La mente di Harry Houdini
- come il suo corpo piccolo e muscoloso - non sopportava le catene e
le gabbie. Era una mente velocissima e funambolica, riflessiva e
potente, bagnata nell'acido della ragione pietosa e compassionevole
che ogni cosa spiega e abbraccia. Non la fede, bensì il trucco
faticoso e sorridente presiedeva il mondo, per quest'uomo sempre in
fuga, oppure l'illusione governava un metodo (uno stile, dunque)
costruito sul rigore, la disciplina, la temerarietà, la sfida e
l'avventura al servizio dell'altrui incanto e insieme del proprio
irriducibile disincanto. Houdini era un maestro, naturale ed
elegante, della forma che non tollerava le foorme date, ovvero,
intanto, claustrofobiche, virginali, sentimentali, onnipotenti. Le
visioni orfiche o misteriosofiche o aurorali del mondo, inoltre, lo
immalinconivano e lo irritavano. Difatti venerava la sottigliezza
compositiva di Edgar Allan Poe, ossia (insieme a Baudelaire) il cuore
dolente, aperto, terribile, indifeso del moderno. Per Houdini la
folla era sgomento o attrazione, gelo e tepore.
Edgar L Doctorow, nella
prima parte di Ragtime (1975), glorifica e storicizza
l'«artista della fuga» e della velocità, il «divo del varietà»
(il più grande e generoso di lutti), l'illusionista dalla vita
«assurda» capace di accettare «ogni sorta di cattività» solo per
poter evadere, come un emblema di quell'avvio di secolo. Lo scrittore
americano ama in Houdini l'ebreo proveniente dalla vecchia Europa
(era nato a Budapest il 6 aprile del 1874, si chiamava in realtà
Erik Weisz), la creatura errante, l'emigrato (sbarcò negli Stati
Uniti nel 1878), l'uomo il quale, benché figlio di un rabbino, non
ci pensa due volte a sposare la cattolica Wilhelmina Beatrice Rahner
(1876-1943) detta Bess, cantante-ballerina, la compagna di tutta la
vita, l'unica, se si esclude l'intermittente relazione con la
dolcissima Charmian Kittredge, cioè la seconda moglie di Jack London
(lei lo chiamava Magie; «non lo dimenticherò mai», aggiungeva nel
diario quasi a ogni pagina, sia in vita che in morte del «fuggitivo»
e dell'assente da ogni luogo, morte avvenuta il 31 ottobre del 1926).
Ma Doctorow, di Houdini, ama lo strenuo illuminismo e, ancora, lo
spartachismo della felicità: «II suo pubblico era formato da povera
gente - cocchieri, venditori ambulanti, policemen, bambini». Ma
anche da Teddy Roosevelt, dallo Zar di tutte le Russie («quando
lasci la Russia ti senti come se fossi veramente uscito da una sorta
di leggera prigionia», annotò nel diario con la composta ironia di
chi è abitualo a evadere da ogni cella) e dall'arciduca Francesco
Ferdinando.
Dunque, Houdini scappava
sempre. Dalle catene, dalle camicie di forza (e appeso a testa in giù
da un grattacielo), dalle casseforti, dalle manette e dalle casse di
legno inchiodate e calate nelle acque gelate di un fiume di Detroit.
Un dizionario del 1920 include un nuovo verbo, «to houdinize»,
ossia «liberarsi o districarsi da restrizioni, legami e simili».
Voleva beffare la morte e resistere oltre ogni resistenza. Si
preparava con meticolosa serietà: «7 gennaio, caspita, fatto un
bagno freddo! - 9 gennaio, fatto bagno dieci gradi - 10 gennaio fatto
bagno freddo, nove gradi - 16 gennaio, l'acqua è a circa due gradi».
Murato e sepolto vivo. Houdini doveva superarsi sempre anche per
difendersi dagli imitatori. Capiva, certo, perché aveva conosciuto
la povertà.
