9.9.14

Pasolini, una eredità ingombrante (Pier Vincenzo Mengaldo)

Un polemico intervento di Mengaldo, in apparenza contro il solo Cesare Segre, ma in generale diretto contro il diffuso pasolinismo postumo. (S.L.L.)

Nell'ultimo «Espresso» un servizio sulla nuova raccolta di interventi critici di Pasolini (Il portico della morte) è corredato da un'intervista al prefatore, Cesare Segre. Dopo un'autocritica su una sua passata polemica con Pasolini critico («mi ero sbagliato»), lo studioso snocciola varie affermazioni, non so se più opinabili o gravi (avventate non direi, data l'equilibrata cautela e la refrattarietà agli umori del momento che per solito lo contraddistinguono), sulla presunta cecità colpevole del mondo letterario italiano nei confronti di Pasolini.
Vediamo un po': perché l'autorevolezza dell'opinante è notevole e nel caso trae ulteriore forza, oggettivamente e fors'anche soggettivamente, dall'apprezzabile (ma anche eccessiva) palinodia. Lasciamo stare la perentoria asserzione che Pasolini sia «con Gianfranco Contini, il più
grande critico letterario del Novecento Italiano»: ognuno avrebbe qualche nome opportuno da aggiungere (Solmi, Debenedetti...). Ma senz'altro stupefacente è quella che «la critica italiana», nel suo assieme e pare anzi nella sua interezza, abbia negato o taciuto l'importanza di Pasolini critico, preferendo «ignorare, fingere che Pasolini non sia mai esistito». Segre dovrebbe saper bene che è vero quasi esattamente il contrario: basta scorrere i migliori critici che si sono occupati degli stessi «oggetti» o le migliori monografie complessive su Pasolini (Santato, Brevili). A titolo personale, ricordo che proprio io, che fino a parola contraria della critica italiana faccio parte, ho sostenuto e illustrato a lungo il grande valore di Pasolini critico, specie per Passione e ideologia, in un articolo uscito in Francia nell'81 e in Italia nell'83 che lo stesso Segre conosceva bene quando ha
scritto la prefazione alla ristampa einaudiana di quel libro (1985); e che comunque ora è comodamente contenuto in una mia raccolta di saggi, da mesi in libreria, dove figurano altri ragionati giudizi positivissimi sugli scritti critici di Pasolini. Se poi, come Segre suggerisce, il volume da lui introdotto è tale da accrescere ulteriormente la statura del critico Pasolini, benissimo: siamo pronti (quasi) tutti a riconoscerlo con gioia. In base alle stesse motivazioni e con la stessa decisione («Questa è la verità») Segre sostiene anche che la poesia pasoliniana è stata disconosciuta o rimossa, con pari cecità o peggio, da critici e colleghi. Per i primi è da negare che, con l'eccezione di qualche «avanguardista», quelli che contano abbiano misconosciuto il rango di Pasolini poeta; ne hanno solo discusso, come era loro diritto e dovere, il posto nel quadro generale, la «tenuta», i presupposti ideologici. Quanto ai colleghi, l'intervista recita testualmente che «quella presenza grandissima e importantissima, ma scomoda e ingombrante, non lasciava spazio alle altre voci poetiche» e che dopo la morte di Pasolini «molti poeti italiani si sono sentiti pienamente risollevati, han potuto dimostrare che esistevano». Richiesto di nomi, Segre fa quelli di Sereni e Zanzotto, mentre preferisce non citarne altri «meno autorevoli» di quei due. Mi pare una sortita difficile da qualificare, e anche da controbattere. Zanzotto, che ha dedicato a Pasolini interventi altrettanto generosi che acuti, potrà dir la sua se vuole. Sereni non può rispondere più ; ma basti ricordare che Gli strumenti umani, uno dei grandi libri di poesia di questo quarantennio, è uscito nel '65, e che l'idea e pratica sereniane della poesia, come sa ogni buon lettore, non sono neppure tangenti a quelle di Pasolini. Che i bersagli veri siano i taciuti? Sarebbe interessante, invece, conoscere i nomi: Caproni, Bertolucci, Fortini, Giudici, Pagliarani...?
In conclusione, Segre sostiene che è improbabile che si possa ridare a Pasolini quel che merita, «cioè molto di più di quanto gli è stato dato in questi anni», perché «il mondo letterario italiano è ormai di una volgarità preoccupante», antitetica allo stile di Pasolini. D'accordo per buona parte del mondo letterario italiano, ma temo che questa intervista certo contro le intenzioni e lo
stile abituale dello studioso Segre, finisca per portare acqua al mulino della deprecata volgarità, anche perché sembra accreditare la tesi, insieme vulgata e volgare, della «congiura» antipasoliniana. Ma certamente l'interessato veglierà contro questa spiacevole, ma probabile, conseguenza del suo drastico intervento. Nel quale è possibile che qualcuno colga, accanto alla giusta ammirazione per la «rigorosa coscienza intellettuale» ecc. di Pasolini, anche una generale adesione alla sua «ideologia». Su questo dico soltanto che a molti non sfugge l'uso ideologicamente e politicamente grottesco che si fa da tempo, e spesso impunemente dell'eredità di Pasolini, in Italia e fuori. E che per esempio, se i resti di quella sinistra che un tempo giudicava discutibile la visione pasoliniana del cosiddetto «Sessantotto» continuano a giudicarla tale, fanno semplicemente il loro dovere.


“il manifesto”, ritaglio senza data, ma 1988.

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