Tra la via Etnea e il
West, si potrebbe dire pescando da Piccola città di Guccini,
mentre con gli occhi dell’immaginazione ci si aggira in Sicilia: La
fabbrica del mito di Matteo Collura (Longanesi) ci fa da guida
nel «labirinto di inconfessabili imbrogli» costruito con pazienza
millenaria da uomini che hanno «un fuoco nella testa» più ardente
della lava del vulcano.
Si parte dalla Catania di
Vincenzo Bellini e di Vitaliano Brancati, rispettivamente
ossessionati da superfemmine devastatrici e da supermaschi
dissipatori, per attraversare l’intera isola, dove più di mezzo
secolo fa spadroneggiava un «pezzente diventato leggenda grazie a
giornalisti fantasiosi e a funzionari dello Stato privi di scrupoli»:
quel Salvatore Giuliano che si spinse persino a scrivere al
presidente americano Truman di essere pronto a combattere per
«tagliare la catena che tiene la Sicilia legata all’Italia».
Salvo che quel personaggio degno di Verga finì invece manovrato da
individui più scaltri di lui che lo spinsero a spezzare nel sangue
il movimento dei contadini che cercavano riscatto sociale. «Turiddu»
come Robin Hood, che rubava ai ricchi per dare ai poveri? Piuttosto
il contrario. Un brigante semmai più simile a Jesse James, al tempo
della difficile pace che seguì la Guerra Civile americana
(1861-1865), diventato fuorilegge per odio dei bianchi e dei neri che
avevano abbattuto la schiavitù. Per di più, l’ottocentesco
missouriano e il novecentesco «Re di Montelepre» dovevano cadere
traditi da dei «piccoli Giuda», reclutati tra i loro stessi amici.
Tutte uguali, nella loro struttura di fondo, quelle storie di
violenza e malafede, che sono state poi trasfigurate nell’epica
delle ballate popolari? Collura individua con chiarezza la
peculiarità del suo West: «La mafia ha fatto dell’isola cantata
dai poeti una brutale frontiera dove tutto è possibile», persino
che «la più infame organizzazione criminale si faccia mito». La
Sicilia avrebbe così scelto liberamente il proprio destino di non
libertà?
Matteo Collura, però,
non parla solo di criminalità organizzata, di collusione della
malavita con le istituzioni, di un anti-Stato che pure vorrebbe
sembrare invisibile; ma ci racconta «di scienziati folli, di avidi
monaci barbuti, di sghignazzanti aristocratici»: dal sublime Tomasi
di Lampedusa, autore del Gattopardo, all’uomo che seppe scomparire
così bene da lasciare insoluto il rompicapo della sua fine,
quell’Ettore Majorana cui hanno dedicato appassionate indagini un
grande romanziere come Leonardo Sciascia e un fisico scrupoloso come
Erasmo Recami. In duecento pagine abbiamo così una piccola
enciclopedia di tante vicende reali non meno pirandelliane di quelle
narrate dall’autore del Fu Mattia Pascal: sono come tessere
di un mosaico incentrato sul carattere fluido e precario della nostra
identità come individui e come popolo, in incessante sospensione tra
l’inconsistenza delle apparenze e la durezza della realtà.
Siciliano quasi consumato dall’amore indignato per la sua isola,
Matteo Collura ne analizza l’intrico di misteri, vivendo in un
profondo Nord all’apparenza ben più asettico: basti confrontare
l’organizzazione fin troppo perfetta con cui ogni due anni la
ligure Savona gestisce la processione del Venerdì Santo con le sacre
rappresentazioni che si tengono in Sicilia, ove è di continuo
«esibito il gusto per la tragedia». Posso anch’io lasciarmi
cogliere dalla sensazione - per altro sempre più diffusa - che
ovunque in Italia la vanità sia più forte della miseria, e che
quindi il contrasto tra Nord e Sud sia insieme stridente ma illusorio
come un miraggio: sono savonese da parte di padre e siculo da parte
di mamma; e dunque mi piace l’idea di Collura per cui la parola del
mito possa essere «l’ultima spiaggia della razionalità, il solo
ambito in cui l’uso parossistico e ossessivo della ragione può
trovare sfogo e libertà».
La Sicilia pare segnata
proprio dal mito che ne fa il paese in cui il Demonio prese moglie.
Come narrano le Metamorfosi di Ovidio, Proserpina coglieva
fiori presso «il lago dalle acque profonde» vicino a Enna; «in un
lampo Plutone la vide, se ne invaghì e la rapì: tanto precipitosa
fu quella passione». Cerere - la madre della fanciulla - maledice le
contrade di Sicilia «chiamandole ingrate e indegne del dono delle
messi» (ma alla fine il dio Giove arriva a un compromesso: ogni anno
Proserpina passerà sei mesi sulla superficie terrestre, sei mesi nel
«tenebroso mondo dei morti», dopo opportune «nozze riparatrici»).
Ma la forza del mito può
anche venire spezzata. Nel 1965 una ragazza (Franca Viola) ha avuto
il coraggio di ribellarsi «allo stupro legalizzato, molti anni prima
che lo Stato ne correggesse la sfacciata ignominia istituzionale»,
rifiutandosi di sposare il teppista che l’aveva rapita, convinto
forse di ripercorrere le orme dell’antico dio degli inferi.
Commenta Matteo Collura: «La più grande rivoluzionaria che la
Sicilia abbia avuto». Alla faccia di qualsiasi «gioviale»
compromesso! E il viaggio con l’immagine femminile della Testa
di Medusa disegnata da Bruno Caruso (1977): terribile la chioma
di serpenti, ma lo sguardo risplendente di coraggio.
“Corriere della Sera”,
7 marzo 2013
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