9.9.14

Il futuro dell'automobile e il capitalismo ecologico (Giuseppina Ciuffreda)

Un breve articolo di tre anni fa che per la rubrica “Ambiente viziato” fa il punto su un problema di grande momento: il destino dell'automobile. Non mi pare che, da allora, i termini della questione siano molto cambiati: il massimo per l'ambiente che l'industria sembra oggi proporre è l'opzione per l'elettrico, che ha poi un gravee problema di smaltimenti. Anche per questo l'apertura di credito che si legge tra le righe di Ciuffreda sul “capitalismo ecologico” mi pare fuori luogo. (S.L.L.)

Se a Houston, in Texas, fai una passeggiata, la polizia accosta e ti chiede se hai un problema. Perché camminare non è normale: esci e prendi l’auto. Non è un caso isolato quando la vita sociale dei cittadini è decisa dagli ingegneri del traffico. L’auto davvero ecologica non è dunque una macchina meno inquinante ma una grande trasformazione che muta radicalmente l’organizzazione e i prodotti dell’industria, ridisegna la forma delle città e sposa una mobilità diversificata basata sui trasporti pubblici.
Alexander Langer la chiamava "conversione" della produzione e degli stili di vita e per i centri di ricerca che studiano l’ecoefficienza, dal Wuppertal Institut di Wolfgang Sachs al Rocky Montain Institute di Amory e L.Hunter Lovins, al Natural Capital Institute di Paul Hawken, è la "terza rivoluzione industriale" ed investe tutti i settori produttivi.
Le prime analisi controcorrente, che mettono in discussione la civiltà dell’auto risalgono agli anni Ottanta (Sachs, "Die Liebe zum Automobil"), poi si intensificano. Danni ambientali e sociali, saturazione del mercato occidentale, una congestione del traffico tale da porre fine a un’idea di libertà nata con l’auto stessa (Guido Viale, "Vita e morte dell’automobile"). Di fronte alla crisi del settore è compito della politica cambiare la mobilità e riportare in vita l’urbanistica per riconsegnare
ai cittadini strade e piazze, mentre l’industria automobilistica deve reinventarsi. Lo può fare guadagnando, sostengono i Lovins e Paul Hawken, ambientalisti favorevoli al mercato, ma per questo deve cambiare mentalità e abbandonare l’uso antieconomico delle risorse (Capitalismo naturale, ristampa 2011 Edizioni Ambiente). Seguire principi biologici, riusare materiali, eliminare sostanze inquinanti e smetterla di accanirsi contro gli operai, puntando piuttosto sulla produttività delle risorse, scelta che consente di «ottenere lo stesso lavoro utile da un prodotto o da un processo usando meno materiali e meno energia», liberando grandi quantità di capitale. «Ottimizzare la qualità invece di aumentare i prodotti» (Wuppertal Institut).
Se si vuole salvare l’auto bisogna dire la verità, riconoscere che il modello concettuale dell’industria automobilistica è superato, e superate sono le vetture che produce. Veicoli pesanti, dispendiosi, spreconi, rumorosi e inquinanti, pronti oggi a far danno anche nei Paesi emergenti. Innovazione è progettare modelli radicalmente diversi: più leggeri, aerodinamici, ibridi-elettrici. Un prototipo esiste già dal 1991 ed è l’Iperauto, creato dal Rocky Mountain Institute, non brevettabile, a disposizione della ricerca. Perché non si cambia? Secondo Hawken l’ostacolo maggiore è culturale.
I manager non comprendono i sistemi viventi e i rendimenti che derivano dal risparmio. Bisogna mostrare loro i calcoli e se ancora non capiscono che l’ecoefficienza riduce i costi operativi e fa guadagnare più che aumentando la produzione di auto obsolete o tagliando il lavoro, «cambiare in fretta un management inefficace». Negli ultimi dieci anni Daimler-Benz, Ford, GM, Volkswagen, Toyota, Renault-Nissan hanno cominciato a progettare vetture diverse. Ma non Fiat.


“il manifesto”, 21 ottobre 2011

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