A mio modo di vedere
Liucci nell'articolo che segue ha ragione e ha torto. Ha ragione nel
fatto che Malaparte (il quale morì dichiarandosi comunista
filocinese e lasciò in eredità alla Cina di Mao le sue proprietà)
in Kaputt e nell'altro libro
importante del dopoguerra, La Pelle,
rappresenta la tendenza di molti italiani all'autoassoluzione, sulla
base del principio “tutti colpevoli, nessun colpevole”; ma ha
torto nel giudizio sulle qualità letterarie dello scrittore. La sua
verve, la sua visionarietà, la sua sentenziosità brillante, a mio
avviso, funzionano ancora. Il punto è che si legge pochissimo. Ma
questo è un altro discorso... (S.L.L.)
Curzio Malaparte (1898 - 1957). Il vero nome era Kurt Erich Suckert |
«Io ho perso l'abitudine
di agire. Sono un italiano. Non sappiamo più agire, non sappiamo più
assumere alcuna responsabilità dopo venti anni di schiavitù. Ho anch'io,
come tutti gli italiani, la schiena spezzata. In questi venti anni
abbiamo speso tutta la nostra energia per sopravvivere. Non siamo più
buoni a nulla. Non sappiamo che applaudire». Quando, nei primi mesi
del '44, Curzio Malaparte (1898-1957) avvia la stesura finale di
Kaputt è un uomo stanco e sempre più disincantato. Ha
passato tre anni scorrazzando per l'Europa, inviato di guerra del
«Corriere della Sera», in Serbia, Croazia, Romania, Polonia, Russia
e Finlandia. Se confrontiamo i taccuini delle sue peregrinazioni con
le pagine di Kaputt, scopriamo che egli riprende diversi
incontri, aneddoti ed episodi, ma poi li giustappone, li dilata, li
reinventa, in una cornice ormai compiutamente letteraria. Pubblicato
nell'ottobre '44 da un minuscolo editore napoletano, Kaputt
otterrà subito un clamoroso successo e sarà tradotto nelle
principali lingue straniere. Ora viene riproposto da Adelphi, in una
nuova edizione a cura di Giorgio Pinotti, corredata da una nota
filologica che, fra le righe, prende severamente le distanze dalla
versione accolta nel "Meridiano" Mondadori curato da Luigi
Martellini (1997).
Ma ha ancora senso, oggi,
leggere Malaparte e in particolare Kaputt, probabilmente il
suo libro più smagliante? Forse sì, ma non tanto per le qualità
narrative, quanto per il valore documentario, per la capacità
d'intercettare lo spirito di un'epoca. Sia chiaro, Kaputt
resta un'opera pregevole, l'autore non è «soltanto un giornalista»
(come si autodefiniva Montanelli), ma un autentico scrittore,
dall'indubbia potenza visionaria. Una luce fredda e crepuscolare
irradia le sue pagine e annichilisce ogni parvenza di vita. Infinite
distese innevate. Fiumi gelidi e vorticosi. Notti bianche e
inospitali. Un paesaggio che sembra animato soltanto dalle ombre di
corpi sofferenti e mutilati. Ebrei squartati e appesi agli uncini
come vitelli nelle macellerie di Bucarest. Torme di cani massacrati
dai calci dei fucili tedeschi. Membra di prigionieri russi divorate
dai loro disperati compagni. Teste di cavallo che emergono dalla
superficie di un lago ghiacciato. Soldati rimasti senza palpebre,
bruciate dal freddo, e costretti a dormire con gli occhi spalancati.
Fieri e maestosi salmoni dilaniati dalle bombe degli invasori. Per
giungere a una delle pagine più note, allorché il dittatore croato
Ante Pavelic offre allo scrittore toscano una zuppa di ostriche
viscide e gelatinose: «È un regalo dei miei fedeli ustascia: sono
venti chili di occhi umani».
Qui sorgono le prime
perplessità. Se all'epoca, in un'età pre-televisiva e per molti
versi ancora pre-cinematografica, le immagini plasmate dalla penna di
Malaparte potevano stupire e catturare i lettori, oggi quelle stesse
immagini ci sembrano inevitabilmente goffe e obsolete. Come accade
dinnanzi a certi film horror, non proviamo né paura né
angoscia, ma soltanto uggia e sazietà, in assenza di qualsivoglia
tensione drammatica. Malaparte, in effetti, non pare dotato d'un
senso del dramma, che presuppone una curiosità non convenzionale
verso gli altri: resta troppo diffidente ed egola-trico per coltivare
simili aperture. Così sembra che l'incendio dell'Europa, le
spaventose stragi di civili, i campi di prigionia e di sterminio, i
milioni di profughi e deportati, tutto ciò sia avvenuto per un solo
motivo: perché Malaparte potesse raccontarlo ai lettori, in un libro
elegante e virtuosistico, ma dai contorni laccati.
