11.9.14

Cina oggi. Il contrastato dominio dell’armonia imperiale (Beppe Caccia)

Sul “manifesto” i temi di un seminario internazionale svoltosi nel 2011 a Venezia e dedicato ai Paradossi cinesi. Vi si proponeva un collegamento tra lo studio del modello produttivo, sociale e politico e la nuova “ideologia cinese, la combinazione di filosofia confuciana, ideologia nazionalista e liberismo, che si propone come risposta per una economia mondiale in crisi, senza tacere le contraddizioni della vorticosa transizione cinese, con forme diffuse di resistenza e insubordinazione sociale. (S.L.L.)
La nuova Pechino
Yongshun Cai, a partire da una dettagliata analisi quantitativa e dai dati raccolti sul campo nell’arco dell’ultimo decennio, offre un’immagine inedita del rapporto tra «economia di transizione» e capillare diffusione dei conflitti sociali nella Cina contemporanea. Solo per restare alle nude cifre, quelle che il sociologo di Hong Kong classifica come «azioni collettive» di protesta sono passate dalle undicimila del 1995 alle oltre ottantasettemila nel solo anno 2005. Le cause sono note: velocità, intensità e costi sociali particolarmente elevati dello sviluppo produttivo, vaste dimensioni della forzata urbanizzazione di una quota crescente della forza lavoro, profondità sradicante del processo di ristrutturazione urbana nelle aree metropolitane. E, aggiunge Cai, la fragilità dei meccanismi formalizzati di risoluzione dei conflitti, a partire dall’inaffidabilità del sistema legale e giudiziario.
All’origine di queste lotte stanno differenti motivazioni. Nelle aree rurali, fino al 2004, la crescente opposizione all’esazione statale di forti tasse e imposte sulla produzione agricola, poi la resistenza all’appropriazione delle terre coltivabili, in un processo di enclosures tipico dell’accumulazione primitiva, da parte dello Stato stesso e di gruppi imprenditoriali capitalistici e, più recentemente, l’esplosione di conflitti territoriali contro l’inquinamento ambientale e la realizzazione di grandi opere, sovente accompagnato da ondate di indignata protesta contro il diffuso fenomeno della corruzione tra i gruppi dirigenti locali del partito comunista e delle amministrazioni.
Differente, ma altrettanto esteso e parallelo nella sua evoluzione, il percorso delle lotte urbane: prima nel contrastare le «riforme» che investivano la grande impresa statale con ondate di «alcune decine di milioni di licenziamenti» tra la fine degli anni Novanta e i primi anni del nuovo Millennio, poi nell’opposizione alla selvaggia lottizzazione dei terreni e alla demolizione di interi quartieri nel quadro dei programmi di espansione di tutte le principali città, oggi essenzialmente a partire dalla composizione sociale dei lavoratori dell’emigrazione interna, in fabbrica così come in tutto il tessuto metropolitano, intorno ai nodi del salario diretto e della più allargata riproduzione sociale.

