Enver Pascià (1881 - 1922) |
Malgrado i risorgenti
tabù, la nostra cultura è ancora in grado di presentare e studiare
l'«altra parte» di quel mondo, «terzo» per posizione e
definizione, con cui il Nord, e quindi anche l'Italia, si trova di
nuovo ai ferri corti. Si tratta proprio della Libia, negli anni della
guerra di conquista del 1911-12. L'interlocutore è quell'Enver,
promosso sul campo da Bey a Pascià per i suoi meriti di condottiero,
inviato in Libia dal califfo ottomano per organizzare la guerriglia
anti-italiana nella zona di Derna. Un «nemico», oggetto come tale,
allora, di denigrazione e apprezzamenti offensivi da parte della
stampa italiana, e che emerge invece dalle pagine del suo diario come
un combattente motivato ed equilibrato: partì dalla Libia nel
novembre 1912 senza essere stato sconfitto, scavalcato dalla pace
firmata con l'Italia a Ouchy dalla Turchia e preoccupato dagli
avvenimenti che minacciavano ormai direttamente la sopravvivenza
della stessa Turchia.
Il diario di Enver (Enver
Pascià, Diario della guerra libica, a cura di Salvatore Bono,
Cappelli, 1986) uno dei leaders dei «giovani turchi», membro del
triumvirato che governò la Turchia dal 1913 alla sconfitta nella
guerra, è tradotto e riproposto da Bono partendo dal testo tedesco,
che è forse l'originale o una trascrizione, ma che in ogni modo è
l'unico testo disponibile, da cui sono state ricavate anche le
recenti traduzioni in turco e in arabo. Occupa uno spazio temporale
di poco più di un anno, dal 4 ottobre 1911 al 25 novembre 1912.
Sullo sfondo della guerra — condotta secondo la tattica che sarebbe
poi divenuta abituale ai movimenti anticoloniali — c'è la
descrizione di un popolo che attraverso la resistenza cerca di
diventare nazione e Stato. Il Gran Senusso, con cui Enver stabilisce
un rapporto più che cordiale, era pronto a fornire una guida insieme
culturale e spirituale. Enver è un turco, quasi un occupante lui
stesso, ma sopperisce con gli ideali panottomani e panislamici, fino
ad identificarsi con la «patria» libica, rivalutando giorno dopo
giorno i valori degli arabi, verso cui verosimilmente la sua
educazione «europeizzante» non lo predisponeva bene.
La psicologia che le
pagine di Enver rivelano è ovviamente complessa. Che faceva
l'ex-addetto militare dell'Impero Ottomano a Berlino, e animatore del
Comitato unione e progresso, nel deserto della Cirenaica? Una delle
ultime notazioni è rivelatrice: «Da una parte non posso abbandonare
questo paese, dall'altra non posso nemmeno mancare alla mia patria,
che ha urgente bisogno di me». Donde un proposito in qualche modo
rivoluzionario:«Costituirò qui un piccolo Stato indipendente». In
questa vocazione all'indipendenza, al limite anche contro l'Impero
Ottomano ormai al tramonto (ma Enver era tutt'altro che rassegnato
alla sua sparizione), sta la «modernità» del pensiero di Enver
Pascià. Nello stesso tempo, però, quella trasposizione di ruoli
tradisce le carenze della risposta che la Libia in quanto tale era in
grado di opporre alla violenza che le veniva portata dall'Italia. E
il fallimento - vent'anni dopo — della resistenza senussita non
sarebbe stato sufficiente a colmare tutti i vuoti.
Sulle colpe dell'Italia
l'autore del diario non ha nessun dubbio. Enver arriva anche ad
inquadrare l'aggressione in una dimensione che, sia pure entro
confini un po' unilaterali (gli interessi del Banco di Roma), mira
all'imperialismo. Verso gli italiani che combattono in Libia il
giudizio dovrebbe essere obiettivo: i soldati sono vili perché non
combattono (ma non è poi un male se quei «poveri» mandati a
combattere contro altri poveri si tirano indietro), gli ufficiali
sono capaci, manca una strategia unitaria. Più severa è la sua
opinione per l'Italia ufficiale che arriva in Libia attraverso i suoi
organi di stampa e la propaganda:«Mentono e svisano tutto; ma non
val la pena di prendersela». Solo gli arabi comunque hanno diritto
di dire che si battono per l'onore (della patria e dell'Isiam).
C'è un altro punto su
cui la critica di Enver precorre i problemi. La difesa
dell'indipendenza, della Libia o dell'Impero Ottomano, comporta di
far guerra all'Europa, o meglio di reagire alla guerra che esporta
l'Europa, ma l'Europa è anche la fonte di una «civiltà» a cui
Enver personalmente e con lui l'élite che egli rappresenta è
sensibile. Per certi aspetti è un conflitto contro natura. Ma
inevitabile. Così come inevitabile appare a Enver — dalla sua
prospettiva di «resistente» a fianco degli arabi — la
degradazione della civiltà arabo-islamica che il contatto con
l'Occidente finirà per provocare.
Poco più di
un'intuizione, ma il dramma del colonialismo (e della
decolonizzazione) non avrebbe più lasciato la sfortunata terra
libica.
"il manifesto", ritaglio senza data, ma 1986
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