Ferruccio Parri |
Quando al Comando Supremo
cominciarono ad arrivare le notizie della rotta di Caporetto, il
capitano Ferruccio Parri si trovava a Verona, presso lo stesso
comando, dove istruiva duecento ufficiali scelti, in un corso di
addestramento rapido. Aveva ventisette anni, la guerra gli aveva già
procurato brutte ferite e un inizio di congelamento ai piedi
guadagnato durante l'inverno del '15 sul fronte dell'Isonzo, oltre a
tre medaglie d'argento; presto sarebbe diventato maggiore per meriti
di guerra. Una piccola fotografia ingiallita lo mostra in quegli
anni: in divisa da maggiore, completo di berretto, quattro
striscioline attaccate alla manica della giacca per indicare
altrettante ferite ricevute, gli occhi neri pensosi, le guance ancora
paffute, i corti baffetti: un'aria più dolce che marziale, più da
intellettuale che da soldato, malgrado la divisa.
«Alla notizia di quello
che stava succedendo», racconta il senatore Parri, «ci spedirono
tutti di gran corsa nei vari settori di combattimento, a me toccò
la zona a nord di Treviso. Il fronte nella zona montana fra le Alpi
Carniche e l'Isonzo era considerato strategicamente importante per
raggiungere Trieste con una manovra di aggiramento; ma era un fronte
difficilissimo da tenere per i nostri soldati, e Caporetto ne
costituiva in qualche modo la cerniera. Caduta Caporetto, tutto il
fronte fu travolto. Noi dovevamo cercare di arginare la fuga, ma si
rivelò un'impresa disperata: per un raggio di centocinquanta
chilometri tutto quello che era italiano si stava dando a un
fuggi-fuggi generale. La linea di combattimento arretrò così
precipitosamente, che ad un certo momento mi trovai a combattere sul
Piave. Il morale degli uomini, soldati e comandanti, era distrutto,
tanto che anche il Piave sembrava indifendibile. Lì, nonostante io
fossi ufficiale di complemento, dovetti prendere il comando della
zona, perché il comandante e il suo vice erano scomparsi. Così io
tenni la parte bassa del fronte, mentre l'altra metà dello stesso
fronte, più in alto, era comandata dal durissimo Lemaitre, lo stesso
che poi mi ritrovai davanti in veste di accusatore quando nel '42
dovetti comparire di fronte al tribunale speciale. In quei giorni la
maggior parte degli ufficiali era del parere che si dovesse
abbandonare Venezia e ripiegare verso Padova ».
Parri rimane un istante
pensieroso, a sessantanni di distanza il ricordo più vivido di quei
giorni è rimasto quello di fughe disperate, di disperati tentativi
di fermarle. «I soldati fuggivano con tutta l'ira accumulata in tre
anni di guerra terribile, tre anni di sofferenze indescrivibili, e
per loro, immotivate. Bisognava afferrarli per le braccia, per le
spalle, cercare di trattenerli in tutti i modi».
Moltissimi furono i
processi e molte le fucilazioni. Furono presi dai carabinieri anche
due miei soldati», ricorda Parri. «Si fece il processo e io fui
designato a difenderli. Uno dei due disse di essere scappato per
andare a trovare la moglie che aveva appena avuto un bambino. Io li
difesi a lungo con rabbia, mi sembrava impossibile non riuscire a
convincere i giudici che quei due poveretti dovevano essere salvati,
ma i giudici mi guardavano con occhi vuoti, assenti, mentre i soldati
mi fissavano con disperazione».
Continua: «Visto dal
fronte, e anche dal comando supremo, il difetto più grave di quella
guerra non era tanto la mancanza di armi, quanto l'incapacità
dell'esercito italiano di darsi un'organizzazione, la mancanza di
coordinamento, gli ordini contraddittori, dovuti alle rivalità fra i
comandanti e alla impreparazione dello Stato Maggiore. C'era stata
molta leggerezza da parte del governo nel dichiarare l'entrata in
guerra, e nei primi anni scontammo questa mancanza di preparazione.
Cadorna aveva la sua parte di colpe, anche se aveva trovato un
esercito in uno stato penoso di inefficienza».
Le cose sarebbero
migliorate con l'arrivo di Diaz: trasferito al Comando Supremo
nell'Ufficio Operazioni diretto dal colonnello Ugo Cavaliere, Parri
partecipò alla preparazione dei piani per la battaglia di Vittorio
Veneto. In un suo scritto pubblicato su “L'Astrolabio” racconterà
di aver capito che questa cittadina sarebbe stata scelta come punto
centrale dell'offensiva. Il giorno che Diaz entrò nella sua stanza,
si avvicinò con altri ufficiali alla grande carta geografica appesa
alla parete e esclamò con il suo accento napoletano : « Addò sta
stu cazzo 'e Vittorio Veneto ».
Chiedo ora a Ferruccio
Parri: «Lei, senatore, prima della guerra era stato un interventista
convinto, cambiò parere poi, mentre si trovava in trincea? ».
«Bisogna capire in che
cosa consistette l'interventismo che allora animò grandi masse di
giovani. C'erano quelli che sentivano odore di polvere e di gloria,
che erano ansiosi di misurarsi sui campi di battaglia, ma per molti
di noi, me compreso, quella doveva essere una guerra combattuta per
l'indipendenza dei popoli soggetti a Francesco Giuseppe. Eravamo
pieni di fervore libertario, volevamo batterci per la sovranità di
queste nazioni, molte delle quali amiche. Io sostenni questo punto di
vista con i miei soldati, all'inizio della guerra, e ottenni la loro
comprensione, anche se non l'approvazione. Poi capii che cosa era la
guerra in generale, e cosa era la guerra per un popolo non preparato a
farla».
“la Repubblica”, 22
ottobre 1977
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