4.9.14

L'«isola degli eccessi». La Sicilia e il suo mito (Giulio Giorello)

Tra la via Etnea e il West, si potrebbe dire pescando da Piccola città di Guccini, mentre con gli occhi dell’immaginazione ci si aggira in Sicilia: La fabbrica del mito di Matteo Collura (Longanesi) ci fa da guida nel «labirinto di inconfessabili imbrogli» costruito con pazienza millenaria da uomini che hanno «un fuoco nella testa» più ardente della lava del vulcano.
Si parte dalla Catania di Vincenzo Bellini e di Vitaliano Brancati, rispettivamente ossessionati da superfemmine devastatrici e da supermaschi dissipatori, per attraversare l’intera isola, dove più di mezzo secolo fa spadroneggiava un «pezzente diventato leggenda grazie a giornalisti fantasiosi e a funzionari dello Stato privi di scrupoli»: quel Salvatore Giuliano che si spinse persino a scrivere al presidente americano Truman di essere pronto a combattere per «tagliare la catena che tiene la Sicilia legata all’Italia». Salvo che quel personaggio degno di Verga finì invece manovrato da individui più scaltri di lui che lo spinsero a spezzare nel sangue il movimento dei contadini che cercavano riscatto sociale. «Turiddu» come Robin Hood, che rubava ai ricchi per dare ai poveri? Piuttosto il contrario. Un brigante semmai più simile a Jesse James, al tempo della difficile pace che seguì la Guerra Civile americana (1861-1865), diventato fuorilegge per odio dei bianchi e dei neri che avevano abbattuto la schiavitù. Per di più, l’ottocentesco missouriano e il novecentesco «Re di Montelepre» dovevano cadere traditi da dei «piccoli Giuda», reclutati tra i loro stessi amici. Tutte uguali, nella loro struttura di fondo, quelle storie di violenza e malafede, che sono state poi trasfigurate nell’epica delle ballate popolari? Collura individua con chiarezza la peculiarità del suo West: «La mafia ha fatto dell’isola cantata dai poeti una brutale frontiera dove tutto è possibile», persino che «la più infame organizzazione criminale si faccia mito». La Sicilia avrebbe così scelto liberamente il proprio destino di non libertà?
Matteo Collura, però, non parla solo di criminalità organizzata, di collusione della malavita con le istituzioni, di un anti-Stato che pure vorrebbe sembrare invisibile; ma ci racconta «di scienziati folli, di avidi monaci barbuti, di sghignazzanti aristocratici»: dal sublime Tomasi di Lampedusa, autore del Gattopardo, all’uomo che seppe scomparire così bene da lasciare insoluto il rompicapo della sua fine, quell’Ettore Majorana cui hanno dedicato appassionate indagini un grande romanziere come Leonardo Sciascia e un fisico scrupoloso come Erasmo Recami. In duecento pagine abbiamo così una piccola enciclopedia di tante vicende reali non meno pirandelliane di quelle narrate dall’autore del Fu Mattia Pascal: sono come tessere di un mosaico incentrato sul carattere fluido e precario della nostra identità come individui e come popolo, in incessante sospensione tra l’inconsistenza delle apparenze e la durezza della realtà. Siciliano quasi consumato dall’amore indignato per la sua isola, Matteo Collura ne analizza l’intrico di misteri, vivendo in un profondo Nord all’apparenza ben più asettico: basti confrontare l’organizzazione fin troppo perfetta con cui ogni due anni la ligure Savona gestisce la processione del Venerdì Santo con le sacre rappresentazioni che si tengono in Sicilia, ove è di continuo «esibito il gusto per la tragedia». Posso anch’io lasciarmi cogliere dalla sensazione - per altro sempre più diffusa - che ovunque in Italia la vanità sia più forte della miseria, e che quindi il contrasto tra Nord e Sud sia insieme stridente ma illusorio come un miraggio: sono savonese da parte di padre e siculo da parte di mamma; e dunque mi piace l’idea di Collura per cui la parola del mito possa essere «l’ultima spiaggia della razionalità, il solo ambito in cui l’uso parossistico e ossessivo della ragione può trovare sfogo e libertà».
La Sicilia pare segnata proprio dal mito che ne fa il paese in cui il Demonio prese moglie. Come narrano le Metamorfosi di Ovidio, Proserpina coglieva fiori presso «il lago dalle acque profonde» vicino a Enna; «in un lampo Plutone la vide, se ne invaghì e la rapì: tanto precipitosa fu quella passione». Cerere - la madre della fanciulla - maledice le contrade di Sicilia «chiamandole ingrate e indegne del dono delle messi» (ma alla fine il dio Giove arriva a un compromesso: ogni anno Proserpina passerà sei mesi sulla superficie terrestre, sei mesi nel «tenebroso mondo dei morti», dopo opportune «nozze riparatrici»).
Ma la forza del mito può anche venire spezzata. Nel 1965 una ragazza (Franca Viola) ha avuto il coraggio di ribellarsi «allo stupro legalizzato, molti anni prima che lo Stato ne correggesse la sfacciata ignominia istituzionale», rifiutandosi di sposare il teppista che l’aveva rapita, convinto forse di ripercorrere le orme dell’antico dio degli inferi. Commenta Matteo Collura: «La più grande rivoluzionaria che la Sicilia abbia avuto». Alla faccia di qualsiasi «gioviale» compromesso! E il viaggio con l’immagine femminile della Testa di Medusa disegnata da Bruno Caruso (1977): terribile la chioma di serpenti, ma lo sguardo risplendente di coraggio.


“Corriere della Sera”, 7 marzo 2013

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