Sul “manifesto” i
temi di un seminario internazionale svoltosi nel 2011 a Venezia e
dedicato ai Paradossi cinesi. Vi
si proponeva un collegamento tra lo studio del modello produttivo,
sociale e politico e la nuova “ideologia cinese, la combinazione
di filosofia confuciana, ideologia nazionalista e liberismo, che si
propone come risposta per una economia mondiale in crisi, senza
tacere le contraddizioni della vorticosa transizione cinese, con
forme diffuse di resistenza e insubordinazione sociale. (S.L.L.)
La nuova Pechino |
Yongshun Cai, a partire
da una dettagliata analisi quantitativa e dai dati raccolti sul campo
nell’arco dell’ultimo decennio, offre un’immagine inedita del
rapporto tra «economia di transizione» e capillare diffusione dei
conflitti sociali nella Cina contemporanea. Solo per restare alle
nude cifre, quelle che il sociologo di Hong Kong classifica come
«azioni collettive» di protesta sono passate dalle undicimila del
1995 alle oltre ottantasettemila nel solo anno 2005. Le cause sono
note: velocità, intensità e costi sociali particolarmente elevati
dello sviluppo produttivo, vaste dimensioni della forzata
urbanizzazione di una quota crescente della forza lavoro, profondità
sradicante del processo di ristrutturazione urbana nelle aree
metropolitane. E, aggiunge Cai, la fragilità dei meccanismi
formalizzati di risoluzione dei conflitti, a partire
dall’inaffidabilità del sistema legale e giudiziario.
All’origine di queste
lotte stanno differenti motivazioni. Nelle aree rurali, fino al 2004,
la crescente opposizione all’esazione statale di forti tasse e
imposte sulla produzione agricola, poi la resistenza
all’appropriazione delle terre coltivabili, in un processo di
enclosures tipico dell’accumulazione primitiva, da parte
dello Stato stesso e di gruppi imprenditoriali capitalistici e, più
recentemente, l’esplosione di conflitti territoriali contro
l’inquinamento ambientale e la realizzazione di grandi opere,
sovente accompagnato da ondate di indignata protesta contro il
diffuso fenomeno della corruzione tra i gruppi dirigenti locali del
partito comunista e delle amministrazioni.
Differente, ma
altrettanto esteso e parallelo nella sua evoluzione, il percorso
delle lotte urbane: prima nel contrastare le «riforme» che
investivano la grande impresa statale con ondate di «alcune decine
di milioni di licenziamenti» tra la fine degli anni Novanta e i
primi anni del nuovo Millennio, poi nell’opposizione alla selvaggia
lottizzazione dei terreni e alla demolizione di interi quartieri nel
quadro dei programmi di espansione di tutte le principali città,
oggi essenzialmente a partire dalla composizione sociale dei
lavoratori dell’emigrazione interna, in fabbrica così come in
tutto il tessuto metropolitano, intorno ai nodi del salario diretto e
della più allargata riproduzione sociale.
Tra repressione e
concessioni
Yongshun Cai non si ferma
tuttavia alla fotografia di un universo segnato da diffusi
comportamenti collettivi di resistenza e insubordinazione. Sottolinea
come la protesta sociale sia in Cina la modalità privilegiata di
partecipazione politica: contadini, operai, proprietari di case,
lavoratori migranti e altri gruppi sociali in lotta hanno scelto di
manifestare pur consapevoli del fatto che queste azioni non sono
legali, in quanto «non autorizzate» dal governo, e molto spesso
(114 casi sui 261 analizzati da Cai sul campo tra il 2001 e il 2005)
si concludono con iniziative repressive e la dura punizione dei
partecipanti.
