Il porto di Cartagine - Ricostruzione |
La collina si chiama
Byrsa. E' l'antica acropoli di Cartagine. Da un lato degrada verso
il mare (i due piccoli stagni, laggiù lungo la riva, sono i famosi
porti punici); dal lato opposto è isolata da lagune. In fondo alla
laguna più grande c'è Tunisi, bianca. Da Tunisi si arriva a
Cartagine lungo una sottile striscia di terra in mezzo alle acque
basse, che sanno lievemente di marcio e sono popolate di fenicotteri.
Su questa collina gli archeologi francesi hanno ricercato a lungo la
massiccia cinta di mura interne, poste a difesa della rocca, e il
tempio aereo del dio Eschmun, al quale si arrivava - dicono gli
scrittori che visitarono la città alla vigilia della sua caduta -
salendo sessanta ripidi gradini, e dove, nel 146 a.C., si svolse l'
ultimo atto della tragedia di Cartagine.
Ora, a scavi ultimati,
ecco il responso degli studiosi francesi: non rimane più niente dei
monumenti dell'antica acropoli cartaginese, perché i romani, quando
ricostruirono la città, ne decapitarono la vetta, la spianarono per
formare un largo terrazzamento su cui erigere, secondo l'usanza
romana, un vasto foro e un'imponente basilica (il foro si trova in
buona parte sotto la chiesa costruita in onore del re francese Luigi
IX, che morì qui, nel 1270, durante una crociata. La basilica è
stata riportata alla luce).
In compenso, la terra
rimossa dalla vetta, usata per ampliare i fianchi della collina, ha
sotterrato e protetto un intero quartiere punico che gli archeologi
francesi hanno appena finito di scavare. E' un quartiere di strade
strette e di piccole case a molti piani, addossate le une alle altre.
Un robusto muro di fondazione di un edificio romano, che in parte l'
attraversa, oggi fa quasi da belvedere sulla voragine del riemerso
quartiere dei vinti.
Da qui, alzando gli occhi
verso il mare, si domina lo scenario in cui si svolse il dramma
finale di Cartagine, che ebbe un testimone d'eccezione: lo storico
Polibio, il quale si trovava al seguito di Scipione l'Emiliano.
Quando, nel 149, Roma dichiarò per la terza volta guerra a
Cartagine, la città non si fece la minima illusione e offrì
immediatamente la resa. I romani chiesero in ostaggio i bambini delle
famiglie più in vista. Gli ostaggi vennero consegnati. Poi venne la
seconda richiesta: la città doveva essere disarmata. Le armi vennero
consegnate. Infine arrivò l'ordine sleale e crudele: i cartaginesi
dovevano abbandonare la città, Cartagine sarebbe stata rasa al
suolo. A questo annuncio, pazzi di rabbia, i cartaginesi si
ribellarono: uccisero gli ambasciatori romani e anche i magistrati
locali che avevano consigliato di consegnare ostaggi e armi; chiusero
le porte; si barricarono dietro le mura e resistettero per tre lunghi
anni.
La situazione si era
ormai fatta imbarazzante per Roma che, nel 146, inviò sul posto
Scipione l'Emiliano. Questi rafforzò l'assedio dalla parte delle
lagune e del mare e isolò completamente la città: fame e malattie
cominciarono ad aprire grandi vuoti tra i difensori. Alla fine di
marzo, Scipione ruppe le difese cartaginesi dalla parte più debole:
le mura che proteggevano il porto. Ci vollero tuttavia sei giorni di
aspri combattimenti, casa per casa (anche nel quartiere che sta qui
sotto) prima che i romani riuscissero ad arrivare alla cittadella.
Nell'acropoli si erano rifugiate circa 50.000 persone; un numeroso
gruppo stava nel tempio. Quando questi videro i primi soldati romani
ai piedi della scalinata, dettero fuoco al tempio e si lasciarono
morire tra le fiamme. Gli abitanti furono fatti schiavi, la città
saccheggiata e incendiata. Racconta Polibio che Scipione recitò i
versi di Omero sull' incendio di Troia e pianse "pensando al
giorno in cui anche per Roma sarebbe suonata l' ora della morte".
Avverto un leggero risentimento nella voce dell'archeologo Abdelmajid
Ennabli, il giovane direttore degli scavi di Cartagine che ha
rievocato per me il racconto di Polibio. Allora colgo un rametto
fiorito di hennè e glielo porgo. Pace fatta tra romani e
cartaginesi? Ma sì, certamente; anzi ora Ennabli mi mostrerà la
scoperta che più gratifica il suo orgoglio di "punico
immaginario", la più importante di questo ciclo di scavi
affidati ad archeologi stranieri: il mistero del porto di Cartagine è
stato risolto.
