Solo nel 1987, 35 anni
dopo la pubblicazione in Francia, fu edita in traduzione italiana (da Einaudi) la Pantomima per un'altra volta,
il primo libro composto da Célinr dopo la prigionia e l'esilio
danese. Lo scrittore francese con la Bagattella per un
massacro aveva prodotto una invettiva antisemitica, feroce, ma proprio per questo di grande successo al
tempo dell'occupazione tedesca e di Vichy. La Pantomima,
un delirio in due tempi (1938 e 1944) ambientato a Parigi,
è generalmente letta come un tentativo di autodifesa dall'accusa di complicità con lo sterminio nazista. Il “Corriere”
ne pubblicò come anticipazione alcuni brani corredati dall'articolo qui
postato, di Carlo Bo, che - come si può vedere - non partecipava peraltro all'ambigua
rivalutazione di Céline tanto di moda in quei tremendi anni
Ottanta. (S.L.L.)
Louis-Ferdinand Céline (foto Meurisse, 1932) |
Aveva ragione Albert
Béguin quando sosteneva che tutto Celine stava nel Voyage au bout
de la nuit (1932) mentre il resto (e in questo resto c'era Mort
a credit del 1936) non
valeva molto, anzi niente? Il tempo ha provveduto a correggere una
sentenza che nella sua severità può essere interpretata soltanto o
soprattutto con la figura dello scrittore «engagé» in una serie di
pamphlets aberranti, dove si metteva al servizio di idee e opinioni
più che ingiuste, mostruose.
La storia è fin troppo
nota ma per quanti sforzi si siano fatti — da parte di chi restava
fermo alla condanna totale e da parte di chi intendeva contrabbandare
con le ragioni dell'arte una posizione ideologica insostenibile —
la disputa non è stata ancora risolta. Comunque, la Féerie
(Pantomima per un'altra volta)
è la prima testimonianza dello scrittore che fa ritorno in patria
dopo le fughe, l'esilio, le condanne, anzi è il primo documento di
una lunga serie di libri che se non raggiungono il livello del Voyage
hanno pur sempre una loro efficacia.
E tuttavia la nostra
memoria non è tranquilla, nel senso che risente dei contrasti e
delle diverse opinioni della critica, lasciando pure da parte il
dossier delle responsabilità morali e politiche assunte dallo
scrittore nel suo lungo delirio che ha coinciso con l'annuncio e poi
con l'esplosione della guerra. Non è tranquilla soprattutto di
fronte agli ultimi avvenimenti, alla storia del processo Barbie con
tutto quello che si trascina dietro di fangoso e di vergognoso e
soprattutto di «taciuto». Che è un modo di allargare il problema e
di tornare fatalmente alla responsabilità dello scrittore, al peso
che hanno le parole, anche quando siano — come quelle di Céline —
sganciate dalla realtà immediata.
L'unica giustificazione
possibile è quella di una macroscopica distorsione psicologica, dove
le motivazioni personali, gli odii e i risentimenti vengono
presentati come delle verità inoppugnabili. E ancora, in questo
sistema di restituzione c'era una parte di inganno, c'era — magari
distorto — il bisogno di bruciare il mondo, di fare un falò di
tutto per occultare debiti?
E qui torniamo alla
letteratura, alla funzione della letteratura, e prima ancora a
chiederci se sia lecito uno sganciamento totale dalla verità e la
soggezione, se non la deportazione, delle ragioni altrui in una
specie di forno crematorio dove le figure dei buoni conoscono la
stessa fine di quelle dei rei e dei cattivi. E si dirà che, nel
furore e nella rabbia della difesa di se stesso, lo scrittore era
costretto a esaltare i toni, a un gioco senza fine di esasperazioni e
di esaltazioni. In effetti più che nella prima parte della sua
opera, il Céline qui si è sprofondato in un monologo dove i confini
fra realtà e fantasia non sono mai
visibili, tantomeno circoscritti. Per questo Céline che comincia la
sua difesa, la sua prova d'appello (e che durerà poi fino alla
morte) sembra più opportuno mettere l'accento sull'abilità, anzi
sulla eccezionale prova di esasperazione, concentrarsi sul dato
particolare e lasciare da parte le obiezioni, le riserve o, come
accade più spesso, i rifiuti di un lettore che nonostante tutto è
tenuto al rispetto dei simboli, se non dell'essenza, della verità.
C'è stata poi una
diversa suggestione critica e che ormai da molti anni è diventata —
almeno così sembra — la regola, un diverso modo di impostare il
problema generale. Vale a dire non fare delle scelte, non procedere
per esclusioni e ammissioni ma guardare lo scrittore come un
continente a sé, un mondo unico e al di fuori di qualsiasi norma
morale. L'esaltazione «a contrariis» ha finito per avere il
sopravvento e non si sentono più ripetere le vecchie distinzioni né
si vedono più disporre argini di protezione.
Qual è allora la strada
giusta? Direi che neppure Céline accettava questa visione globale,
nel senso che era troppo intriso di spirito polemico, troppo legato
nella rete dei risentimenti e delle accuse rovesciate per accettare
la beatificazione delle sue posizioni. E chissà che proprio quella
sua ostinazione non denunciasse «a guardarla bene» un rimorso, una
piccola luce di pentimento. Anche qui mi si obietterà che tali
categorie erano estranee alla sua filosofia, al suo canto di
disperazione e di negazione, ma come spiegare altrimenti questo
feroce inseguimento senza fine delle colpe di tutti e di ciascuno?
Cadendo e poi tornando a poco a poco alla vita, era ben distinguibile
nel suo delirio di difese e di accuse il bisogno fisico di
distruggere tutto e di umiliare l'uomo. Insomma Céline diceva tutto
per non dire il necessario e il dovuto, e questo testo non è che il
prologo della sua discesa all'inferno, in compagnia dell'intera
umanità.
“Corriere della sera”,
24 maggio 1987
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