10.9.14

Faulkner: "La mia America è un casinò" (Claudio Gorlier)

6 luglio 1962: William Faulkner muore a Oxford, Mississippi, dove ha trascorso quasi tutta la sua esistenza. 30 settembre 1962: il giovane studente nero James Meredith, scortato da alcuni agenti di polizia, riesce a iscriversi all’Università del Mississippi, a Oxford, dopo che il governatore Barnett ha cercato di impedirglielo. Scoppiano disordini, con due morti, e il presidente Kennedy invia le truppe per ristabilire l’ordine: alcuni giorni di autentico conflitto civile. Io c’ero; avevo appena reso omaggio alla tomba ancora provvisoria di Faulkner, e assistendo a questo che va giudicato forse l’ultimo caso di tragedia razziale negli Stati Uniti, pensai che la morte aveva risparmiato Faulkner dall’assistervi.
Faccio questa riflessione sfogliando il ricco, denso volume di William Faulkner, W.F. Scritti, discorsi e lettere, a cura di James B. Meriwether, in uscita dal Saggiatore, perché numerose, decisive pagine riguardano proprio il complesso, a suo modo tormentato, atteggiamento del sudista Faulkner di fronte al nodo dell’antagonismo e/o della convivenza razziale. Notate bene: Faulkner non era in alcun modo razzista. Aveva rifiutato di scrivere l’epitaffio commemorativo per i caduti in guerra sulla facciata del palazzo della contea, quello che domina il primo capitolo di Requiem per una monaca, perché non vi figuravano i neri. In una delle numerose lettere inviate ai giornali, ora raccolte nel volume, del 1956 Faulkner aveva espresso (a un giornale del nord) la sua sofferenza per gli attacchi subiti dai segregazionisti: «Restare sudisti senza tuttavia condividere il punto di vista della maggioranza sudista», contraria all’integrazione. Ma egli non esitava a manifestare la sua opposizione all’integrazione immediata e incondizionata». Così, ammoniva: «Rallentare, ora. Fermatevi per un po’, per un momento». Parlava, qui, l’uomo del profondo Sud, e avvertiva: «Il nordista, il liberale, non conosce il Sud».
Quel Sud era stato sconfitto, e senza dubbio umiliato, dal Nord un secolo prima, con la guerra civile. La sconfitta del Sud non aveva distrutto soltanto un sistema politico e comportamentale ma una cultura nel senso più ampio della parola, una cultura, tra l’altro, fondata in larga misura sull’utopia, quella che aveva sostanzialmente contribuito, con i sudisti Washington e Jefferson, a sostanziare i principi della Costituzione americana. Ma gli storici hanno spiegato che all’utopia, alla morale sudista si contrapposero i valori concreti della società dei commerci, del profitto, dell’industria, peculiari del Nord. Così, affrontando l’inquietante problema del «profondo Sud in travaglio», Faulkner formula un interrogativo fondamentale: «Il Sogno americano: che ne è stato?». Qui prende vigorosamente la parola l’intellettuale militante del Sud, nel segno di un paradosso che Faulkner ha incarnato come molta parte della cultura del Sud sconfitto: l’universalità del suo respiro, di cui Faulkner è una delle più vigorose espressioni. «L’America non ha ancora trovato posto a colui che si occupa soltanto di cose dello spirito umano», preoccupandosi di vendere sapone o sigarette o penne stilografiche. Lo scienziato e l’umanista «potrebbero ancora salvare la civiltà».
Così, l’integrazione imposta per legge ai sudisti arriva direttamente da quale sogno tradito, o falsato, del quale il Sud rimane tormentosamente depositario. Insisto sul «tormentosamente» o addirittura tragicamente, due componenti - se permettete - quasi shakespeariane dell’arte di Faulkner. Purtroppo, «l’America non ha bisogno di artisti perché essi non contano in America».
L’eredità sudista sostanzia l’autentico umanesimo - termine che emerge non a caso - peculiare della sua tradizione. Ma le contraddizioni non si possono cancellare e allora la creatività le fa proprie. Sta qui la grandezza di Faulkner. Le pagine, assai numerose, che Faulkner dedicò alla letteratura ribadiscono la centralità dell’identità sudista persino a livello geografico, quotidiano «il suo respiro, il sangue, la carne, tutto» e la sua capacità di trascenderla. La parola «tragedia» ricorre non a caso nel discorso di accettazione del premio Nobel, per cui la sua è «l’opera di una vita trascorsa nell’agonia (io avrei tradotto lo agony con «sofferenza» o «struggimento») e nel sudore dello spirito umano. Dunque: ridiamo vigore ai problemi dello spirito.
Chi non conosca a fondo l’opera di Faulkner si stupirà perché in ogni sua discussione sulla letteratura, sembri quasi del tutto indifferente alle problematiche del linguaggio, lui, uno dei massimi reinventori del linguaggio narrativo del Novecento. Nelle recensioni, nelle prefazioni, nelle lettere, Faulkner si cimenta quasi esclusivamente con tematiche speculative. Incidentalmente, è nota e dichiarata la sua indifferenza per Joyce, ovvero per uno dei maestri del linguaggio novecentesco. Scegliamo a caso due esempi quanto mai significativi. Uno è il breve contributo dedicato a uno dei pochi scrittori stranieri di cui si occupa: Camus. «Rifiutò di seguire il sentiero la cui unica meta era la morte... Il sentiero che seguì aveva per meta la luce del sole». L’altro riguarda un solo, ampio capoverso, su Il vecchio e il mare di Hemingway. «Il suo meglio», afferma risolutamente Faulkner. «Finora i suoi uomini e le sue donne si erano fatti da sé... Stavolta ha scritto della pietà: di qualcosa che da qualche parte li ha creati tutti». Non dimentichiamo, la dimensione dell’ironia mai gratuita. Eccola applicata, corrosivamente, alla politica: «La nostra vecchia politica estera era la politica interna di un casinò... Quella nuova sembra il direttore del casinò che chiede alla propria categoria il permesso di armare di pistola il buttafuori. Attenzione all’anno: è l’11 febbraio 1957. Faulkner è sempre da riscoprire.

“Tuttolibri – La Stampa”, 25 settembre 2010


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