L'articolo dal “New
York Times” qui postato risale alla fine di giugno, ed è stato tradotto da Gianni
Mula per un periodico on-line, “Il dialogo”, espressione di un
gruppo di cattolici di sinistra dell'Irpinia, testimonianza della
vitalità della provincia. L'autore, il premio Nobel per l'Economia
Joseph Stiglitz, che è stato consigliere economico di Clinton, vicepresidente e capo-economista della Banca Mondiale, esprime giudizi tanto sinceri quanto espliciti e duri sul
sistema politico-economico americano. In particolare polemizza contro
la diffusa opinione che la Grande Recessione, cioè la crisi
economica che stiamo vivendo, sia il prezzo inevitabile da pagare per
godere dei benefici di un sistema economico che si è dimostrato il
migliore tra quelli possibili. (S.L.L.)
Joseph Stiglitz |
Negli ultimi decenni si è
sviluppata in questo paese una tendenza pericolosa. Per più di
trent'anni dopo la seconda guerra mondiale abbiamo avuto una crescita
di cui beneficiavano tutti gli strati sociali. Poi [con l'era
Thatcher-Reagan NdT] i benefici hanno cominciato a non essere più
di tutti. E dalla fine del 2007, cioè dallo scoppio della Grande
Recessione, l'ingiustizia del sistema economico americano è
diventata tanto evidente da non poter più essere ignorata. Come ha
fatto questa nostra "città splendente sulla collina" [il
riferimento è al sogno puritano di una nazione giusta e pia sotto
Dio NdT] a diventare il paese avanzato con il massimo livello di
disuguaglianza?
Un ramo della discussione
straordinariamente ampia messa in moto dall'uscita del tempestivo e
importante libro di Thomas Piketty, Il Capitale nel XXI secolo,
è imperniato attorno all'idea che questi estremi di ricchezza e di
reddito siano una stretta conseguenza del sistema capitalistico. Da
questo punto di vista dovremmo considerare i decenni dopo la seconda
guerra mondiale - un periodo di disuguaglianza in rapida diminuzione
- come un'aberrazione del sistema. In realtà questa è una lettura
superficiale dell'opera di Piketty, che è principalmente rivolta a
spiegare perché la disuguaglianza aumenta nel tempo. Purtroppo
questa parte della sua analisi ha ricevuto meno attenzione di quella
dedicata all'inevitabilità della disuguaglianza come conseguenza
delle leggi fondamentali del capitalismo.
Ma oggi la stessa idea
che ci siano leggi fondamentali del capitalismo è in discussione,
come è stato dimostrato da una vasta gamma di interventi a The
Great Divide (La grande divisione), il dibattito che il New York
Times ha ospitato per l'ultimo anno e mezzo e di cui ero moderatore.
La dinamica del capitalismo imperiale del XIX secolo non può essere
la stessa delle democrazie del XXI secolo. Non abbiamo bisogno di
così tanta disuguaglianza in America.
Inoltre il capitalismo
attuale è una sorta di surrogato di quello vero. Intendo dire che la
nostra risposta alla Grande Recessione è stata quella di
socializzare le perdite e privatizzare i profitti. Ma in un regime di
concorrenza perfetta i profitti dovrebbero tendere a zero, almeno
teoricamente. Invece abbiamo monopoli e oligopoli che fanno
persistentemente elevati profitti e i loro amministratori delegati
godono di redditi in media 295 volte maggiori di quelli di un
lavoratore normale. Si tratta di un rapporto molto più elevato che
in passato, e senza alcuna proporzione con l'aumento della loro
produttività.
E allora, se non sono le
leggi inesorabili dell'economia che hanno portato alla grande
divisione americana [tra l'1% più ricco e il resto della
popolazione NdT], che cosa è stato a produrla? La risposta è
semplice: la nostra politica. La gente è stanca di sentir parlare di
storie di successo economico dei paesi scandinavi, quando il nocciolo
della questione è capire come fanno questi paesi a far crescere il
proprio reddito pro capite quanto o meglio degli Stati Uniti
pur mantenendo un livello di uguaglianza di gran lunga maggiore.
Perché l'America ha
scelto politiche che favoriscono l'aumento della disuguaglianza?
Parte della risposta è che assieme alla Seconda Guerra Mondiale
abbiamo dimenticato anche la solidarietà che allora ci univa.
L'America ha vinto la guerra fredda perché il suo modello economico
si è rivelato superiore agli altri. Cessata questa competizione
internazionale, non abbiamo più avuto la necessità di dimostrare
che per la maggior parte dei nostri concittadini il nostro sistema
economico manteneva davvero ciò che prometteva.
