2.11.10

Racalmuto e Azinhaga. Il bronzo e le radici (con uno scritto di José Saramago)

Sciascia e Saramago, letterati l’uno dall’altro diversissimi, hanno in comune una statua bronzea che al loro paese natio fissa l’immagine dei loro corpi, solo leggermente ingranditi, in un atteggiamento naturale ed in pose abituali, dando l’impressione di una presenza effettiva. Saramago è intento a leggere sulla panchina di un pubblico parco ad Azinhaga e Sciascia a passeggio sul marciapiede di una pubblica via di Racalmuto.
Come scrittori (e scrittori civili) i due ebbero in comune soprattutto l’intransigente intelligenza laica, con acume esercitata sui più vari fatti dell’attualità e della storia. Usarono, tra l’altro, lo stesso titolo, Quaderni, per rubricare e accumulare riflessioni. Sciascia ne diffondeva le pagine negli anni 60 sul quotidiano palermitano “L’ora”, Saramago parecchi anni più tardi utilizzando le potenzialità della rete. Le pagine che composero potrebbero apparire episodiche e talora svagate e stravaganti, ma sono testimonianza di personalità uniche ed integre.
Con il titolo L’ultimo quaderno Feltrinelli raccoglie ora postumi alcuni brevi scritti di Saramago. Uno dei pezzi, Il bronzo e le radici, è il discorso che tenne per l’inaugurazione della statua che, ancor vivo, gli fu dedicata ad Azinhaga. Lo propongo qui, ricavandolo da “La Stampa”, che lo pubblicò in anteprima il 19 giugno 2010. Un analogo discorso di Sciascia non esiste, a Racalmuto ne aspettarono la morte per fargli la statua: sono convinto che a quello di Saramago somiglierebbe non poco, specie per la rivendicazione delle radici. (S.L.L.)
Sto lì, al centro dello spiazzo, con un libro in mano, a guardare chi passa. Mi hanno fatto un po’ più grande del normale, immagino affinché mi si veda meglio. Non so per quanti anni starò lì. Ho sempre detto che il destino delle statue è di essere rimosse, ma, in questo caso, voglio immaginare che mi lasceranno in pace, uno che è tornato in pace alla sua terra per due volte, come la persona che è e, da oggi, come anche il bronzo che è passato a essere. Nonostante la mia immaginazione alcune volte mi abbia fatto cadere nei deliri più assurdi, non si è mai spinta ad ammettere che un giorno mi avrebbero dedicato una statua nella terra in cui sono nato. Cosa ho fatto perché questo accadesse? Ho scritto alcuni libri, ho portato con me, in giro per il mondo, il nome di Azinhaga e, soprattutto, non ho mai dimenticato chi mi ha generato ed educato: i miei nonni e i miei genitori. Di loro ho parlato a Stoccolma di fronte a un'illustre platea e sono stato capito. Quello che vediamo degli alberi è soltanto una parte, importante, senza dubbio, ma che non sarebbe nulla senza le sue radici. Le mie, quelle biologiche, si chiamano Josefa e Jeronimo, José e Piedade, ma ce ne sono altre che sono posti, luoghi, Casalinho e Divisoes, Cabo das Casas e Almonda, Tejo e Rabo dos Cagados, si chiamano anche olivi, salici, pioppi e frassini, barche da caccia che navigano sul fiume, fichi carichi di frutti, maiali portati a pasteggiare, e alcuni, ancora suinetti, che dormono nel letto con i miei nonni per aiutarli a non morire di freddo. Di tutto questo sono fatto, tutto questo è entrato nella composizione del bronzo in cui mi hanno trasformato. Ma, attenzione, non c'è stata un'autocreazione naturale. Senza la volontà, lo sforzo e la tenacia di Vitor Guia e di José Miguel Correia Noras la statua non sarebbe lì. Dal più profondo della mia gratitudine lascio loro qui un abbraccio, da estendere a tutto il popolo di Azinhaga, alle cui cure lascio quest'altro suo figlio che io sono.

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