17.9.14

Un sogno in cielo. Due millenni di aquiloni (Federico Zeri)

L'articolo dotto e acuto di un grande storico dell'arte racconta e spiega una tradizione antica, sempre nuova. (S.L.L.)

Professore di Storia della cultura europea, il signor Genij Mitsunobu mi era stato vivamente raccomandato da più parti come uno dei più profondi e prestigiosi rappresentanti dell'alta cultura giapponese. Fui anzi pregato di accompagnarlo, sin dove possibile, durante una sua visita in Italia, destinata alla conoscenza (nuova o ripetuta) di luoghi e monumenti rinascimentali.
Tutto andò bene, e fu persino piacevole rivedere assieme a lui la Cappella Sistina, Villa Adriana e il Duomo di Orvieto; tutto andò bene sino al 29 agosto, quando avevamo deciso di fare una gita ad Urbino, luogo che Genij Mitsunobu desiderava ardentemente conoscere: il duca Federico da Montefeltro, il giovane Raffaello, Bramante, il Castiglione, eccetera eccetera.
Ma il 29 era domenica, e la sera precedente fui colto da un improvviso febbrone; la gita, il professore dovette farla da solo, e la mattina di lunedì, quando gli telefonai per avere notizia dell'esito della visita, mi rispose in modo impacciato, esitante, dicendomi alla fine di non aver visto né la Flagellazione di Piero della Francesca, né lo «Studiolo» di Federico da Montefeitro, e di non essere neppure entrato nel Palazzo Ducale.
Pensai a uno sciopero selvaggio del personale di custodia; ma la ragione dell'imprevisto cambiamento era più profonda e più antica, coincidendo con il fatto che l'ultima domenica di agosto (e il 29 era appunto quel giorno) la città di Urbino celebra la Festa dell'Aquilone, in memoria della famosa poesia di Giovanni Pascoli.
Ora, si ha un bel parlare di cultura, di acculturazione, di trapianti culturali: la tradizione in cui si è nati e cresciuti resta sempre la più forte, riemergendo nei momenti e nei modi più imprevisti. Per il professor Genij, la vista degli aquiloni aveva dato un colpo di spugna alle stratificazioni conoscitive e alle decennali fatiche di penetrare entro un contesto di strutture mentali remote, aliene; gli aquiloni avevano risvegliato in lui memorie ataviche, ricordi dell'infanzia, connessioni tra il dato visibile e i simboli religiosi e sociali: insomma, lo avevano sradicato dai colli urbinati, riportandolo a territori più familiari e meno remoti, i territori cioè in cui l'aquilone è un elemento essenziale della vita di tutti i giorni e della cultura religiosa.
Davanti al suo imbarazzo per il viaggio a vuoto non ebbi il coraggio di fare domande, per non apparire indelicato; perciò sono rimasto con una dose di curiosità, relativa ai tanti aspetti che l'aquilone riveste nel Paese del Sol Levante e alle leggende che gli si riferiscono. Una di queste racconta che un guerriero del XII secolo, Minamoto no Tame-tomo, esiliato nell'isola di Oshima, fece fuggire suo figlio a bordo di un grande aquilone verso la terraferma; un'altra dice che il furto delle scaglie d'oro purissimo con cui erano rivestiti i delfini ornamentali sul tetto del castello di Nogoya fu possibile solo con l'ausilio di un aquilone sul quale il ladro, Kakinoki Kinsuke, si issò ad altezze spericolate, lasciandosi poi però smascherare per il fatto di non riuscire a non vantarsi in giro di un'impresa tanto audace.
Ma, leggende a parte, è certo che l'aquilone venne usato, in circostanze speciali di venti fortissimi, per issare materiale di costruzione, come le tegole del tempio Zojo-ji nel 1689. Vero o non vero che sia (ma è una notizia quest'ultima che sembra documentata), un fatto è certo, che l'aquilone (o «cometa» come si diceva un tempo da noi) ha sortito nel Giappone una inaudita varietà di forme e di colori, spesso accompagnati da figurazioni simboliche relative alla prosperità, alla vita lunga, alla fortuna, o da facce diaboliche come talismani contro il male.
In certi villaggi agricoli un'invocazione agli dèi viene scritta sulla faccia principale, chiedendo un buon raccolto, e durante una cerimonia autunnale piccole quantità di raccolto vengono attaccate alla coda dei variopinti oggetti levati in volo, che i pescatori di Chiba (sulla costa del Pacifico) innalzano dalle loro barche al ritorno da lunghi viaggi, ognuno con l'emblema della propria famiglia, sì che questa venga avvertita sulla spiaggia del felice ritorno.
