4.9.14

"Quel polpettone del Gattopardo". Valentino Parlato ricorda Elio Vittorini

L'articolo che segue corredava - come testimonianza - la recensione a un libro su Vittorini in un supplemento libri del “manifesto” del 1992. 
Una curiosità. Parlato cita una macchietta di Paolo Villaggio, forse come esempio di cultura degradata. Fantozzi non diventò mai direttore de “l'Unità”, ma con questa firma Villaggio aveva collaborato con “Paese sera” e con la propria curò poi una rubrica addirittura sul “manifesto quotidiano comunista”. Negli anni duemila. (S.L.L.)
Elio Vittorini
«Vittorini se n'è ghiuto, e soli ci ha lasciato!...»
«Vittorini se n'è ghiuto, e soli ci ha lasciato!...». 
Questo era lo sprezzante (e non a caso si usava una parola meridionale) titolo del corsivo con il quale Roderigo di Castiglia (cioè Palmiro Togliatti) commentava l'uscita di Elio Vittorini dal Pci sul numero di “Rinascita” mensile del 1951.
Quel titolo e quel corsivo non piacquero a molti compagni dell'allora Pci. Avevo vent'anni, ero giovane e mi piaceva l'arroganza di Togliatti, ma quella volta mi sembrò gratuita: il contrario dell'utile di Brecht nelle Storie di Me-Ti. E poi, anche per i più giovani, quelli che non avevano vissuto né l'antifascismo, né le resistenza, Vittorini era un mito. Per molti di noi, appena usciti dall'adolescenza (anche se allora si maturava prima, come la frutta che matura perché è sbattuta nelle cassette) Vittorini era due cose: l'Americana e Uomini e no; Conversazione in Sicilia era più lirico. Era un connubio - quello tra l'antologia americana e Uomini e no - forse strano e contraddittorio, però a molti di noi piaceva: la tensione di Furore del vecchio Steinbeck (poi credo passato all'altra parte) e il linguaggio sincopato, in tuta blu, di Uomini e no piaceva a molti di noi, giovanissimi appena arrivati alla politica attraverso percorsi niente affatto scontati e prevedibili. Rainer Maria Rilke fu una specie di maestro di quelle generazioni e, tuttavia, Elio Vittorini, così antitetico alla cultura e all'editoria primi anni '50, fu un amore e un cruccio. Per questo molti di noi non amarono il corsivo di Roderigo di Castiglia, che ancora oggi trovo di difficile razionalizzazione.
Oggi viene quasi voglia di ripetere la brutta battuta di Togliatti («Vittorini se n'è ghiuto, e soli ci ha lasciato!...») in un senso del tutto opposto. Vittorini se n'è proprio andato, anzi è stato cancellato. Certo, da Uomini e no ci separano all'incirca cinquantanni, tutti siamo più ricchi in Italia. Anche nei paesi del Terzo mondo la popolazione si è accresciuta e la speranza di vita si è allungata, tuttavia i «no» sono smisuratamente aumentati di numero. Chi rappresenta i «no», non in modo pietistico, assistenzialistico, ora che «Vittorini se n'è ghiuto»?
A dirla tutta si dovrebbe dire che Vittorini ha rotto con Togliatti, perché noi abbiamo rotto con lui. Non abbiamo capito Uomini e no e abbiamo apprezzato i “Menabò” come un interessante sperimentalismo. In tempi di postmoderno, di Funari e di Fantozzi (che peccato che "l'Unità" non sia stata fondata da Fantozzi e non abbia Antonio Gramsci tra i suoi collaboratori), anche Vittorini va sepolto, dimenticato, riposto fra le macerie del socialismo reale.

P.S. Se posso aggiungere una mia valutazione su un terreno nel quale sono del tutto incompetente, quello editoriale, mi piacerebbe aggiungere che Elio Vitttorini fece benissimo a bocciare quel gradevole polpettone di storia patria che ebbe come titolo Il gattopardo e che, anche a prova della sua inconsistenza è stato il massimo generatore di luoghi comuni degli ultimi trent'anni della nostra vita. Ma, a leggere Ferretti, parrebbe che Vittorini non lesse neppure una pagina del dattiloscritto di Tom-masi di Lampedusa. Sarebbe una conferma dello straordinario intuito di Elio Vittorini.


“il manifesto – la talpa giovedì”, 9 ottobre 1992

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