13.9.14

“Vedere l'Italia e poi morire” (Fernando Mazzocca)

L'articolo che segue è presentazione di una mostra parigina di cui non è agevole procurarsi il catalogo e racconta il modificarsi ottocentesco del significato del Gran Tour e la nuova immagine dell'Italia (che durerà fino ai primi decenni del Novecento), non più soltanto paese di antiche vestigia, ma di genti primitive e, a modo loro, libere e felici, spiegando il ruolo della fotografia e della pittura che questa nuova visione comunicano all'Europa. L'autore non si sofferma sui rapporti tra fotografia e pittura e fa male, perché è tema che sollecita riflessioni generali e produttive ipotesi di lavoro. Per esempio non si dà conto dell'uso sistematico della foto come strumento del pittore e suo modello, fatto che – a leggere altre recensioni – la mostra del Musée d'Orsay documentava e di cui si trova ampia traccia visiva nel sito della benemerita istituzione al seguente link. (S.L.L.)

Lo studio del Grand Tour, il periodo di formazione che le élite europee trascorrevano nel nostro Paese nei secoli dell'Ancien Regime e soprattutto nel Settecento, è stata una delle mode culturali più brillanti degli ultimi anni. Un vero diluvio di saggi, pochi repertori molto utili, tante mostre alcune bellissime altre ripetitive. Dopo la bufera rivoluzionaria e napoleonica, il rito riprese, ma ormai molte cose erano cambiate e con loro anche i viaggiatori. L'Italia continuava a rimanere, e lo rimarrà almeno sino al Viaggio in Italia del 1953 - il capolavoro allora incompreso di Rossellini con Ingrid Bergman e George Sanders - un luogo incantato, per la bellezza incontaminata del suo paesaggio e il fascino delle antichità. 
Ma oltre che un'accademia dove educarsi alle immutabili regole del bello o un immenso museo a ciclo aperto a cui attingere, diventava lo spazio di una memoria alternativa rispetto alle suggestioni della classicità. Rappresentava sempre di più l'esaltante incontro con una società rimasta per certi versi arcaica, dominata da spaventosi contrasti di classe, dove l'arte si mescolava con la vita, la bellezza con la violenza del clima e del popolo. Tutto questo esercitava un'attrazione irresistibile, quasi fatale, sull'animo razionale di chi proveniva dall'Europa del Nord ormai travolta dalla rivoluzione borghese e industriale. Non rimaneva, almeno per un brevissimo periodo della vita, che abbandonarsi al "dolce farniente" e perdersi nelle contraddizioni di questa terra unica, così diversa da un luogo all'altro. La nuova disposizione, quella ottocentesca, nei confronti dell'Italia era stata anticipata da Goethe che, nella città «piena d'allegria, di libertà, di vita» dove «tutti siedono al sole finché non cessa di splendere», ma anche dominata dalla ferocia di proletari spesso violenti, «costretti tra Dio e Satana», aveva fatto proprio il detto: «Vedi Napoli e poi muori!».
Voir l'Italie et mourir s'intitola questa mostra straordinaria e suggestiva che, progettata dal nuovo direttore del Musée d'Orsay Guy Cogeval insieme a Ulrich Pohlmann, ricompone, alternando dipinti e fotografie d'epoca, l'immagine del nostro Paese, quale doveva apparire agli occhi dei viaggiatori nel secolo in cui una terra, dagli immensi contrasti, dove il tempo sembrava essersi fermato, diventava con grande fatica e tante contraddizioni, riunendosi politicamente ma non culturalmente e sul piano sociale, una nazione. Più che il pennello dei pittori che riproducevano i paesaggi e i costumi idealizzandoli, è stato l'obbiettivo dei fotografi a saper cogliere sul vivo questi contrasti restituiti attraverso l'immediatezza realistica e la commozione dell'istantanea proprie di questo procedimento di riproduzione allora all'inizio di un lungo percorso. La mostra riporta alla luce, attraverso materiali splendidi e poco noti, le opere dei moltissimi fotografi, italiani e stranieri, attivi nelle principali città che furono la meta del viaggio in Italia a partire dagli anni Quaranta, dimostrando come quei primi dagherrotipi e calotipi abbiano modificato i comportamenti e la percezione dei viaggiatori orientandone le scelte. Le raccolte fotografiche diventarono una sorta di repertorio dei luoghi e delle cose da visitare dato che il turista cercava la conferma di quanto aveva visto in immagini dalla circolazione tanto più vasta di quanto non avessero avuto, o continuassero ad avere, dipinti e stampe.
