3.9.14

Edoardo Sanguineti: "Se io fossi junghiano...". Le immagini vendicative

Carl Gustav Jung
Se io fossi junghiano (che non sono, un po' per incompetenza professionale, si capisce, e un po' e forse soprattutto, per allergia ideologicamente fondata), mi porrei il problema delle resistenze allo junghismo, e delle relative motivazioni. E probabilmente, ancora, direi (poiché non sarebbe una questione soltanto nazionale) che si tratta, genericamente parlando, di resistenze al simbolico in quanto tale, anche se variamente e diversamente razionalizzate. Di qui, un'ipotesi certamente arrischiata, ma seducente: che i trionfi della semiologia siano la forma ultima, e oggi dominante, nella cultura europea globalmente considerata, onde reprimere, con il simbolico, tutte le pulsioni dell'inconscio di cui esso è normale veicolo. E sarebbe risposta perfettamente ortodossa (junghianamente), mi pare, poiché tra le preoccupazioni e i pensieri dominanti di Jung fu proprio la distinzione netta tra semiotico e simbolico.
Si può deplorare il tutto da un punto di vista accademico: per rimanere in Italia, adesso, si può osservare che i competenti credibili di storia e di scienza del simbolico sono più rari delle mosche e dei corvi bianchi, così nell'ambito largo delle scienze umane, come in quello, più limitato, ma non poco sintomatico, della scienza della letteratura e dell'arte. Come «Ersatz», cioè in sostituzione, vige un po' di discorsi intorno all'iconografia per dive.
Il tutto meriterebbe di essere studiato da un punto di vista più profondo (di psicologia del profondo, e di inconscio collettivo, proprio, se non si vuole fare un passo vero, e onesto, in direzione sociologica), con una «Einstellung», un atteggiamento, un po' più analitica, per l'appunto. Non voglio dire, si intende, che le resistenze a Jung significhino immediatamente resistenze
al simbolico in quanto tale. Dico che rientrano in questo quadro, e che non sono un buon indizio, così inquadrate, di buona salute psichica collettiva (e, insomma, di buona salute sociale). Se non altro, perché è lasciata via libera a un simbolico non disciplinato, non sorvegliato, non razionalmente gestito. Scambiato per segno, riduzionisticamente, il simbolo si vendica. E le immagini sono piuttosto vendicative, come si è visto molte volte, nella storia naturale dell'uomo (animale simbolico, non segnico soltanto).
Continuando ancora un pezzettino su questa strada, le cose, però, per me, vengono intanto direttamente a rovesciarsi, come è giusto. Perché si arriva alla domanda, infine, che mette in giuoco il significato di Jung e dello junghismo (e della «jung-renaissance»). La risposta rozza, ma suppongo non inautentica, è che Jung in blocco ha rappresentato un enorme «ritorno del rimosso», ed è tutt'altro che spiegabile, di conseguenza, come un accidente o un infortunio nella storia del freudismo, e dunque come questione interna alle vicende della teoria e della pratica psico-analitica. Non manca niente, infatti, o quasi niente dall'alchimia all'astrologia, dalla mistica alla «Synchronizitat», dallo yoga ai mandala, dalla tipologia psicologica come fisionomica antimaterialistica alla parapsicologia, dalla mistica agli Ufo — sto per dire alla psicoanalisi (cioè, a una certa idea della psicoanalisi e dello psichismo).
Con il volume ottavo dell'edizione Boringhieri, a disposizione da un anno, consiglierei a qualunque connazionale di andarsi a leggere almeno le prime pagine del Problema fondamentale della psicologia contemporanea, con la neutralizzazione ivi operata della questione idealismo-materialismo (anzi, mi correggo, spiritualismo-materialismo), con la polemica contro la «psicologia senz'anima», e poi, soprattutto, con le invettive contro lo «spirito del tempo» (« Nulla vieta alla speculazione intellettuale di spiegare l'indeterminazione al livello atomico con l'ipotesi di una vita spirituale»). Dietro, ci sta sempre Shopehnauer.
Comunque, per il candido lettore, che può temere di smarrirsi, vittima di una manovra tendenziosa, ai margini, tengo disponibile, come ricambio insospettabile, la conclusione dei Tipi psicologici, dove risuona, nitidissima, la solita parola d'ordine della «destra tradizionale»: tutti i disastri incominciano con gli immortali principi, e la storia si oscura (perde di senso) con l'Ottantanove («In questa nostra epoca nella quale sulla base delle conquiste della Rivoluzione francese, etc. etc»). Lo «spirito del tempo» contro il quale Jung si scatena, è quello lì, naturalmente...
Adesso, formulate così una specie di tesi e di antitesi, molto di corsa, vengo a una possibile sintesi. E può essere la considerazione che Jung non è affatto condannato ad essere, essendo tale qual è, manipolato in esclusiva dalla «destra tradizionale». Forse, chi se ne intende, potrebbe operare un po' alla maniera di Walter Benjamin, quando, circa quarant'anni orsono, trovandosi di fronte all'eredità di Bachofen, lanciò la parola d'ordine della «profezia nell'ambito della scienza». Il ponte, in proposito, per non allontanarci troppo da Jung, è nel Karl Kerény carteggiante con Thomas Mann (e viceversa). E si tratterebbe di restaurarlo, soltanto, e di percorrerlo, poi, sino in fondo. Insomma, di fronte alla «jung-renaissance» che si disegna, la strategia migliore, culturalmente, è quella di puntare sopra un rovesciamento della gestione spiritualistica del simbolico.
Da noi, per intanto, bisognerebbe incominciare a rileggere un po' di Vico.


“la Repubblica”, 1 settembre 1977

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