9.3.11

Capitalisti, crisi economica, intervento pubblico (di Michal Kalecki)

Agli inizi della lunga crisi economica dell’Occidente di cui non si intravede la fine e che aumenta in tutto il pianeta i rischi di guerra, nell’ottobre del 2008, “micropolis” pubblicò un ampio stralcio da un articolo dell’economista polacco Michal Kalecki, introdotto da una nota esplicativa di Renato Covino. Lo ripropongo perché mi pare tuttora un buono strumento per orientarsi, almeno in Europa e Nordamerica. (S.L.L.)
Michal Kalecki
Presentazione
Diciamo la verità: nell’ultimo mese ne abbiamo sentite e viste di tutti i tipi. Dal moralismo sui banchieri rapaci (ma non lo sono sempre?), al “l’avevamo detto” dell’anista Gasparri, divenuto improvvisamente statalista ed antiliberista, fino al pavoneggiamento dell’inventore della finanza creativa Tremonti che perlomeno ha avuto il merito di scrivere un brutto libro in cui coglieva tuttavia alcune tendenze dispiegatesi nelle ultime settimane. Più semplicemente non si trova più un liberista in giro neppure a pagarlo a peso d’oro, tranne qualche fesso del Pd rimasto attardato in ridotte filoglobalizzatrici e antistataliste. Tutti favorevoli all’intervento pubblico, pur con le cautele del caso: deve essere provvisorio e durare poco. Sommessamente ricordiamo che l’Iri nacque come ente provvisorio nel 1933 e rimase attivo fino ai primi anni novanta del secolo scorso, solo per dire che in Italia, e non solo in Italia, non c’è nulla di più duraturo di quello che viene proposto come temporaneo.
D’altro canto qualcuno, non solo in America, è andato a scomodare il socialismo. Quasi che l’intervento pubblico nei confronti di banche ed imprese in crisi rappresenti una misura socialista e non un intervento sul ciclo economico. Ancora: all’inizio, sull’onda delle considerazioni della scuola economica austriaca iperliberista degli anni trenta (Von Hyeck e Von Mises), si è ritenuto che l’esplosione della bolla finanziaria e bancaria fosse effetto di un cattivo funzionamento del sistema capitalistico, di una speculazione incontrollata. Si è dovuto prendere atto che la speculazione è effetto di una crisi che trae le sue radici dalle difficoltà dell’economia reale.
Passato il primo sconcerto è iniziata la reazione. La prima a suonare la diana della riscossa è stata Emma Marcegaglia, combattiva leader di Confindustria. Parlando al convegno dei giovani industriali a Capri ha tenuto a precisare con piglio battagliero che c’è una crisi seria del capitalismo, ma il capitalismo non è morto, che è giusto che lo Stato intervenga ma occorre ristabilire in tempi rapidi i normali meccanismi di mercato.
Il fatto è che i “capitani d’industria” subiscono ed auspicano l’intervento dello Stato nelle fasi di crisi, tranne censurarlo ed esecrarlo quando la crisi finisce. Molti si domanderanno il perché di un atteggiamento apparentemente schizofrenico. Avevamo pensato di spiegarlo ai nostri lettori. Poi rovistando nella memoria ci siamo ricordati che un grande economista, Michal Kalecki, l’aveva già fatto ben 65 anni fa in un articolo dal titolo Aspetti politici del pieno impiego nel volume Sul capitalismo contemporaneo, Roma, Editori Riuniti, 1975, che un nostro compagno, Mario Mineo, ne aveva pubblicato a fine anni settanta un lungo stralcio su “praxis” la rivista su cui scrivevano allora alcuni di noi.
Siamo andati a rileggercelo: l’articolo rispondeva a molte delle nostre domande e, speriamo, a quelle dei nostri lettori, nonostante l’uscita nel 1943. L’abbiamo un po’ integrato rispetto alla scheletrica versione mineiana e lo proponiamo all’attenzione dei nostri lettori.
Abbiamo discusso se fosse il caso di ripubblicare un articolo pubblicato in un volume di un editore una volta prestigioso. Il libro in realtà ha circolato solo in circuiti esoterici di comunisti e di economisti non ortodossi. Kalecki era un economista marxista geniale e senza paraocchi e, nonostante che avesse avuto verso la fine dalla sua vita qualche ruolo di prestigio nella nomenclatura polacca, finì la sua vita in disgrazia. Motivo di più per pubblicarne il testo, acuto e puntuale, e ricordarne la lezione, in un’epoca in cui appare sempre più difficile trovare maestri. (Re. Co.)
Dopo il crack del 1929. La grande depressione negli Usa.
