Beppe Fenoglio |
Fermiamoci su questa
battuta teatrale. Parla un certo Bob. Dice: «E ora vado, ma tu sappi
che andarmene da qui, da te, è la cosa più dura che abbia mai
dovuto fare».
Chi può averla scritta?
Un americano? Un inglese? Inutile fare giochetti di attribuzione e
magari lasciarsi depistare da indizi apparentemente solidi quali il
nome del personaggio e l'andamento secco della parlata. L'autore è
Beppe Fenoglio e la frase è estratta da uno dei testi con cui lo
scrittore della Resistenza si accostava al teatro non per pura
curiosità intellettuale, ma per precisa volontà compositiva.
Teatro e poesia hanno
offerto a Fenoglio la prima spinta artistica. E' noto il suo grande
amore per Marlowe, ed è anche risaputo quel che scrisse nel 1951 a
Italo Calvino quando si propose come traduttore per la Einaudi.
Diceva apertis verbis di avere una «spiccata preferenza per
il teatro e la poesia». Ma non diceva di avere cominciato a scrivere
riduzioni teatrali fin dagli anni Quaranta. In un campo di pallone
elastico a Alba, aveva assistito alla proiezione del film di William
Wyler Cime tempestose. Non ne fu entusiasta, ma si appassionò
al romanzo di Emily Bronte al punto da decidere di prepararne una
riduzione teatrale. Quel suo testo si intitolava La voce nella
tempesta ed appare nella raccolta curata da Elisabetta Brozzi e
da poco pubblicata da Einaudi.
Del Teatro fanno
ancora parte Serenata a Bretton Oaks, Solitudine e i
Prologhi. Sono i drammi che Fenoglio scrisse nell'arco della
vita, alimentandosi degli autori che sentiva più congeniali (Edgar
Lee Masters, Thornton Wilder) e intrecciando i temi che erano più
intimamente suoi: l'amore, la Resistenza, la fragilità dell'eroe,
come cercò di mostrare con Solitudine, che ebbe stesure molto
travagliate e che pure ha trovato la via del palcoscenico con la
regia di Gabriele Vacis.
Ma come dobbiamo
considerare questo corpus drammatico? Forse né una storia né una
preistoria. Semmai una sottostoria: qualcosa che scorre silenzioso
come un'acqua nascosta, utile per irrorare la produzione che più
conta, quella narrativa, o, tutt'al più, per ricevere da questa
umori e motivi in una specie di scambio reciproco, in una
comunicazione fitta ma frustrata. Se l'opera narrativa ha una sua
grandiosità di temi e di lingua, se le ombreggiature anglofone
concorrono a formare una originalità indiscussa, quella teatrale ha
invece il suo limite proprio nell'impronta angloamericana, diventa un
calco, un succedaneo, una parodia. E infatti che cos'è stato Beppe
Fenoglio, se non un narratore?
“La Stampa” 3 aprile
2008
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