Ciò che interessa il
sociologo è analizzare la risposta del potere, il suo carattere
articolato e flessibile, «le proteste hanno maggiori possibilità di
successo quando avanzano pretese non difficili da soddisfare e quando
lo fanno esercitando un’azione decisa». Alla repressione si
alternano infatti «concessioni e tolleranza». Proteste diffuse
hanno contributo in questi anni a modificare le politiche
governative: le lotte contadine hanno concorso all’abolizione della
tassa agricola, le proteste dei lavoratori hanno portato ad
accelerare la creazione di una prima esile rete di welfare
urbano, i conflitti di fabbrica delle operaie e degli operai migranti
hanno condotto all’entrata in vigore e ai successivi aumenti di una
soglia di «salario minimo» riconosciuto.
«Repressione,
tolleranza, concessioni» sono termini che rinviano, nel quadro di
una contemporanea governance delle tumultuose trasformazioni
che caratterizzano lo sviluppo capitalistico in Cina, ad un più
antico linguaggio imperiale. Ed è imperiale la modalità con cui
viene gestito il conflitto sociale nello spazio della gerarchia
politica tra governo centrale e amministrazioni locali. Sono i
governi delle province a dover gestire, in prima battuta e con
notevoli margini di discrezionalità, le proteste. Quando Pechino non
intende intervenire può «far finta di nonessere a conoscenza del
problema», e le dirigenze locali godono di un arbitrio pressoché
totale nel trattare i protagonisti del conflitto.
Quando il governo
centrale non può più fingere, interverrà allora per punire
l’amministrazione locale colpevole di avere gestito male
l’episodio, assumendosene il merito. In tal caso, la minaccia di
intervento e di punizioni pesa sui funzionari provinciali, rendendoli
più inclini a limitare il ricorso alla repressione violenta. È
all’interno di questa dialettica – conclude Yongshun Cai – che
è cresciuta la «necessità di preservare la stabilità sociale e
rafforzare la propria legittimità, perché un regime a basso tasso
di legittimità sopravvive alle crisi con grande difficoltà», fino
ad individuare la parola d’ordine di «costruire la società
armoniosa» che contrassegna l’ordine del discorso dominante del
Partito comunista cinese nell’affrontare le drammatiche
contraddizioni dello sviluppo.
È dunque dallo scenario
di un processo di accumulazione capitalistica, impetuoso ma
tutt’altro che pacificato, che prende le mosse i seminario di due
giorni (oggi e domani, domenica 23, vedi qui a lato il programma)
organizzato a Venezia dal Centro studi «Alternativa comune» in
collaborazione con S.a.L.E. docks e Institut Ramon Llull, dedicato ai
«paradossi cinesi» come uno dei paradigmi possibili della
contemporaneità. Si tratta infatti di partire dal tentativo di
comprendere lo specifico processo di modernizzazione che ha
interessato la «civiltà cinese» negli ultimi due secoli, tra le
continuità di lunga durata del pensiero confuciano, le peculiarità
del maoismo e la produzione di narrativa ideologica che ha
accompagnato le trasformazioni degli ultimi decenni. Fino a produrre
la mostruosa ricombinazione di filosofia neo-confuciana, ideologia
socialista in chiave ipernazionalista e dottrina economica
neoliberista, che struttura il discorso là dominante.
Ma si può provare a
comprendere quali indicazioni di prospettiva quel peculiare modello
fornisce anche a noi, nella crisi, se si comincia ad indagare il
nesso che si è stabilito tra queste costellazioni di pensiero,
l’organizzazione sociale del lavoro e la definizione del comando
politico.
Un modello in cerca
di egemonia
L’obiettivo è
interpretare le attuali dinamiche economiche e produttive, sociali e
politiche della Cina, focalizzando l’attenzione su uno dei
possibili, e più probabili, scenari di evoluzione dell’attuale
crisi - ecologica, economico-finanziaria e sociale - su scala
planetaria. Il modello capitalistico cinese sembra imporsi come forza
economicamente egemone, ma è, al tempo stesso, connotato da una
serie di paradossi, che risultano al tradizionale sguardo
occidentale, anche quello critico, quasi incomprensibili.