Scendiamo lungo la
collina e andiamo agli stagni, che sono due e contigui; uno di forma
irregolarmente rettangolare, l' altro rotondo, con al centro una
piccola isola. Il mistero consisteva in questo: il porto cartaginese
era così famoso nell' antichità, che è stato descritto
minuziosamente da molti viaggiatori antichi. Ciononostante - o anzi
proprio per questo - la sua identificazione con gli stagni non
convinceva del tutto gli archeologi. La descrizione più dettagliata
è quella di Appiano, il quale dice che i porti erano due - l' uno
dentro l' altro - ed erano invisibili dal mare perché nascosti da un
alto muro. Fin qui tutto corrisponde: i due porti erano stati
ottenuti attrezzando i due stagni lungo il litorale e c' è ancora,
molto sbertucciato, il muro che corre parallelamente alla linea della
costa: le navi giravano intorno a un isolotto ed entravano nella
laguna, poi con un' altra virata entravano nel primo porto, quello
commerciale. Di qui passavano nel secondo porto, quello militare, un
bacino perfettamente circolare dove sorgeva un' isola che era la sede
dell' ammiragliato. Ma Appiano precisa: "Lungo le banchine
dell'isola e del porto militare erano state costruite 220 cale,
ognuna delle quali poteva contenere una nave da guerra". Qui si
presenta una difficoltà: lo stagno è troppo piccolo, 220 cale e
altrettante navi non ci potevano fisicamente stare. E poi, possibile
che fosse così piccolo il porto militare del popolo la cui flotta
aveva terrorizzato i romani per la sua capacità, al momento
dell'attacco, di infilarsi tra una nave romana e l'altra, fare
un'improvvisa semiconversione e sfondare le fiancate avversarie?
E' stato lo scavo dell'
èquipe inglese guidata dall' archeologo Henry Hurst a risolvere il
mistero. Hurst aveva cominciato ad avere i primi sospetti su come
realmente stessero le cose quando, nel rimuovere la terra dell'isola,
aveva trovato migliaia di monoliti delle dimensioni di robuste travi.
Poi, scavando in profondità, ha avuto un vero colpo di fortuna: ha
trovato una cala, cioè un piano inclinato di pietra per mettere le
navi in secco, in perfetto stato di conservazione. Allora tutto è
diventato chiaro: non si trattava di moli in mezzo al porto, ma di
scivoli costruiti sotto l'isola, che era una costruzione artificiale
fatta - in modo molto ingegnoso - con un sistema di pilastri
paragonabili alle nostre colonne di cemento armato. Al livello
dell'acqua, tra una foresta di pilastri, c'erano le cale, una accanto
all'altra e convergenti verso il centro dell'isola. Sopra, al primo
piano, sorgevano i magazzini, e sopra ancora, ma al centro dell'
isola, c'era la torre dell'ammiraglio che, da quell'altezza poteva
sorvegliare il traffico sul mare e il movimento del porto
commerciale.
Così si spiega anche un altro particolare riferito da Appiano: davanti ad ogni cala c'erano due colonne ioniche che davano al porto l'aspetto di un monumentale porticato. Era, insomma, un porto che riusciva a inzeppare, come un moderno garage di automobili, centinaia di navi da guerra nelle sue rimesse e che, ciononostante, aveva un'aria ordinatissima. Proprio come raccontano, ammirati, i viaggiatori antichi. A poche decine di metri dal porto, c' è il famoso tophet, il più antico cimitero cartaginese dove sono raccolte le ceneri dei primogeniti sacrificati al dio Baal. Qui, infatti, attorno a questi stagni, si erano insediati i primi fenici arrivati da Tiro. Colpisce la somiglianza con Mozia e con Cadice: anche qui un luogo poco visibile dal mare e separato e protetto dalle popolazioni interne, un tranquillo scalo per i ricchissimi commerci dei metalli delle miniere d'argento spagnolo che i punici trasportavano nelle prospere città del Mediterraneo orientale. Sulla costa africana, spagnola, siciliana, sarda, ci sono decine di posti poco appariscenti come questo, dove, tremila anni fa, la colonizzazione fenicia e quella contemporanea dei greci, dava inizio alla storia europea.
Così si spiega anche un altro particolare riferito da Appiano: davanti ad ogni cala c'erano due colonne ioniche che davano al porto l'aspetto di un monumentale porticato. Era, insomma, un porto che riusciva a inzeppare, come un moderno garage di automobili, centinaia di navi da guerra nelle sue rimesse e che, ciononostante, aveva un'aria ordinatissima. Proprio come raccontano, ammirati, i viaggiatori antichi. A poche decine di metri dal porto, c' è il famoso tophet, il più antico cimitero cartaginese dove sono raccolte le ceneri dei primogeniti sacrificati al dio Baal. Qui, infatti, attorno a questi stagni, si erano insediati i primi fenici arrivati da Tiro. Colpisce la somiglianza con Mozia e con Cadice: anche qui un luogo poco visibile dal mare e separato e protetto dalle popolazioni interne, un tranquillo scalo per i ricchissimi commerci dei metalli delle miniere d'argento spagnolo che i punici trasportavano nelle prospere città del Mediterraneo orientale. Sulla costa africana, spagnola, siciliana, sarda, ci sono decine di posti poco appariscenti come questo, dove, tremila anni fa, la colonizzazione fenicia e quella contemporanea dei greci, dava inizio alla storia europea.
la Repubblica, 4 agosto 1984
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