I suoi incontri con
alcuni dei protagonisti di quegli anni (Pavelic, Costanzo Ciano,
Filippo Anfuso, Hans Frank, governatore della Polonia), benché
riferiti in forma di dialogo, sono in realtà dei monologhi
ingessati, nei quali i vari interlocutori recitano da ventriloqui
dello scrittore toscano. Sino a scadere nel caricaturale, ad esempio
quando Oswald Mosley, il leader del fascismo inglese, si presenta a
Malaparte con una copia della Technique du coup d'Érat,
chiedendogli una dedica sul frontespizio.
Cosa rimane, dunque, di
Kaputt? Con il senno di poi, potremmo considerarlo soprattutto
una straordinaria fonte per gli studiosi di storia della mentalità.
Questo romanzo, infatti, insieme alla Pelle (1949), che ne
rappresenta il seguito in terra partenopea e che sarà anch'esso
riproposto da Adelphi, riverbera i sentimenti della "zona
grigia". Ossia di quel vasto e maggioritario segmento della
società italiana ch'era stato agnostico o fascista e che ora,
sgretolatosi il mito mussoliniano, subiva obtorto collo la
Liberazione e la nascita della Repubblica. Come mai Malaparte era
così congeniale a questi italiani? Perché dipingendo la guerra con
il pennello intinto nell'orrido e nel mostruoso, in realtà la
destoricizzava, annegando le ragioni e i torti dei contendenti in un
indistinto gorgo sanguinolento. La guerra era specchio d'un male
metafisico indecifrabile. E se tutti n'erano stati in qualche misura
vittime, non c'era nessun colpevole. Un balsamo tonificante, per la
cattiva coscienza d'un paese già principale alleato di Hitler.
Malaparte aveva la rara capacità d'entrare subito in sintonia con l'Italia profonda, di lisciarne il pelo e di solleticarne le corde più sensibili. Credeva davvero in quel che faceva e diceva? Forse sì, forse no. Nessuno, probabilmente, sarà mai in grado di sciogliere il dilemma. Di certo, in una pagina di Kaputt egli aveva tracciato, di sé e del proprio paese, un ritratto impudico: «È di gran moda, oggi, far la puttana, in Italia. Tutti fanno la puttana. Il Papa, il Re, Mussolini, i nostri amati Principi, i cardinali, i generali, tutti fanno la puttana, in Italia. È sempre stato così, sarà sempre così. Ho fatto anch'io la puttana, per molti anni, come tutti gli altri. Poi quella vita m'è venuta a schifo, mi sono ribellato, son finito in galera. Ma anche finire in galera è un modo per fare la puttana. Anche far l'eroe, anche pugnare per la libertà è un modo di far la puttana, in Italia. Anche dire che questo è una menzogna, un insulto per tutti coloro che sono morti per la libertà è un modo di far la puttana. Non c'è scampo».
Malaparte aveva la rara capacità d'entrare subito in sintonia con l'Italia profonda, di lisciarne il pelo e di solleticarne le corde più sensibili. Credeva davvero in quel che faceva e diceva? Forse sì, forse no. Nessuno, probabilmente, sarà mai in grado di sciogliere il dilemma. Di certo, in una pagina di Kaputt egli aveva tracciato, di sé e del proprio paese, un ritratto impudico: «È di gran moda, oggi, far la puttana, in Italia. Tutti fanno la puttana. Il Papa, il Re, Mussolini, i nostri amati Principi, i cardinali, i generali, tutti fanno la puttana, in Italia. È sempre stato così, sarà sempre così. Ho fatto anch'io la puttana, per molti anni, come tutti gli altri. Poi quella vita m'è venuta a schifo, mi sono ribellato, son finito in galera. Ma anche finire in galera è un modo per fare la puttana. Anche far l'eroe, anche pugnare per la libertà è un modo di far la puttana, in Italia. Anche dire che questo è una menzogna, un insulto per tutti coloro che sono morti per la libertà è un modo di far la puttana. Non c'è scampo».
"Il Sole 24 ore Domenica", 21 giugno 2009
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