Tra repressione e concessioni
Yongshun Cai non si ferma tuttavia alla fotografia di un universo segnato da diffusi comportamenti collettivi di resistenza e insubordinazione. Sottolinea come la protesta sociale sia in Cina la modalità privilegiata di partecipazione politica: contadini, operai, proprietari di case, lavoratori migranti e altri gruppi sociali in lotta hanno scelto di manifestare pur consapevoli del fatto che queste azioni non sono legali, in quanto «non autorizzate» dal governo, e molto spesso (114 casi sui 261 analizzati da Cai sul campo tra il 2001 e il 2005) si concludono con iniziative repressive e la dura punizione dei partecipanti.
Ciò che interessa il sociologo è analizzare la risposta del potere, il suo carattere articolato e flessibile, «le proteste hanno maggiori possibilità di successo quando avanzano pretese non difficili da soddisfare e quando lo fanno esercitando un’azione decisa». Alla repressione si alternano infatti «concessioni e tolleranza». Proteste diffuse hanno contributo in questi anni a modificare le politiche governative: le lotte contadine hanno concorso all’abolizione della tassa agricola, le proteste dei lavoratori hanno portato ad accelerare la creazione di una prima esile rete di welfare urbano, i conflitti di fabbrica delle operaie e degli operai migranti hanno condotto all’entrata in vigore e ai successivi aumenti di una soglia di «salario minimo» riconosciuto.
«Repressione, tolleranza, concessioni» sono termini che rinviano, nel quadro di una contemporanea governance delle tumultuose trasformazioni che caratterizzano lo sviluppo capitalistico in Cina, ad un più antico linguaggio imperiale. Ed è imperiale la modalità con cui viene gestito il conflitto sociale nello spazio della gerarchia politica tra governo centrale e amministrazioni locali. Sono i governi delle province a dover gestire, in prima battuta e con notevoli margini di discrezionalità, le proteste. Quando Pechino non intende intervenire può «far finta di nonessere a conoscenza del problema», e le dirigenze locali godono di un arbitrio pressoché totale nel trattare i protagonisti del conflitto.
Quando il governo centrale non può più fingere, interverrà allora per punire l’amministrazione locale colpevole di avere gestito male l’episodio, assumendosene il merito. In tal caso, la minaccia di intervento e di punizioni pesa sui funzionari provinciali, rendendoli più inclini a limitare il ricorso alla repressione violenta. È all’interno di questa dialettica – conclude Yongshun Cai – che è cresciuta la «necessità di preservare la stabilità sociale e rafforzare la propria legittimità, perché un regime a basso tasso di legittimità sopravvive alle crisi con grande difficoltà», fino ad individuare la parola d’ordine di «costruire la società armoniosa» che contrassegna l’ordine del discorso dominante del Partito comunista cinese nell’affrontare le drammatiche contraddizioni dello sviluppo.
È dunque dallo scenario di un processo di accumulazione capitalistica, impetuoso ma tutt’altro che pacificato, che prende le mosse i seminario di due giorni (oggi e domani, domenica 23, vedi qui a lato il programma) organizzato a Venezia dal Centro studi «Alternativa comune» in collaborazione con S.a.L.E. docks e Institut Ramon Llull, dedicato ai «paradossi cinesi» come uno dei paradigmi possibili della contemporaneità. Si tratta infatti di partire dal tentativo di comprendere lo specifico processo di modernizzazione che ha interessato la «civiltà cinese» negli ultimi due secoli, tra le continuità di lunga durata del pensiero confuciano, le peculiarità del maoismo e la produzione di narrativa ideologica che ha accompagnato le trasformazioni degli ultimi decenni. Fino a produrre la mostruosa ricombinazione di filosofia neo-confuciana, ideologia socialista in chiave ipernazionalista e dottrina economica neoliberista, che struttura il discorso là dominante.
Ma si può provare a comprendere quali indicazioni di prospettiva quel peculiare modello fornisce anche a noi, nella crisi, se si comincia ad indagare il nesso che si è stabilito tra queste costellazioni di pensiero, l’organizzazione sociale del lavoro e la definizione del comando politico.

