4.9.14

Letteratura e vita. In difesa della bruttezza (Francesca Lazzarato)

L'articolo di Francesca Lazzarato qui “postato”, apparve su una Talpa del “manifesto” nel '91. Sollecitato da alcune pubblicazioni del tempo e da alcune notizie di cronaca risulta tuttora uno  stimolante percorso, che tuttavia  approfondimenti e aggiornamenti. (S.L.L.)
Charles Laughton nel ruolo di Quasimodo
in "Il gobbo di Notre-Dame" (Dieterle 1939) 
Mentre sta per chiudersi a Napoli una serie di incontri votati a interrogare il concetto di bellezza così come ha preso corpo nel passato, l'attualità recente ci consegna una sequenza di aneddoti che mettono in primo piano il dramma della bruttezza nelle sue spietate declinazioni al presente. In un paesetto siciliano tre giovanissime sorelle, stanche di essere continuamente e pubblicamente derise per la loro scarsa grazia fisica, accoltellano il loro principale sbeffeggiatore davanti agli occhi di tutti, riducendolo in fin di vita.
In Lombardia una altrettanto giovane estetista viene licenziata dall'istituto di bellezza che l'ha assunta per un periodo di prova: ha le gambe troppo grosse per continuare a lavorare in un simile santuario del fascino femminile.
Negli Stati uniti, una hostess vince la causa contro il suo datore di lavoro, una compagnia aerea che intendeva imporle l'obbligo del maquillage (e che del resto chiede a tutti i suoi dipendenti di attenersi a precise regole estetiche: trucco e messa in piega impeccabile per le donne, capelli corti per gli uomini).

Emarginati e derisi
Sono solo tre piccole storie, di quelle che la cronaca delle ultime settimane inscrive nel genere delle «notizie curiose», dei microscopici faits divers da dieci righe a fondo pagina. Ma sono anche tre testimonianze del fatto che niente, ancora, sembra aver cancellato la biblica esclusione del corpo «difettoso» («Ciascun uomo della tua razza, e ogni tuo discendente che abbia un difetto fisico, non potrà accostarsi al sacrificio divino. Chiunque abbia un difetto fisico non potrà avvicinarsi: un uomo cieco o zoppo, col naso camuso o un arto troppo lungo: un uomo col piede o la mano fratturati: un uomo gobbo oppure orbo...» Lev. XXI.17-20) o fatto cessare definitivamente quello che Jean Héritier chiama, in una sua recentissima storia della bruttezza, «il martirio dei brutti» (Le martyre des affreux. La dictature de la beauté. Denoèl. 1991). terribile miscela di emarginazione, derisione e torture fisiche imposte dalle protesi e dalle mille panacee che dovrebbero rimediare alle «mancanze» della natura.

