6.11.10

Schifani. Un uomo per tutte le stagioni.

Lirio Abbate e Gianluca Di Feo, su “L’Espresso” della scorsa settimana, raccontano una storia edificante. Comincia nel dicembre 83, quando, dal carcere dell’Ucciardone, Giovanni Bontate, il più ricco di Cosa nostra, fratello del padrino Stefano ucciso su ordine di Totò Riina, ultimo esponente della famiglia mafiosa più importante di Palermo, per salvaguardare le sue proprietà - immobili e aziende per un valore di decine di miliardi di lire - finite sotto sequestro, si affida a due avvocati, un penalista e un civilista. Il civilista, giovane, ha nome Renato Schifani. Con quell’incarico il trentatreenne avvocato fa il suo ingresso trionfale nel “gotha” del foro palermitano.
Due mesi fa, di fronte alle confessioni di Spatuzza che hanno provocato l’iscrizione dell’attuale presidente del Senato nel registro degli indagati per l’ipotesi di concorso esterno con le attività delle cosche, il portavoce disse: “La sua pregressa attività di avvocato è stata sempre improntata al pieno e totale rispetto di tutte le leggi e di tutte le regole deontologiche proprie dell’attività forense”.
“L’espresso” ha recuperato gli atti della difesa di Bontate, per cui Schifani produsse corpose memorie difensive, assistendolo fino alla Cassazione. Non occupava di questioni penali, ma solo di contestare il sequestro dei beni ed impedire la confisca. La legge Rognoni-La Torre era stata approvata meno di un anno prima, dopo l’omicidio del segretario regionale del Pci, Pio La Torre, per cui la causa Bontate era una causa pilota. L’avvocato Schifani segue una linea garantista, criticando l’uso di tutte le indagini precedenti la legge ai fini dei provvedimenti di sequestro. Renatino – così lo chiamavano - analizza i beni di Giovanni Bontate – un distinto mafioso, laureato in legge e imprenditore, oltre che gerente del traffico di droga con gli States - sottolineandone la congruità con il tenore di vita. In un passaggio fa riferimento al condono fiscale che rende difficile confrontare i redditi dichiarati con quelli reali, ma soprattutto Schifani evidenzia più volte i “fondati e sostanziali rilievi di incostituzionalità della legge Rognoni-La Torre” che inverte l’onere della prova: sono i mafiosi a dover dimostrare come hanno fatto a guadagnare i loro beni per evitare che il sequestro divenga confisca. Proprio questo era stato l’elemento portante di quel provvedimento. A vanificare l’impegno dell’avvocato furono i “corleonesi” che nel 1988 assassinano Bontate, agli arresti domiciliari per motivi di salute, e la moglie. Con la loro morte una gran parte del sequestro venne annullata: case e terreni vennero riconsegnati agli eredi che ne sono ancora proprietari. Era un buco nero nella legge Rognoni-La Torre, nata come provvedimento d’emergenza. Oggi il difetto è stato eliminato, la confiscabilità è stata estesa agli eredi, il presidente Schifani e il ministro Alfano ne traggono giusta ragione di vanto. Non sappiamo se essere ammirati o diffidenti su questo drastico mutamento di prospettiva: vi ha certo giocato un ruolo il tempo che modifica molte convinzioni ed ancor più, credo, la capacità di adattamento ai vari ruoli, allora di avvocato, oggi di legislatore. C’è però un passaggio dell’articolo di Abbate e Di Feo che fa intravedere nella vicenda un lampo di luce sinistra. Dopo l’arresto di Bontate, nel luglio del 1983, Cosa nostra aveva alzato il tiro, uccidendo con una autobomba il giudice Rocco Chinnici. Nel suo diario Chinnici aveva scritto: “Se mi succederà qualche cosa di grave i responsabili sono due”; uno dei due era “l’avvocato Paolo Seminara”. E’ proprio lui il penalista che nel dicembre del 1983, dalla cella dell’Ucciardone, Bontate chiamò in proprio soccorso insieme a Schifani.

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