Ideologia e interessi si
sono combinati per produrre un risultato nefasto. Qualcuno ha tratto
la lezione sbagliata dal crollo del sistema sovietico. Lì c'era
stato un'intervento eccessivo del governo nell'economia, qui c'è n'è
troppo poco. Ma sono state le multinazionali a spingere per
sbarazzarsi di ogni regola, anche quando le regole si erano rivelate
essenziali per tutelare e migliorare il nostro ambiente, la nostra
sicurezza, la nostra salute e la stessa economia.
Che si trattasse di una
scelta ideologica ipocrita lo si è capito quando i banchieri, da
sempre tra i più accesi sostenitori del liberismo economico e
contrari a ogni intervento dello stato nell'economia, si sono
mostrati fin troppo disposti ad accettare centinaia di miliardi di
dollari da parte del governo. I salvataggi bancari sono diventati una
caratteristica ricorrente dell'economia globale sin dall'inizio
dell'era Thatcher-Reagan di mercati "liberi" e di
deregolamentazione.
Il fatto è che il
sistema politico americano annega nel denaro, la disuguaglianza
economica si traduce in disuguaglianza politica, e la disuguaglianza
politica produce una crescente disuguaglianza economica. Come
riconosce anche lo stesso Piketty questa crescita indefinita della
disuguaglianza deriva dalla possibilità per i possessori di
ricchezza di godere per i propri capitali di un tasso di rendimento,
al netto delle imposte, superiore al tasso di crescita dell'economia.
Come può accadere questo? Attraverso la politica, che, decidendo le
regole del gioco, ha sinora prodotto questo risultato.
Ma com'è che mentre
aumenta il benessere delle aziende diminuisce quello dei poveri?
Perché il parlamento sovvenziona gli agricoltori ricchi ma continua
a tagliare i programmi di assistenza alimentare per coloro che non
hanno da mangiare a sufficienza. Oppure perché si regalano centinaia
di miliardi di dollari alle compagnie farmaceutiche e
contemporaneamente si limitano le risorse a disposizione di Medicaid
[programma di assistenza medica per i più bisognosi NdT]. Le
banche che hanno portato all'attuale crisi hanno ricevuto dallo Stato
miliardi, mentre a coloro che hanno perso la casa e alle altre
vittime delle pratiche predatorie delle stesse banche è andata una
miseria. Quest'ultima decisione è stata particolarmente stupida
perché c'erano alternative alla scelta di regalare i soldi alle
banche e limitarsi a sperare che il denaro sarebbe entrato nel
circuito economico attraverso l'incremento nel numero dei prestiti.
Ad esempio avremmo potuto aiutare direttamente i proprietari di casa
in difficoltà e le altre vittime. Questo non solo avrebbe aiutato
l'economia, ma avrebbe avviato una nuova fase di crescita.
Le divisioni che ci
separano sono profonde. La separazione economica e geografica ha reso
chi sta al vertice incapace di percepire i problemi di quelli che
stanno alla base. Come i re di una volta, quelli al vertice
considerano un diritto naturale le posizioni di privilegio di cui
godono. Impossibile spiegare altrimenti le recenti osservazioni del
grande finanziere Tom Perkins, che ha affermato che criticare i
privilegi dell'1% era un comportamento da nazisti, o quelle di
Stephen A. Schwarzman, quell'altro titano della finanza che ha
paragonato all'invasione della Polonia da parte di Hitler la
richiesta di tassare i redditi da capitale allo stesso modo dei
redditi da lavoro.
Sono state la nostra
economia, la nostra democrazia e la nostra società a pagare il
prezzo di queste ingiustizie. Il banco di prova di un'economia non è
la ricchezza accumulata nei paradisi fiscali, ma il benessere del
cittadino medio - tanto più in America, nella cui auto-immagine è
radicata la pretesa di essere la società della grande classe media.
Ma i redditi medi sono oggi più bassi di un quarto di secolo fa
perché l'aumento del reddito è andato prevalentemente a coloro che
già stavano molto, molto in alto, e che oggi si dividono una
percentuale del reddito totale quasi quattro volte maggiore di quella
del 1980. I soldi che sarebbero dovuti percolare verso il basso
sembrano invece essere evaporati al tepore del sole delle isole
Cayman.
Con quasi un quarto dei
bambini americani di età inferiore a 5 anni che vive in povertà, e
con l'America che fa così poco per i suoi poveri, le privazioni di
una generazione vengono trasmesse alla generazione seguente. Certo, è
vero che mai nessun paese è riuscito a realizzare una completa
uguaglianza di opportunità, ma perché l'America è, tra i paesi
avanzati, quello dove le prospettive di vita dei giovani sono più
fortemente dipendenti dal reddito e dall'istruzione dei genitori?