Era stato mendicante,
sciuscià, strillone, equilibrista, trapezista, contorsionista,
fattorino, commesso, operaio. Nella lunga gavetta in locali
miserabili incontrò Buster Keaton, divenendone amico. Poi fece
l'aviatore (andò in volo, per primo, in Australia), lo scrittore,
l'attore (tra gli altri con Méliès), il regista, il collezionista
d'arte. La biografia di Massimo Polidoro (Il grande Houdini,
Piemme) è ricca di particolari, onesta, appassionante, epica quanto
basta. L'autore si sofferma sulle fatiche immense alle quali il
«mago» si sottoponeva. Ecco una lettera del 1901 all'amico medico:
«Sono 11 anni che ogni giorno, immancabilmente, devo sopportare gli
stessi sforzi; i miei nervi sono tutti consumati e io non mi sento
tanto bene: le preoccupazioni e le tensioni perpetue cominciano a
farsi sentire e ho paura che se non mi riposo tra poco sarò
distrutto». Da due anni il successo di Houdini era diventato
internazionale. L'Europa lo aveva accolto come una divinità, da
Parigi a Mosca. Gli si chiedono imprese impossibili. Nel 1916, la
settantaduenne Sarah Bernhard lo implora di farle ricrescere la gamba
amputata. Harry non ha parole. Ormai è sicuro almeno di una cosa: il
mondo è un manicomio pieno di ingenui creduloni e di ciarlatani.
Polidoro si sofferma a
lungo sull'incontro cruciale di Houdini con sir Arthur Conan Doyle,
avvenuto a Londra nel 1920. L'illusionista ammirava l'intelligenza
analitica e il disincanto del celebre personaggio creato dallo
scrittore inglese. Baker Street è un sogno, Sherlock Holmes un
modello oppure un siero, una medicina contro i veleni
dell'irrazionalismo. Ma Conan Doyle, che aveva perduto il figlio
Kingsley in guerra, ormai credeva ciecamente allo spiritismo e, in
Houdini, cercava conferme circa la propria fede nell'occulto e negli
ectoplasmi. Conan Doyle, annota Houdini nel diario, «era dolce e
gentile come nessun altro mortale cui sono stato vicino». Conan
Doyle, da parte sua, credeva che l'illusionista fosse in grado di
smaterializzarsi. Gli scrive: «La mia ragione mi dice che lei ha
questo meraviglioso potere, perché non ci sono altre alternative».
Houdini ne resta affranto. Nel 1922, lo scrittore si reca in America
per una serie di conferenze e porta all'amico alcune foto di
ectoplasmi. Houdini esegue un giochetto per bambini, cioè fìnge di
staccarsi la falange del pollice per poi riattaccarsela. La moglie di
Conan Doyle quasi sviene, il consorte rimane sbalordito. «Non
essendogli mai stati insegnati gli artifici dell'illusione - annota
Harry, intenerito e sconsolato - approfittare della sua fiducia e
ingannarlo era la cosa più semplice del mondo». Conan Doyle
rassicura l'amico. «Nessuno può ingannarmi». Il rapporto tra i
due, rispettoso e ambiguo, finirà per guastarsi quando la battaglia
di Houdini contro i medium si farà senza quartiere. A un certo
punto, Houdini definirà Conan Doyle «una minaccia per l'umanità».
Quando Houdini muore (nel
1926), lo scrittore (che gli sopravvive di quattro anni) riconosce di
averlo ammirato «immensamente». George Bernard Shaw, in una sua
ideale classifica, accosta l'uomo sempre in fuga, ormai evaso per
sempre dalla vita, a Sherlock Holmes e non certo al credulone Conan
Doyle. Girò voce che in punto di morte, rivolto alla moglie, Houdini
avrebbe detto: «Non preoccuparti. Se ci sarà una maniera di
evadere, io la troverò». Se veramente pronunciata, questa frase fu
l'ultimo e supremo respiro di una consolazione e di una compassione
che sentiva di dovere alla donna amata.
alias - il manifesto, 7 aprile 2001
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