23.11.10

La bicicletta contro la pelliccia. L'orgoglio di non possedere (di Rossana Rossanda)

Sparse qua e là in articoli su vari temi, memorie di adolescenza e di giovinezza di Rossana Rossanda, corredate da opportune riflessioni storiche, sono state pubblicate nel tempo da "il manifesto". Alcuni tra questi frammenti di autobiografia, come quello che segue, sulle conseguenze della crisi del 29 nella vita e nelle mentalità delle due ragazze Rossanda (l'altra è la sorella Marina), possono essere considerati il nucleo originario del romanzo autobiografico che l'intellettuale comunista ha pubblicato qualche anno fa per Einaudi: La ragazza del secolo scorso
Il brano è tratto da una "talpa giovedì", uno degli inserti monografici che uscivano settimanalmente con "il manifesto", dal titolo La proprietà privata non è più un furto?, del 19 aprile 1990. (S.L.L.)
La proprietà non è un bisogno, tanto meno è un diritto: è una cultura. Se qualcuno ne ha avuto la percezione immediata è stata, credo, la generazione piccolo e medio borghese che ha avuto traversata la vita dalla crisi del 29. Nel 29 gli assetti proprietari, immobili e denaro, e lo stile di vita ad essi collegato furono spazzati dall’uragano. E anche là dove riuscirono ad essere conservati perdettero la sicurezza che avevano avuto: erano diventati labili. Le famiglie furono dissolte, e la ricerca di un’altra città o un altro lavoro dal quale ricominciare fu la dimostrazione, trasparente anche ai bambini – perché per molti anni se ne parlò – di quanto fragili fossero le proprietà. Nel bene o nel male, la persona doveva trovare un’ancora fuori dal conto in banca, la casa o la terra.
Non so come questa esperienza fu vissuta dei ricchissimi o dai poverissimi: i documenti non mancano ai due estremi dell’arco sociale, le grandi famiglie e I disoccupati di Marienthal. So come fu vissuto dai medi ceti: per alcuni fu la fine del mondo, per molti l’ingresso nella modernità, Roosevelt e Tempi moderni, l’essere restituiti a sé e le  avventurose traversate dell’esistenza. Mio padre morì 20 anni dopo, ancora sgomento di non essere riuscito ad assicurare alla giovane moglie e alle bambine la casa col parco comprata per loro; mia madre si asciugò presto le lacrime, scoprì che parlare alcune lingue era utile e cambiò allegramente i pigri ricami pomeridiani sul telaio con gli svolazzi della stenografia in due mesi di corso intensivo. Noi bambine ci applicammo a mettere, accanto agli uscieri del tribunale, i cartellini del pignoramento sotto mobili e tappeti, ignare che strappavamo il cuore a mamma e papà; e trasportate a destra e a sinistra senza fame né freddo, venimmo su convinte che noi sole saremmo state certezza a noi e tutto il resto vanitas vanitatum.
Era una certezza niente affatto lugubre, per i ceti che confinavano con la cultura, ed erano antifascisti o afascisti. Che fosse traballante quel poco che avevamo intuito della tradizione ci faceva fiutare confuse libertà. Legate agli eventi, slegate dal denaro: a dieci anni ingoiando ubbidienti la minestra, sentivamo uscire dalla Phonola notizie e sangue sulla guerra di Spagna e non credevamo a nulla di quel che veniva detto. Una relativa stabilità del mondo e prevedibilità del tempo sarebbero entrate nelle nostre esistenze soltanto verso i vent’anni, finalmente grandi. E si accompagnarono senza tremare a desideri di tempestose palingenesi: avevamo avuto, tutto sommato, buona formazione. In cui la proprietà era secondaria e mutevolissima, come quasi tutto, potenze, poteri e confini inclusi. Né potevamo rimpiangerla, noi che non avevamo conosciuto né vera ricchezza, né vera miseria. Nella piccola e media borghesia la proprietà non si legava all’agio, ma alla paura, paura di perderla. Forse questa era anche precedente al 29, certo fu generale dopo. Crescemmo con vivaci antipatie per case da usare con precauzione senza entrare nel salotto buono, né sedersi sui divani, per il servizio di Boemia miracolosamente salvato la cui incrinatura era una tragedia, per la pelliccia di astrakan comprata in Ungheria dalla mamma o dalla zia per esser indossata la domenica nelle messe, in piedi onde non sedercisi sopra, per i brillanti, un investimento da chiudere nella cassetta di sicurezza, per l’abito bello da non sciupare, le cose buone da non mangiare e i soldi da non spendere. Per cui, ragazze e adolescenti, scegliemmo la libertà e disprezzammo la proprietà: parrà strano, ma l’equazione della nostra giovinezza fu questa. Andavamo a scuola come veniva, colletti aperti e via le sciarpe appena la mamma non vedeva, biciclette rottami e libri nella cinghie di gomma. Con stupore vedo oggi i bambini domandare lo zainetto Fiorucci e la cintura Charro. Temo ci lavassimo i capelli col sapone, al riparo degli adulti, i discorsi fra noi erano grandiosi, sui fini ultimi di vite che avremmo avuto immancabilmente altrove.
Nel mondo. Chi la voleva la casa di proprietà? Le ragazze meno che mai, perseguitate dalla coazione dei parquet tirati a cera. Eravamo fervide nel modernismo, avremmo abitato per breve tempo case d’affitto da cui avremmo strappato le tappezzerie a fiori, intonacato di bianco, grandi cuscini per terra e libri dappertutto. Ne saremmo uscite come da un paio di scarpe, per andare dove eventi o traversie, interessi o passioni ci avrebbero portato. Oggi chi va in cerca di radici penserà che eravamo matte a strapparle. Non riuscimmo mai a piangere la perdita di un luogo o di un oggetto – erano stati per i nostri padri e nonni qualcosa non da “usare” ma da “custodire” con angoscia. La modernità era il viaggio e non sul Queen Mary. Come per i ragazzi dell’Attimo fuggente – film da anni 30 – l’essenziale nel quale ci saremmo tuffati non sarebbe stato “una cosa”. Le cose erano inessenziali, crudeli, fugaci: tutte come il denaro.

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