpo insegnante disagi e devianze sperimentati soprattutto
nella scuola secondaria superiore; secondo, l'allargamento eccessivo
del concetto di "follia docente" fa correre il rischio di
sussumere sotto il temine disagi riferibili a molte condizioni di
lavoro.
Il tempo trascorso da
quello studio ci fa aggiungere qualche considerazione. Non è più
vero che il quadro normativo della scuola non cambia: negli ultimi 15
anni è cambiato più volte. Sono da troppo tempo lontano da quel
mondo e disattento ad esso per arrischiare un giudizio compiuto e argomentato, ma l'impressione è che il mutamento che è intervenuto sia
superficiale e non in meglio. Quanto all'esigenza di un controllo
sociale sulla qualità dell'istruzione, mi pare che essa sia
cresciuta, ma che dai governi succedutisi si siano date risposte
sbagliate, orientate a prove di memoria o a un controllo burocratico,
o basate sul tempo impegnato a scuola, tutte tali da accentuare le
patologie psichiche degli insegnanti. (S.L.L.)
SETTE TESI SULLA
FOLLIA DOCENTE
1. - Il
lavoro di insegnante è un lavoro di relazione, ma si svolge in
condizioni di isolamento adulto.
L'insegnante è in aula
con gli studenti, ma è solo con se stesso, la sua adultità, la sua
responsabilità (...). Le forme di lavoro collettivo sono
prevalentemente a contenuto burocratico e formale più che di reale
collaborazione e progettazione: nelle riunioni non si formulano piani
o strategie di intervento, né si valutano seriamente progetti; non
si stendono relazioni, ma si redigono verbali, non si analizzano le
situazioni ma si vota sui voti. L'isolamento del lavoro, la mancanza
del confronto reale trascinano via via l'insegnante a confondersi con
quelle dinamiche sociali con le quali prevalentemente opera come
lavoratore — e che sono le dinamiche delle classi in cui insegna.
Il rischio è allora che egli stesso, da operatore che conosce e
governa tali dinamiche le introietti via via, assumendo comportamenti
"infantili" sia nella relazione didattica (capricciosità,
diffidenza estrema nei confronti degli alunni, talvolta spirito di
vendetta) sia nelle situazioni in cui non si trova dalla parte della
cattedra (passività e subalternità in occasione di seminari di
aggiornamento, mitizzazione dell'esperto e dell'universitario,
comportamenti turbolenti e ai limiti della demenzialità nei collegi
docenti).
2. - C'è
uno squilibrio tra il potere formale di cui è investita l'autorità
insegnante ed il potere effettivo sia nella scuola che nella società.
L'insegnante ha un
elevato potere formale sul singolo che si manifesta in sede di
scrutini e di esami. Questa autorità delegata e pressoché
insindacabile (se non per manifesti vizi di forma) spesso non
corrisponde ad una autorità reale nei confronti della classe (la cui
indisciplina può risultare ingovernabile) né sicuramente è
supportata da una qualche forma di prestigio sociale o da una
positiva immagine di ciò che l'insegnante sa, dell'importanza della
cultura di cui dovrebbe essere portatore. Si crea cosi una situazione
di profonda e pericolosa asimmetria tra ruolo ed autorità sociali
(sentiti dalla collettività come "bassi") e potere formale
sull'individuo (relativamente alto). Come per un poliziotto al quale
sia permesso impunemente di sparare al primo sospetto ladruncolo,
l'arma del voto può diventare un pericoloso strumento di ricatto e
il mondo dell'aula (o dello scrutinio) può diventare il microcosmo
in cui si compensa la debolezza sociale con atteggiamenti autoritari
ed assolutistici.
3. - Il lavoro
docente è costituito da una inseparabile miscela di componenti
affettive ed intellettuali.
La componente affettiva
gioca un peso molto importante nella relazione didattica; vi può
essere voglia di compiacere sia da parte dell'insegnante che degli
studenti; emergono richieste di affetto o di comprensione; uno
studente talvolta studia per adesione alla figura del docente, come
talaltra uno studente non studia per desiderio di trasgressione. Ogni
insegnante, dopo pochi anni di esperienza, sa quanto la componente
affettiva condizioni l'applicazione allo studio, la qualità e la
velocità dell'apprendimento. Ma egli, avendo spesso iniziato la sua
carriera con l'idea di svolgere un lavoro a prevalente contenuto
culturale e tecnico-specifico, si trova cosi a sostenere ruoli e
svolgere compiti educativi, affettivi o psicologici per i quali non
ha alcuna preparazione specifica oppure nessuna voglia di esplicarli.
