12.9.14

“Romance”. Sesso e letteratura popolare (Guido Davico Bonino)

Carolina Invernizio
Il romance - quel genere narrativo ibrido e spurio che potremmo definire «delle avventure mirabolanti» e «delle passioni estreme» - trova la sua consacrazione nel romanzo gotico, in voga nell'Inghilterra di fine Settecento, tra orrorosi castelli medievali e lugubri monasteri, cari agli Waipole, Lewis e Mathurin e alla regina del genere, Ann Radcliffe. 
Tra le pulsioni che sordamente bussano al cuore dei persecutori di codesti pastiche romanzeschi eccellono quelle sessuali: se la parola «stupro» non vi risuona esplicita, certo serpeggia costante tra le righe. Ne sanno qualcosa le eroine-vittime dell'erede francese del romance: il feuilleton o romanzo d'appendice, che un geniale direttore di giornali, Émile de Girardin, ebbe l'audacia di lanciare sul proprio quotidiano La Presse, nel 1836, pubblicando a puntate (ognuna delle quali doveva concludersi a sorpresa, tenendo ben desta l'attenzione dei lettori) romanzi eccitanti. 
Nel giugno del 1842, sul Journal des Débats, Eugène Sue cominciò a pubblicare il lungo romanzo cui è legata la sua fama, I misteri di Parigi. Dal 1844, Sue trovò un concorrente in Paul Féval che, sul Courier Francois, prese a pubblicare I misteri di Londra. Nel tenebrore delle capitali, le viuzze malfamate erano percorse incessantemente da carrozze di gentiluomini in foia, che - dopo aver sfogato gii istinti più bassi con le solite donne prezzolate - si volevano a ogni costo concedere il cosiddetto «privilegio», quello di spulzellare qualche malcapitata vergine dei paraggi. 
In Le due orfanelle, strepitoso successo in libreria e a teatro dell'astuta coppia D'Hennery - Cormon, Henriette è rapita da un aristocratico dissoluto e la sorella Louise è costretta a mendicare: ambedue difendono a gambe strette quel «prezioso dono» (traduco dal testo francese): intanto David Griffith (1922) e tre italiani (Gallone, 1942; Gentilomo, 1951; Preda, 1966) ne traggono quattro film adeguatamente pruriginosi. 
In Italia sono i futuristi ad agguantare nel loro onnivoro appetito i rimasugli dell'afrodisiaco banchetto, che la fedele e remissiva moglie di un irrequieto militare, la signora Carolina Invernizio, aveva neppur troppo modestamente allestito, suscitando in tanti mariti desideri inconfessabili, tra sepolte vive (la necrofilia ha il suo lato eccitante) e mute di Portici (se metti le mani sul loro sedere, non possono di certo strillare). Marinetti, autore del dimenticato manualetto Come si seducono le donne, congeda in proprio L'alcova d'acciaio, tutto un programma di variazioni carnali tra il bellico e il ferruginoso, mentre col camerata Bruno Corra (al secolo Corradini Ginanni) dà il suo bravo contributo al romanzo erotico-sociale L'isola dei baci (1918), elegia del saffismo, e derisione dell'omosessualità maschile. 
Li aveva preceduti senza tante manie innovative Umberto Notari, che, con Quelle signore (1904), « scene di uno grande città moderna», aveva squarciato il velo sui segreti delle case chiuse: e si beccò un processo per oltraggio al pudore, da cui uscì due anni dopo assolto. 
Come spesso accade a noi provinciali, eravamo stati battuti sul tempo dai nostri cugini d'Oltralpe. II francese Marcel Prévost con Le semivergini (1894) aveva spiegato che con il «coito clitorideo» ci si poteva presentare intatte e in abito bianco all'altare; mentre, a puro scopo di sopravvivenza, il ventisettenne protopoeta d'avanguardia Guillaume Apollinaire s'era scatenato nel delirio pornografico di Le undicimila verghe (1907), imitato per le stesse ragioni di portafoglio dal trentenne surrealista Louis Aragon con La vulva d'Irene. Con natali culturalmente meno nobili e politicamente poco raccomandabili, Pitigrilli (all'anagrafe Dino Segre), aveva posato da romanziere scandalistico e controcorrente con Cocaina (1921) e con La vergine a 18 carati (1924).
Chi oggi scrive romances con la loro dose di sesso, anche se schermata da una debita ironia? Sostituite alle segrete e alle celle le stanze dei campus americani, ed eccovi calati in un romanzo di Philip Roth.


“Il venerdì di Repubblica”, 9 giugno 2013

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