12.9.14

Il teatro di Fenoglio (Osvaldo Guerrieri)

Beppe Fenoglio
Fermiamoci su questa battuta teatrale. Parla un certo Bob. Dice: «E ora vado, ma tu sappi che andarmene da qui, da te, è la cosa più dura che abbia mai dovuto fare».
Chi può averla scritta? Un americano? Un inglese? Inutile fare giochetti di attribuzione e magari lasciarsi depistare da indizi apparentemente solidi quali il nome del personaggio e l'andamento secco della parlata. L'autore è Beppe Fenoglio e la frase è estratta da uno dei testi con cui lo scrittore della Resistenza si accostava al teatro non per pura curiosità intellettuale, ma per precisa volontà compositiva.
Teatro e poesia hanno offerto a Fenoglio la prima spinta artistica. E' noto il suo grande amore per Marlowe, ed è anche risaputo quel che scrisse nel 1951 a Italo Calvino quando si propose come traduttore per la Einaudi. Diceva apertis verbis di avere una «spiccata preferenza per il teatro e la poesia». Ma non diceva di avere cominciato a scrivere riduzioni teatrali fin dagli anni Quaranta. In un campo di pallone elastico a Alba, aveva assistito alla proiezione del film di William Wyler Cime tempestose. Non ne fu entusiasta, ma si appassionò al romanzo di Emily Bronte al punto da decidere di prepararne una riduzione teatrale. Quel suo testo si intitolava La voce nella tempesta ed appare nella raccolta curata da Elisabetta Brozzi e da poco pubblicata da Einaudi.
Del Teatro fanno ancora parte Serenata a Bretton Oaks, Solitudine e i Prologhi. Sono i drammi che Fenoglio scrisse nell'arco della vita, alimentandosi degli autori che sentiva più congeniali (Edgar Lee Masters, Thornton Wilder) e intrecciando i temi che erano più intimamente suoi: l'amore, la Resistenza, la fragilità dell'eroe, come cercò di mostrare con Solitudine, che ebbe stesure molto travagliate e che pure ha trovato la via del palcoscenico con la regia di Gabriele Vacis.
Ma come dobbiamo considerare questo corpus drammatico? Forse né una storia né una preistoria. Semmai una sottostoria: qualcosa che scorre silenzioso come un'acqua nascosta, utile per irrorare la produzione che più conta, quella narrativa, o, tutt'al più, per ricevere da questa umori e motivi in una specie di scambio reciproco, in una comunicazione fitta ma frustrata. Se l'opera narrativa ha una sua grandiosità di temi e di lingua, se le ombreggiature anglofone concorrono a formare una originalità indiscussa, quella teatrale ha invece il suo limite proprio nell'impronta angloamericana, diventa un calco, un succedaneo, una parodia. E infatti che cos'è stato Beppe Fenoglio, se non un narratore?


“La Stampa” 3 aprile 2008

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