Un modello in cerca di egemonia
L’obiettivo è interpretare le attuali dinamiche economiche e produttive, sociali e politiche della Cina, focalizzando l’attenzione su uno dei possibili, e più probabili, scenari di evoluzione dell’attuale crisi - ecologica, economico-finanziaria e sociale - su scala planetaria. Il modello capitalistico cinese sembra imporsi come forza economicamente egemone, ma è, al tempo stesso, connotato da una serie di paradossi, che risultano al tradizionale sguardo occidentale, anche quello critico, quasi incomprensibili.
Vi è, come ha più volte ricordato Wang Hui, il richiamo ad una tradizione culturale antichissima combinato con le espressioni più avanzate della modernità: la storia della Cina rivoluzionaria e i processi di liberalizzazione economica degli ultimi decenni sono per lui parte dell’affermazione di un unico discorso di «modernità». Vi è il massimo di cooperazione sociale produttiva, con un alto contenuto immateriale di saperi e tecniche – lo hanno documentato i contributi di Andrew Ross, Aihwa Ong, Ching Kwan Lee e PaoloDo - combinato con condizioni durissime di sfruttamento del lavoro vivo e processi di feroce gerarchizzazione sociale delle migrazioni interne. Vi è il massimo dispendio di risorse energetiche, per lo più fossili, combinato con il più cospicuo investimento statale mai registratosi sulla ricerca e lo sviluppo di fonti rinnovabili: la Cina è, al tempo stesso, il principale consumatore di carbone e petrolio, player decisivo nella regolazione dei flussi e dei prezzi nel mercato di queste materie prime e, al contempo, titolare del più ambizioso programma di sviluppo della produzione di energia eolica e fotovoltaica.

Un soft power imperiale
Vi è il massimo dispiegarsi di libertà nell’iniziativa dimercato, di apertura al capitale transnazionale e di attiva partecipazione ai processi di finanziarizzazione globale dell’economia, che convive con il consolidarsi di un potere imperiale dai tratti inediti su scala mondiale e, sul piano interno come abbiamo visto nella ricostruzione di Cai, da una sorta di «governance autoritaria», in grado di regolare sistematicamente l’apertura e la chiusura di spazi di libertà.
Non è casuale come oggi proprio il Partito comunista cinese ami affiancare allo slogan della «società armoniosa» la categoria,mutuata dalle tesi dello studioso statunitense Joseph S. Nye, del soft power per definire le particolari modalità del proprio intervento sullo scenario globale: dai massicci programmi di riarmo (anche tecnologico), alle politiche neocoloniali di acquisizione delle terre e delle materie prime in Africa come in America latina, fino allo spregiudicato, e diretto, utilizzo dei fondi sovrani nella crisi del debito pubblico di Stati Uniti e Paesi europei.
È nel confronto diretto con alcune delle più significative figure del pensiero critico cinese, sia esso esercitato nelle università della madrepatria o in quelle americane, che si cercherà di sillabare qualche prima risposta alle questioni che sono sul tappeto. Con un economista, formatosi alla scuola di Immanuel Wallerstein e Giovanni Arrighi, come Minqi Li (già attivista nel movimento di Piazza Tienanmen, che gli è costato due anni nei famigerati «campi di rieducazione») la discussione si concentrerà su quale originale modello capitalistico abbia dunque preso forma nella realtà cinese e di quale ruolo questo modello stia giocando negli sviluppi della crisi su scala globale. Un modello che, come suggeriscono gli studi dell’antropologa Nancy N. Chen, non è alieno da profondi effetti biopolitici, da una mutazione che agisce sulle strutture profonde di una civiltà millenaria. Con l’appassionata ricerca sociale di Pun Ngai saranno affrontati le prospettive indicate dalla recente nuova ondata di lotte operaie, sociali ed urbane in Cina, a partire dai suicidi alla Foxconn per arrivare all’esito che, in termini di crescita significativa dei livelli salariali e di allargamento di un mercato interno di consumo, queste hanno ottenuto.
Sullo sfondo l’interrogativo su quali siano le conseguenze, per la crescente divaricazione tra modello di accumulazione capitalistica e democrazia politica (che soprattutto in Occidente stiamo registrando) e per il concetto stesso di democrazia, che questo coacervo di paradossi comportano. Iniziare a comprenderne il significato vuol dire leggere con maggior chiarezza, per noi nella crisi, il capitalismo che viene e che verrà. E lavorare a costruire, qui ed ora, l’alternativa possibile che l’indignazione globale pone come drammatica e non più rinviabile urgenza.


“il manifesto”, 22 ottobre 2011

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