I serrati confronti tra quadri e foto dimostrano come la fotografia che. in un primo tempo aveva seguito le scelte e le modalità visive della pittura, si sia presto affrancata, esplorando nuovi luoghi, puntando sui dettagli prima poco considerati e acquistando una sua straordinaria autonomia di linguaggio.
Questa rassegna rappresenta dunque la riscoperta dell'originalità e dell'importanza di questi pittori-fotografi, soprattutto quelli francesi, inglesi e italiani che, riunendosi a partire dal 1847 nelle sale fumose del celebre Caffè Greco, o alternativamente tra gli schiamazzi della trattoria del Lepre, formarono la Scuola romana di fotografia. Tra di loro ha spiccato, per la qualità artistica della sua produzione, il veneto Giacomo Caneva le cui eccezionali vedute stanno alla pari con quelle pittoriche del grande Ippolito Caffi. 
Accanto ai paesaggi e ai monumenti, ai dettagli delle architetture, come le pietre di Venezia consumate e annerite dal tempo riprodotte nei commoventi dagherrotipi di Ruskin, il vero protagonista diventa lo strano popolo italiano, rappresentato attraverso quei tipi già immortalati dalla pittura di genere, ma ora rivelati dall'oggettività dell'obbiettivo fotografico in tutta la loro spie-tata naturalezza. I viaggiatori rimanevano infatti affascinati dalla libertà con cui in Italia la vita privata si svolgeva nella strada, soprattutto quella del volgo anarchico e incontrollabile di Napoli nel suo quartiere più tipico attorno al porto di Santa Lucia. Dominava la figura del "lazzarone" entrata nell'immaginario del viaggiatore come la quintessenza dell'indole popolare italiana contraddistinta dall'abbandonarsi al "farniente". 
Altri protagonisti, pronti a mettersi fieri del loro fascino in posa per pittori e fotografi, furono gli scrivani pubblici, fondamentali per una plebe analfabeta, i "pifferari” e gli zampognari, i marionettisti. Mentre gli aitanti giovani di Taormina esibirono senza pudore la loro nudità caravaggesca davanti all'obbiettivo di Wilhelm von Gloeden che li rappresentò come naturali incarnazioni del mito antico.
Eppure questo popolo fannullone e disponibile a tutto fu protagonista di una delle avventure più esaltanti della storia, il Risorgimento, quando, dopo un prologo a Roma nel 1848-1849, nel giro di due anni tra il 1859 e il 1860 venne creata l'Italia libera e unita. Attraverso le impressionanti immagini fotografiche di Roma bombardata dai cannoni francesi accorsi in difesa del potere temporale dei papi o delle barricate innalzate lungo le vie di Palermo, i viaggiatori si trovarono, in un paese senza tempo dove tutto sembrava immobile, a contatto brutale con la storia. Quella che irrompe nel capolavoro, che non si era più visto da tanto tempo, di Fattori. Lo straordinario Garibaldi a Palermo, che sarà fonte d'ispirazione per il Gattopardo di Visconti, rappresenta l'eroe, circondato dallo stato maggiore e dalle sue camicie rosse, mentre entra nella città liberata. È celebrato senza retorica, con gli abiti descritti da Dumas, che era stato il reporter eccellente di quei fatti esaltanti: il cappello «bucato da una pallottola, la camicia rossa, i pantaloni grigi di sempre e, annodata al collo, la sciarpa che gli ricadeva sulle spalle come un cappuccio».

“Il Sole 24 Ore – Domenica”, 21 giugno 2009

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