Berna
La faccia di Yves
Bonnefoy sprigiona una tranquilla energia. E' una faccia abbronzata,
segnata da profonde rughe e decorata da folti capelli bianchi. E' la
faccia del maggior poeta francese vivente, e uno dei più importanti
poeti contemporanei. Questa mattina a Bonnefoy, che è arrivato
apposta a Berna dal Massachusetts, verrà consegnato il Premio Balzan
per la storia e critica delle arti (insieme a lui saranno premiati
per la storia economica Carlo M. Cipolla, al quale Il Mulino dedica
un volumetto di scritti in onore, e Alan J. Heeger per la scienza dei
nuovi materiali non biologici), ma a poco valgono le distinzioni fra
l'una e l'altra delle sue numerose attività: quella di grandissimo
saggista, di critico e storico dell'arte, di sensibile traduttore
shakespeariano. L' unità e l'interezza che questo gentilissimo e
seducente settanduenne va inseguendo nella rappresentazione del mondo
egli l'ha realizzata prima di tutto in se stesso, sotto il segno
della poesia.
A questa cenerentola
della letteratura egli attribuisce il compito di aprire degli squarci
nella rete di rappresentazioni astratte create dal linguaggio e
mostrarci, in una percezione fugace ma accecante, la realtà
sensibile. In questa chiave alla poesia spetta anche il ruolo di
essere propedeutica alla democrazia. Il mondo sarà salvato dalla
poesia? La sua voce oggi è tenue, ma tanto più è esile, dice
Bonnefoy, tanto più è importante.
"Compito della
poesia è di provare a restituirci un rapporto con il mondo che il
nostro secolo ha terribilmente impoverito. Nell'antichità, nel
Medioevo, nel Rinascimento, non disponevano delle leggi sulla materia
scoperte dalla modernità, quelle leggi che analizzano l'essenza
delle cose, e il loro posto fra le altre. Ora degli alberi, degli
animali e anche degli esseri umani abbiamo solo le rappresentazioni
che ce ne dà il pensiero concettuale, che non conosce la realtà
dell'individuo. C'è poesia quando, in un modo o nell'altro, questa
alienazione è attenuata".
Ma oggi, è stato
detto, viviamo nel mondo delle immagini: non è passato a loro il
compito di mostrarci la realtà?
"Quella delle
immagini è una realtà allo stato bruto, dal di fuori, senza i
fremiti e i mormorii che fa la presenza dell' albero, quando siamo
vicini a lui, nel suo luogo e anche nella sua durata. La percezione
di un oggetto non è semplicemente l'incontro con la sua superficie,
nell'irrealtà di un milionesimo di secondo. Fotografare è anche
privilegiare la vista, dimenticare che 'i colori, i profumi e i suoni
si rispondono' come ricordava Baudelaire. Le fotografie sono meno
della realtà: da qui il loro bisogno, per imporsi alla nostra
attenzione, di passare i limiti, di forzare i divieti, di mostrare il
sangue, la violenza, la morte, in un modo che nessuna civiltà del
passato si era permessa: anche le più violente si imponevano nella
rappresentazione artistica dei limiti che mostravano che la società
riposava su valori condivisi. Un gran pericolo dunque nella
fotografia, e un apporto insostituibile. E anche lì il bisogno della
poesia. Così considero dei veri poeti i grandi fotografi che lottano
contro il loro strumento mentre se ne servono, come Walker Evans o
Cartier Bresson".
Come poeta lei è
nato con il surrealismo. Poi se n' è allontanato. Pensa che vi fosse
in quel movimento una concezione della poesia ancora valida oggi?
"Il sentimento di
una pienezza perduta, ma da riconquistare, nell'esperienza del mondo,
fu precisamente il pensiero dominante di questo movimento artistico
che parlava di surrealtà. Certo, il surrealismo impoveriva questa
intuizione di pienezza immaginandola troppo spesso come qualcosa di
fantastico, accompagnata da fenomeni incomprensibili alla ragione
ordinaria, e per questo motivo me ne sono allontanato".
Quali sono i legami
fra poesia e pittura, poesia e architettura?
"Poiché la poesia
cerca di ristabilire il contatto con la piena presenza del mondo e
degli altri esseri, è naturale che si interessi alla pittura, che è
stata così spesso attenta all'apparenza più immediata delle cose, e
con dei mezzi che il poeta non ha. Questi impiega parole nelle quali
interferiscono i concetti, e i concetti producono i modelli astratti
che sempre di più sostituiamo alle presenze reali. Contro queste
tentazioni il poeta deve lottare con se stesso. Il pittore invece può
evocare direttamente il rosso di una nuvola intingendo il suo
pennello nel rosso, al di là delle parole. Eppure bisogna che il
pittore continui a guardare a ciò che esiste, invece di
rinchiudersi, come avviene così spesso oggi, semplicemente in una
riflessione sui segni, semplicemente sul modo in cui i segni possono
generarsi o contraddirsi. La funzione della poesia sarà dunque di
richiamare il pittore a questo compito. Come facevano gli artisti del
Rinascimento, che uscivano anche loro da un tempo - la società
cristiana del medioevo - in cui erano i segni a contare e non la
realtà naturale. Piero della Francesca, Bellini, Tiziano, hanno
reinventato i corpi, la natura vegetale. E fu un bene per la società
che poté, di nuovo, disporsi con confidenza ad abitare,
poeticamente, una terra reale: come dimostra con forza l'
architettura nuova, quella di Alberti, di Brunelleschi, di Sangallo,
in cui l'essere umano appare al centro del mondo. Come il
Rinascimento fu la reinvenzione, rivoluzionaria, del sentimento della
natura, così la nostra arte dovrebbe porsi il compito di reinventare
i grandi valori umanisti che assicurarono la verità degli artisti
del Rinascimento, da Masaccio a Poussin".
“la Repubblica”, 24
novembre 1995
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