Bello, cioè buono
Mai come adesso, infatti, sottolinea Héritier. c'è stata richiesta di corpi lisci, fiorenti, sani, perfettamente aderenti a un modello prefissato; e mai come adesso si è cercato a qualsiasi costo di costruirseli con ogni mezzo, perché «la bellezza è sempre più vissuta come una forma di cortesia che si deve agli altri, e soprattutto come un simbolo di riuscita sociale».
Sono sempre le élites, dice il giovane storico francese, a imporre oggi come ieri la norma estetica e a farne il primo, indispensabile requisito per rendersi «riconoscibile»: è per questo che «chiunque voglia avere una audience cerca di migliorare il proprio aspetto o di costruirsi una maschera»; è per questo, scrive Isabelle Faivre in Autoplastie de l'apparence (n.3-4 di “Ethnologie Francaise”) che «non si può lasciarsi andare. Bisogna rimodellare, stimolare, nutrire, proteggere, rassodare, eliminare, rinforzare, prolungare, rigenerare».
Ma che ne è di tutti quelli che non possono permettersi di partecipare a questa sinfonia del «corpo magnificato», di adeguarsi, di pagare per diventare una delle tante «bambole sanguinanti» sottomesse al bisturi che gonfia le labbra o tira su il seno? Semplicemente, li si giudica brutti, senza mai riuscire, tra l'altro, a prescindere del tutto dall'antica identificazione tra Bello e Buono, poiché il corpo non ha mai cessato di rappresentare, per noi, lo specchio dell'anima. Per rendersene conto basta pensare alla complessa fisiognomica espressa dai proverbi popolari, che attribuiscono a ogni dettaglio fisico un significato caratteriale, o alla contrapposizione diretta e brutale tra la bella orfana conculcata e la perfida bruttona cui, nelle fiabe folkloriche, crescerà in fronte una coda d'asino o un sanguinaccio.
E agli stessi principi è fedele buona parte di quella narrativa popolare che Antonia Arslan esamina a fondo in Dame, droga e galline (Unicopli, 1986), mettendo in luce come i personaggi principali siano, allo stesso tempo, dei tipi ben riconoscibili, la cui malvagità o bontà sono fisicamente connotate (pensiamo, tanto per fare un esempio, alla terribile bolscevica Vera, crudele quanto brutta, in Schiava o Regina di Delly, o al Maitre d'école dei Misteri di Parigi di Zola).
A questa fisiognomica spicciola, ancora vivissima nella pratica quotidiana, ne corrisponde un'altra, più «scientifica», coltivata nel medioevo da Averroè e Alberto Magno e nel Cinquecento da Giambattista della Porta, sistematizzata nel 1775 dalle 500 tavole dei Frammenti Fisiognomia di Johan Kaspar Lavater (pastore calvinista svizzero che tentò di conciliare illuminismo ed esoterismo cristiano in una nuova scienza dell'anima e del corpo), e infine sfociata nell'antropologia criminale di Cesare Lombroso (L'uomo delinquente, 1876) e nelle misurazioni frenologiche di Alphonse Ber-tillon, che nel 1893 riuscì a creare, a Parigi, un Service de l'identité judiciaire.
Così orecchie ad ansa, prognatismo, strabismo, asimmetria, sopracciglia troppo folte, accentuate bozze frontali, occhi troppo vicini e mille altri segni di disarmonia e di diversità vengono classificati e decifrati in funzione di una lettura del corpo tesa a identificare tutto ciò che si sottrae alla norma o che a essa contravviene, perché «resta esigenza dell'uomo medio, lombrosianamente onesto, il cercare nel delinquente tutto ciò che, costituendolo come diverso, rassicuri nei confronti vuoi della propria auto-immagine di uomo normale, vuoi di naturali diritti di autodifesa», scrive Mario Portigliatti Barbos in La scienza e la colpa. Crimini criminali criminologi: un volto dell'ottocento (a cura di Umberto Levra, Electa, l985).
Bruttezza come sinonimo di crimine, dunque, ma anche segno di appartenenza a una classe sociale bassa e servile: il nobile medioevale ha il capelli biondi, lo sguardo vivo, il colorito rosa, mentre il villano ha la pelle olivastra, occhi opachi, brutte mani e brutto viso, un corpo grottesco, riferisce Stanley Leman Galpin in Cortois and Vilain, uno studio sulla poesia provenzale pubblicato nel 1905. E Jack London, disceso ai primi del '900 nelle tenebre dell'East End londinese, conferma, in Il popolo dell'Abisso (Sonzogno, 1974) che davvero i poveri sono brutti.
«C'erano anche altre facce e forme, - scrive London - strane, bizzarre, mostruosità contorte che mi toccavano da ogni parte, inconcepibili tipi di cupa bruttezza, relitti della società, le carcasse ambulanti, morti viventi...e uomini, in abiti fantastici, alterati dalla miseria e senza più le sembianze di uomini».
In quale casella verrebbero collocati, costoro, dalla moderna morfopsicologia, incarnazione attuale della fisiognomica che, denuncia Héritier, a partire dagli anni '80 propone ai capi del personale delle grandi imprese nuovi modi di valutazione dei «candidati», per identificare «il nervoso-infatico che sarà l'ideale in materia di gestione, o il futuro leader, bilioso o sanguigno»?
Eppure, nonostante tutto, esiste anche una bruttezza «santa» (confortata dal Nuovo Testamento che, tramite Giovanni, afferma: «La carne non conta», e sostiene, con Matteo, che «dal corpo vengono i cattivi pensieri»). Unica vera bellezza nascosta nell'involucro della virtù spirituale: tale è, ad esempio, quella della Jane Eyre di Charlotte Brònte o della Anne Elliot di Persuasione (forse il più maturo tra i romanzi di Jane Austen), e soprattutto di Brigitta, l'ungherese dagli occhi neri e dal colorito scuro che Adalbert Stifter elegge a protagonista in un incantevole libro del 1842, proposto di recente dalla Marsilio nella traduzione di Matteo Galli. Priva di ogni grazia, e perciò non amata e ignorata dalla sua stessa famiglia (che non possiede - come la moglie di Abdia, altro «brutto» stifteriano - «gli occhi spirituali, quelli del cuore»), Brigitta trova tuttavia un uomo capace di darle ciò che essa esige: «un amore estremo, perché io so di esser brutta, e perciò pretenderei un amore più grande di quello che attende la fanciulla più bella di questa terra. Non so quanto grande ma mi pare che debba essere senza misura e senza confini».
Ed è giusto che sia così poiché, dice Stifter, non sempre siamo in grado di dire ove risieda l'incanto: «è nell'universo, è in uno sguardo, e invece non lo troviamo in lineamenti che pure sono modellati a rigor di norma».
Ma il brutto può piacere proprio in quanto tale: lo sanno bene i protagonisti maschili della Fosca di Tarchetti (1869) o della Roberta di Luciano Zuccoli, stregati da due bruttissime donzelle che divengono però sessualmente interessanti; e non per la purezza dell'anima loro, ma perché l'eccesso patologico spalanca davanti agli innamorati un abisso irresistibile.