Eppure, nonostante una tale verità di usi e di significati, l'aquilone non è originano delle isole giapponesi; la sua invenzione risale (per comune accettatone) al 200 circa avanti Cristo, e in territorio cinese; sarebbe stato il generale Han Hsin ad usarlo per misurare la distanza tra il suo esercito e le mura di una città assediata, che lui voleva far cadere scavando una galleria sotterranea.
Di aquiloni parla Marco Polo durante il suo soggiorno in Cina, dove riti e varietà sono innumerevoli. Anche oggi, nel nono giorno del nono mese si celebra la Giornata dell'Aquilone, con un rituale complicato che nel 1866 fu celebrato, nella sola città di Canton, da quasi 40.000 persone. Che gli stretti rapporti commerciali e culturali tra Cina e Corea, Thailandia, isole del Pacifico abbiano favorito la diffusione del singolare oggetto è un fatto ben noto: quale messe di leggende e di significati si è raccolta attorno ad esso in questi territori sempre più lontani e sempre più distanti dalla raffinata cultura cinese! Ma ci si chiede quando e come l'Europa ne sia venuta a conoscenza: e qui le teorie sono più d'una.
C'è chi pensa che la via passi per l'Arabia, attraverso l'India, e di lì giunga all'Italia; altri credono che la diffusione sia avvenuta attraverso l'Asia centrale; altri ancora che la diffusione sia stata possibile soltanto nel secolo XVI, quando fu aperta la circumnavigazione dell'Africa verso le Indie Orientali. Certo è che un manoscritto del 1346, il De Nobilitatibus di Walter de Milemete, mostra un marchingegno attaccato a una corda dal quale cadono su una città assediata sfere infiammate (non diremo bombe incendiarie). Il marchingegno è una sorta di aquilone a forma di drago o, meglio ancora, di calza gonfiata dal vento.
E in un altro manoscritto del 1405, il Bettifortis di Konrad Kyeser, si vedono cavalieri al galoppo che recano, attaccati a un filo, lunghi draghi gonfiati dall'aria, e che una specie di vite consente di innalzare o avvicinare. Si tratta di derivazioni di quanto era già noto agli Arabi (e a certi giocattoli dei loro bambini?). O bisogna parlare di evoluzione di qualcosa che era già noto nel tardo Impero romano? La risposta è, per molti scrittori, incerta, sebbene esista una prova che, come oggetto di svago, esso era già noto all'antichità classica; esiste infatti un vaso greco a figure rosse su fondo nero, oggi nel Museo Nazionale di Napoli, in cui si vede una ragazza che fa volare, tenendolo attaccato ad un filo, un aquilone triangolare.
Tuttavia, è possibile che il «cervo volante», nella forma in cui riappare alla fine del Medioevo, derivi da certe insegne di alcuni reparti dell'esercito romano, che erano in metallo, a forma di drago dal profilo ondulato. Che da essi si sia svolto un tipo simile di pennone in tessuto, attaccato ad un filo e gonfiato dal vento durante le galoppate dei cavalieri, è ben possibile; né è da escludersi che questo tipo, diciamo così, occidentale, sia poi stato modificato dall'arrivo dei modelli estremo-orientali.
A ogni modo, in Europa l'aquilone non ha mai sortito questi significati simbolici e religiosi che ne caratterizzano la storia in Cina e nelle culture più o meno modellate su quella cinese. C'è da dire che in Occidente l'aquilone ha trovato utilizzazioni e impieghi talvolta non dissimili da quelli che da secoli conosceva l'Estremo Oriente; ad esempio nella caccia, nella pesca, nella meteorologia o in guerra. Oggi però si assiste, un po' dovunque ma soprattutto negli Stati Uniti, alla ricerca di nuove forme, spesso di sorprendente aspetto, che forse, in un prossimo futuro, porteranno a utilizzazioni per il momento difficilmente prevedibili.
A sentire certe voci, il cervo volante ha, in condizioni favorevoli, possibilità di volo quasi infinite: si parla di un esemplare, lanciato da Urbino e attaccato costantemente al suo filo, che cadde a Palma di Majorca, o di un altro aquilone che, sempre dalla stessa fonte, viaggiò per migliaia di chilometri, spaventando le popolazioni delle isole Azzorre, sulle quali apparve illuminato dal sole dell'alba. 
Ma forse più che di favole si tratta di speranze, di desideri di evasione, di sogni fragili, affidati a un soffio e legati a una cordicella e alla mano che la stringe.

"L'Europeo", 4 ottobre 1982

Nessun commento:

statistiche