Trovandosi ad assumere ruoli materni, paterni o amicali, oltre che a
rivestire funzioni docenti, trovandosi a dovere elargire premi e
punizioni, dovendo così spesso giudicare oltre che insegnare, si
rinchiude via via in standard repressivi o lassisti, ingessandosi
dentro regole sempre più rigide che impoveriscono la sua iniziale,
anche se ingenua, ricchezza di comportamenti. Si acquisiscono così a
poco a poco abitudini (anche ridicole e ridicolizzate dagli studenti)
che nulla hanno a che fare con la normativa scolastica (i 2 per
indisciplina, le 'i' per le impreparazioni, le battute ad effetto per
risvegliare l'attenzione, ...) e che tendono a diventare maniacali
rivestimenti di una incapacità, una difficoltà o una stanchezza nel
gestire umanamente la relazione umana con i ragazzi.
4. - Gli
studenti cambiano, gli insegnanti invecchiano.
Le contraddizioni
esaminate nei primi tre punti (...) si acuiscono con l'avanzare
dell'anzianità. Il motivo è un elemento materiale molto semplice:
con gli anni aumenta la differenza d'età tra l'insegnante ed i suoi
alunni. Gli insegnanti infatti, come tutti gli esseri umani,
invecchiano, ma gli studenti non crescono se non in quel breve arco
di tempo che li si ha sotto controllo. Di anno in anno gli studenti
cambiano, vanno via i vecchi, ne compaiono di nuovi: magicamente
conservano sempre la stessa età.
La tendenza alla
fossilizzazione delle energie o dei comportamenti si unisce ad una
sempre maggiore distanza generazionale che in una società come
questa (con ritmi cosi rapidi di cambiamento sia nei costumi, sia
nelle mode culturali, sia nelle risorse tecniche) può determinare
forme acute di incomprensione o senso di arretratezza. Ancora peggio,
questa contraddizione, in una società così prepotentemente
orientata all'esaltazione del consumo giovanile, può provocare odio,
malinconia o invidia.
5. - La macchina
della scuola si ripete ogni anno uguale a se stessa.
E inesorabilmente
ossessiva la ripetitività del ciclo dell'anno scolastico, che ogni
volta ripete i suoi riti, i suoi tempi e i suio problemi. Pochi sono
i lavori – come quello del docente – il cui si continuano a
svolgere per anni le stesse mansioni in un quadro normativo e
legislativo che sostanzialmente non cambia da decenni, in una
atmosfera di pigro e progressivo abbassamento della qualità. La
ripetitività del lavoro, con le sue prevedibili fasi cadenzate
nell'anno, unite alla mancanza di variabili (che non siano gli
studenti stessi) nell'organizzazione scolastica, determina una
curiosa e contraddittoria tendenza. Da una parte vi è un
miglioramento delle capacità di custodia e governo dell'indisciplina
(si imparano i 'trucchi del mestiere'), dall'altra si avverte una
diminuzione della vivezza intellettuale e delle capacità di ascolto:
quando non 'scoppia', l'insegnante spesso s'appiattisce su standard
bassi, sufficienti a contenere una classe o a sostenere colloqui con
i genitori sempre uguali a se stessi. La variabilità e la
complessità dei problemi rimangono sotto la superficie dei riti
ripetitivi e via via se ne perde traccia: il risultato finale può
essere un vuoto profondo che lascia il soggetto in balia del nulla
togliendosi quella rete di salvataggio psichica che può essere
costituita da un lavoro nel merito soddisfacente.
6. - Non esiste
alcuna forma di controllo sociale sul contenuto o sulla qualità
dell'istruzione.
La situazione descritta
nel precedente punto è accentuata da questa particolare situazione
della scuola pubblica italiana, che pare non importi come funzioni,
purché in qualche modo funzioni.
L'insegnante può ridursi
a notaio delle assenze e custode delle classi e non vi è
praticamente alcun controllo di qualità rispetto al quale misurarsi,
confrontarsi, dibattere e quindi crescere.
re di intervento sulle
grandi scelte.
Se questa situazione può
dare un senso di libertà (ma permette pure l'esistenza di zone di
manifesta evasione di minimi ed imprescindibili doveri istruttivi),
accentua contemporaneamente il senso d'inutilità ed aumenta pertanto
le insinuanti frustrazioni di cui gli studenti sentono gli insegnanti
malati.
7. - La
microdemocrazia burocratica disperde le energie positive.
Le forme di
partecipazione 'democratica' che sono state attivate nella scuola a
partire dai decreti delegati del 1975 accentuano il senso di
impotenza e frustrazione perché sono limitate ad aspetti minuti e
talora irrilevanti, a problemi gestionali di ordinaria
amministrazione, senza che invece, tramite esse, si eserciti un reale
potere di intervento sulle grandi scelte.
E proprio chi sentiva più
fortemente esigenze di impegno sociale o culturale nella scuola si
sente via via impelagato in problemi che riguardano i livelli più
bassi dell'efficienza più che le scelte politiche culturali, ideali
o materiali di più vasto respiro (...).
Walter Maraschini
(da Follia docente,
pp. 6-9)
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