Chi piangerebbe Desdemona obesa?
Solo che la donna brutta è raramente una Fosca, e l'uomo brutto non indossa sempre i panni di Cyrano, nasuto quanto tenero e geniale: la bruttezza «famosa», la bruttezza che Velasquez prova gusto a ritrarre e Tarchetti a esaltare, non modifica in nulla la concreta situazione di chi si sa poco attraente, di chi è licenziato per via di un polpaccio troppo florido, di chi deve ricorrere al tribunale per evitare di dipingersi la faccia.
«Se Desdemona fosse grassa, a chi importerebbe se Otello la strangola? Come mai le ragazze torturate dai nazisti sulle copertine delle più scadenti riviste per soli uomini sono sempre bellocce? Farebbero tutt'altro effetto se fossero grasse. Invece di trovare la cosa immorale o sessualmente stuzzicante gli uomini la troverebbero comica», scrive giustamente Margaret Atwood in Lady Oracolo (Astrea 1986), immaginaria autobiografia di una cicciona che alla fine riesce a «sgusciar fuori dal suo corpo come da un baccello», ma che non si libererà mai del proprio fantasmatico «doppio» obeso.

Ammirazione per il Mostro
Non c'è dunque speranza per i brutti che debbono o vogliono, in quest'epoca di prodigiosi cyborg costruiti sul tavolo operatorio, restare tali? E non c'è nessuno che voglia affermare, come Cyrano nella lunga tirata in difesa del proprio naso, un sempre negato «diritto alla bruttezza»?
Se è scontato che il Brutto sia soprattutto compatito o deriso, è altrettanto certo che il Mostro viene ammirato, temuto e adorato. Meglio, forse, incarnarsi in un Freddy Kruger o in un Edward Mani-di-Forbice, piuttosto che continuare a barcamenarsi tra l'intolleranza dell'estetica e l'ansioso tentativo di adempiere totalmente i dettami di una cultura somatica, dice Héritier. che fa del corpo «un pezzo separato, semi autonomo e funzionale, d'una macchina collettiva ad alta tecnologia».

"la talpa libri il manifesto", 14 giugno 1991

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