Tra le storie più
toccanti raccontate e discusse in The Great Divide ci sono quelle
delle frustrazioni dei giovani che vorrebbero entrare a far parte di
una classe media che continua a restringersi. L'aumento delle tasse
universitarie e il calo dei redditi hanno portato a un grande aumento
del peso del debito [nei bilanci delle nuove famiglie NdT].
Quelli con solo un diploma di scuola superiore hanno visto i loro
redditi diminuire del 13% negli ultimi 35 anni.
Anche dove sono in gioco
questioni fondamentali di giustizia c'è un divario che continua ad
aumentare, al punto che, agli occhi del resto del mondo e di una
parte significativa della propria popolazione, l'America è diventato
il paese che si segnala per la sua politica di incarcerazione di
massa - siamo un paese, vale la pena ripeterlo, che col 5% della
popolazione mondiale ha circa il 25% dei detenuti di tutto il mondo.
Il fatto è che la
giustizia è diventata una merce che solo pochi si possono
permettere. Infatti i dirigenti di Wall Street hanno potuto usare
avvocati di alto prestigio (e di alto costo) per garantirsi
l'impunità per i crimini che la crisi nel 2008 ha poi così
drammaticamente evidenziato, e le banche hanno usato e abusato del
nostro sistema giuridico per impedire la rinegoziazione dei mutui e
per sfrattare le persone, talvolta anche quelle senza altri debiti.
Più di mezzo secolo fa è
stata l'America a fare da battistrada per la Dichiarazione
Universale dei Diritti dell'Uomo, poi approvata dalle Nazioni
Unite nel 1948. Oggi che l'accesso alle cure sanitarie è fra i
diritti più universalmente accettati, almeno nei paesi avanzati,
l'America, nonostante il varo dell'Affordable Care Act,
altrimenti noto come “Obamacare”, è l'eccezione negativa. Siamo
diventati un paese con grandi disuguaglianze nell'accesso alle cure
sanitarie, nell'aspettativa di vita e di stato di salute.
Nel sollievo che molti
hanno espresso quando la Corte Suprema non ha approvato la richiesta
di giudicare incostituzionale l'Affordable Care Act, le implicazioni
di quella decisione per la diffusione di Medicaid non sono state
pienamente valutate. Perché in pratica quelle motivazioni permettono
agli Stati di rifiutare i finanziamenti federali necessari per il
raggiungimento completo dell'obiettivo di Obamacare - che tutti gli
americani abbiano accesso alle cure sanitarie - e quindi di fatto lo
ostacolano: sono 24 gli Stati che hanno deciso di non attuare il
programma Medicaid espanso, che era il mezzo con cui Obamacare
avrebbe dovuto garantire l'assistenza sanitaria ai più poveri.
Non abbiamo bisogno solo
di una nuova guerra alla povertà, ma anche di una guerra per
proteggere la classe media. Le soluzioni a questi problemi non sono
strane diavolerie. Anzi, sarebbe già un buon inizio far funzionare i
mercati come mercati. Dobbiamo porre fine a una società che
favorisce le rendite e nella quale i più ricchi guadagnano dal
manipolare per i propri fini il sistema economico.
Il problema della
disuguaglianza non è una questione di corrette tecniche economiche
ma di concrete scelte politiche. Far pagare a quelli che stanno in
alto la loro giusta quota di tasse - cioè porre fine ai privilegi di
speculatori, multinazionali e megaricchi - è sia fattibile che
giusto. Far cambiare di segno una politica sinora a favore dei più
avidi non significa avviare una politica basata sull'invidia. La
disuguaglianza non riguarda solo l'aliquota fiscale per lo scaglione
più alto, ma anche l'accesso dei nostri figli al cibo e il diritto
alla giustizia per tutti. Decidendo di spendere di più per
l'istruzione, la sanità e le infrastrutture, rafforziamo la nostra
economia, ora e in futuro. Aver già sentito inutilmente questo
ritornello non significa che dovremmo smettere di provarci.
Abbiamo individuato
l'origine del problema: la crescente disuguaglianza ha determinato la
mercificazione della politica e corrotto la nostra democrazia. Solo
come cittadini impegnati siamo davvero in grado di lottare per
un'America più giusta, e possiamo farlo solo se comprendiamo in
profondità le dimensioni della sfida. Non è troppo tardi per
riguadagnare il rispetto del mondo e ritrovare il senso di chi siamo
come nazione. L'aumento e l'aggravamento della disuguaglianza non
dipendono da immutabili leggi economiche, ma sono il risultato di
leggi scritte da noi stessi.
da “il dialogo” ,
postato il 4 Luglio 2014
(Traduzione di Gianni
Mula)
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