Carolina Invernizio |
Il romance - quel
genere narrativo ibrido e spurio che potremmo definire «delle
avventure mirabolanti» e «delle passioni estreme» - trova la sua
consacrazione nel romanzo gotico, in voga nell'Inghilterra di fine
Settecento, tra orrorosi castelli medievali e lugubri monasteri, cari
agli Waipole, Lewis e Mathurin e alla regina del genere, Ann
Radcliffe.
Tra le pulsioni che sordamente bussano al cuore dei
persecutori di codesti pastiche romanzeschi eccellono quelle
sessuali: se la parola «stupro» non vi risuona esplicita, certo
serpeggia costante tra le righe. Ne sanno qualcosa le eroine-vittime
dell'erede francese del romance: il feuilleton o
romanzo d'appendice, che un geniale direttore di giornali, Émile de
Girardin, ebbe l'audacia di lanciare sul proprio quotidiano La
Presse, nel 1836, pubblicando a puntate (ognuna delle quali doveva
concludersi a sorpresa, tenendo ben desta l'attenzione dei lettori)
romanzi eccitanti.
Nel giugno del 1842, sul Journal des Débats,
Eugène Sue cominciò a pubblicare il lungo romanzo cui è legata la
sua fama, I misteri di Parigi. Dal 1844, Sue trovò un
concorrente in Paul Féval che, sul Courier
Francois, prese a pubblicare I misteri di Londra.
Nel tenebrore delle capitali, le viuzze malfamate erano percorse
incessantemente da carrozze di gentiluomini in foia, che - dopo aver
sfogato gii istinti più bassi con le solite donne prezzolate - si
volevano a ogni costo concedere il cosiddetto «privilegio», quello
di spulzellare qualche malcapitata vergine dei paraggi.
In Le due
orfanelle, strepitoso successo in libreria e a teatro dell'astuta
coppia D'Hennery - Cormon, Henriette è rapita da un aristocratico
dissoluto e la sorella Louise è costretta a mendicare: ambedue
difendono a gambe strette quel «prezioso dono» (traduco dal testo
francese): intanto David Griffith (1922) e tre italiani (Gallone,
1942; Gentilomo, 1951; Preda, 1966) ne traggono quattro film
adeguatamente pruriginosi.
In Italia sono i futuristi ad agguantare
nel loro onnivoro appetito i rimasugli dell'afrodisiaco banchetto,
che la fedele e remissiva moglie di un irrequieto militare, la
signora Carolina Invernizio, aveva neppur troppo modestamente
allestito, suscitando in tanti mariti desideri inconfessabili, tra
sepolte vive (la necrofilia ha il suo lato eccitante) e mute di
Portici (se metti le mani sul loro sedere, non possono di certo
strillare). Marinetti, autore del dimenticato manualetto Come si
seducono le donne, congeda in proprio L'alcova d'acciaio,
tutto un programma di variazioni carnali tra il bellico e il
ferruginoso, mentre col camerata Bruno Corra (al secolo Corradini
Ginanni) dà il suo bravo contributo al romanzo erotico-sociale
L'isola dei baci (1918), elegia del saffismo, e derisione
dell'omosessualità maschile.
Li aveva preceduti senza tante manie
innovative Umberto Notari, che, con Quelle signore (1904), «
scene di uno grande città moderna», aveva squarciato il velo sui
segreti delle case chiuse: e si beccò un processo per oltraggio al
pudore, da cui uscì due anni dopo assolto.
Come spesso accade a noi
provinciali, eravamo stati battuti sul tempo dai nostri cugini
d'Oltralpe. II francese Marcel Prévost con Le semivergini (1894)
aveva spiegato che con il «coito clitorideo» ci si poteva
presentare intatte e in abito bianco all'altare; mentre, a puro scopo
di sopravvivenza, il ventisettenne protopoeta d'avanguardia Guillaume
Apollinaire s'era scatenato nel delirio pornografico di Le
undicimila verghe (1907), imitato per le stesse ragioni di
portafoglio dal trentenne surrealista Louis Aragon con La vulva
d'Irene. Con natali culturalmente meno nobili e politicamente
poco raccomandabili, Pitigrilli (all'anagrafe Dino Segre), aveva
posato da romanziere scandalistico e controcorrente con Cocaina
(1921) e con La vergine a 18 carati (1924).
Chi oggi scrive romances
con la loro dose di sesso, anche se schermata da una debita ironia?
Sostituite alle segrete e alle celle le stanze dei campus americani,
ed eccovi calati in un romanzo di Philip Roth.
“Il venerdì di
Repubblica”, 9 giugno 2013
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