Vi è, come ha più volte
ricordato Wang Hui, il richiamo ad una tradizione culturale
antichissima combinato con le espressioni più avanzate della
modernità: la storia della Cina rivoluzionaria e i processi di
liberalizzazione economica degli ultimi decenni sono per lui parte
dell’affermazione di un unico discorso di «modernità». Vi è il
massimo di cooperazione sociale produttiva, con un alto contenuto
immateriale di saperi e tecniche – lo hanno documentato i
contributi di Andrew Ross, Aihwa Ong, Ching Kwan Lee e PaoloDo -
combinato con condizioni durissime di sfruttamento del lavoro vivo e
processi di feroce gerarchizzazione sociale delle migrazioni interne.
Vi è il massimo dispendio di risorse energetiche, per lo più
fossili, combinato con il più cospicuo investimento statale mai
registratosi sulla ricerca e lo sviluppo di fonti rinnovabili: la
Cina è, al tempo stesso, il principale consumatore di carbone e
petrolio, player decisivo nella regolazione dei flussi e dei prezzi
nel mercato di queste materie prime e, al contempo, titolare del più
ambizioso programma di sviluppo della produzione di energia eolica e
fotovoltaica.
Un soft power
imperiale
Vi è il massimo
dispiegarsi di libertà nell’iniziativa dimercato, di apertura al
capitale transnazionale e di attiva partecipazione ai processi di
finanziarizzazione globale dell’economia, che convive con il
consolidarsi di un potere imperiale dai tratti inediti su scala
mondiale e, sul piano interno come abbiamo visto nella ricostruzione
di Cai, da una sorta di «governance autoritaria», in grado di
regolare sistematicamente l’apertura e la chiusura di spazi di
libertà.
Non è casuale come oggi
proprio il Partito comunista cinese ami affiancare allo slogan della
«società armoniosa» la categoria,mutuata dalle tesi dello studioso
statunitense Joseph S. Nye, del soft power per definire le
particolari modalità del proprio intervento sullo scenario globale:
dai massicci programmi di riarmo (anche tecnologico), alle politiche
neocoloniali di acquisizione delle terre e delle materie prime in
Africa come in America latina, fino allo spregiudicato, e diretto,
utilizzo dei fondi sovrani nella crisi del debito pubblico di Stati
Uniti e Paesi europei.
È nel confronto diretto
con alcune delle più significative figure del pensiero critico
cinese, sia esso esercitato nelle università della madrepatria o in
quelle americane, che si cercherà di sillabare qualche prima
risposta alle questioni che sono sul tappeto. Con un economista,
formatosi alla scuola di Immanuel Wallerstein e Giovanni Arrighi,
come Minqi Li (già attivista nel movimento di Piazza Tienanmen, che
gli è costato due anni nei famigerati «campi di rieducazione») la
discussione si concentrerà su quale originale modello capitalistico
abbia dunque preso forma nella realtà cinese e di quale ruolo questo
modello stia giocando negli sviluppi della crisi su scala globale. Un
modello che, come suggeriscono gli studi dell’antropologa Nancy N.
Chen, non è alieno da profondi effetti biopolitici, da una mutazione
che agisce sulle strutture profonde di una civiltà millenaria. Con
l’appassionata ricerca sociale di Pun Ngai saranno affrontati le
prospettive indicate dalla recente nuova ondata di lotte operaie,
sociali ed urbane in Cina, a partire dai suicidi alla Foxconn per
arrivare all’esito che, in termini di crescita significativa dei
livelli salariali e di allargamento di un mercato interno di consumo,
queste hanno ottenuto.
Sullo sfondo
l’interrogativo su quali siano le conseguenze, per la crescente
divaricazione tra modello di accumulazione capitalistica e democrazia
politica (che soprattutto in Occidente stiamo registrando) e per il
concetto stesso di democrazia, che questo coacervo di paradossi
comportano. Iniziare a comprenderne il significato vuol dire leggere
con maggior chiarezza, per noi nella crisi, il capitalismo che viene
e che verrà. E lavorare a costruire, qui ed ora, l’alternativa
possibile che l’indignazione globale pone come drammatica e non più
rinviabile urgenza.
“il manifesto”, 22
ottobre 2011
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