Capitalisti, crisi economica e intervento pubblico
Il problema di garantire il pieno impiego per via dell’espansione della spesa pubblica, finanziata col
prestito, è stato largamente discusso negli ultimi anni. Tale discussione si è tuttavia concentrata sul lato puramente economico di tale problema, senza la dovuta considerazione dei suoi aspetti politici. La premessa che il governo di uno Stato capitalista manterrà il pieno impiego se soltanto saprà come fare, non è assolutamente ovvia. L’avversione del grande capitale al mantenimento del pieno
impiego tramite le spese statali ha a questo proposito un’importanza fondamentale. E’ chiaro che un più elevato livello della produzione e dell’occupazione è favorevole non soltanto ai lavoratori, ma anche ai capitalisti, perché i loro profitti si accrescono. D’altra parte, la politica di pieno impiego, basata sulle spese statali finanziate in deficit, non incide negativamente sui profitti in quanto non richiede la istituzione di nuove imposte. In una situazione di crisi i “capitani d’industria” si struggono per la ripresa. Perché quindi non accolgono con gioia la “ripresa artificiale” che lo Stato offre loro? […]
Le ragioni dell’opposizione dei capitalisti al pieno impiego realizzato dal governo tramite la spesa pubblica possono venir suddivise in tre categorie: 1) l’avversione all’ingerenza dello Stato nella questione dell’occupazione in genere; 2) l’avversione nei confronti della direzione delle spese pubbliche (gli investimenti pubblici e le sovvenzioni del consumo); 3) l’avversione alle trasformazioni sociali e politiche derivanti dal mantenimento costante del pieno impiego [...]
Ogni allargamento nell’ambito dell’attività economica dello Stato è visto con sospetto dai capitalisti, ma l’accrescimento dell’occupazione tramite le spese statali ha un aspetto particolare che rende la loro opposizione particolarmente intensa.
Nel sistema del laisser faire il livello dell’occupazione dipende in larga misura dalla così detta atmosfera di fiducia. Quando questa si deteriora, gli investimenti si riducono, cosa che porta ad un
declino della produzione e dell’occupazione (direttamente o indirettamente, tramite l’effetto di una riduzione dei redditi sul consumo e sugli investimenti). Questo assicura ai capitalisti un controllo automatico sulla politica governativa. Il governo deve evitare tutto quello che può turbare “l’atmosfera di fiducia”, in quanto ciò può produrre una crisi economica. Ma una volta che il governo abbia imparato ad accrescere artificialmente l’occupazione tramite le proprie spese, allora
tale “apparato di controllo” perde la sua efficacia. Anche per questo il deficit del bilancio, necessario per condurre l’intervento statale, deve venir considerato come pericoloso. La funzione sociale della dottrina della “finanza sana” si fonda sulla dipendenza del livello dell’occupazione dalla “atmosfera di fiducia”. L’avversione dei “capitani d’industria” alla politica di espansione della spesa pubblica diventa ancora più acuta quando si cominciano a considerare i fini per cui tali spese possono venir destinate, e cioè gli investimenti pubblici e la sovvenzione del consumo di massa. Il fine cui mira l’intervento statale richiede che gli investimenti si limitino agli oggetti che non competono con l’apparato produttivo del capitale privato (ad esempio ospedali, scuole, strade, ecc.), in caso contrario infatti l’accrescimento degli investimenti pubblici potrebbe avere un effetto negativo sul rendimento degli investimenti privati, e la caduta di questi potrebbe compensare l’effetto positivo degli investimenti pubblici sull’occupazione. Tale concezione è per i capitalisti privati interamente di loro gusto, ma l’ambito degli investimenti pubblici di tale tipo è piuttosto ristretto e vi può essere la possibilità che il governo [...] possa spingersi a nazionalizzare i trasporti
o i servizi pubblici per poter allargare l’ambito del suo intervento. Ci si può quindi attendere che i “capitani d’industria” e i loro esperti abbiano una disposizione più favorevole nei confronti del sovvenzionamento del consumo di massa (tramite gli assegni familiari, i sussidi volti alla riduzione dei prezzi degli articoli di prima necessità, ecc.) piuttosto che nei confronti degli investimenti pubblici: nel sovvenzionare il consumo lo Stato infatti non interferirebbe in alcuna misura nella sfera della “attività imprenditoriale”. In realtà tuttavia la questione si presenta altrimenti: la sovvenzione dei consumi di massa incontra una avversione ancora più aspra [...]. Ci imbattiamo qui infatti in un principio “morale” della più grande importanza: le basi dell’etica capitalistica richiedono che “ti guadagnerai il pane col sudore della tua fronte” (a meno che tu non viva dei redditi del capitale).
Abbiamo già considerato le ragioni politiche dell’opposizione alla politica di creazione di occupazione tramite la spesa pubblica. Ma anche se tale posizione fosse vinta, cosa che può in realtà verificarsi sotto la pressione delle masse, il mantenimento del pieno impiego porterebbe a trasformazioni politiche e sociali che darebbero nuova forza all’opposizione ai “capitani d’industria”. Infatti, in un regime di continuo pieno impiego, il licenziamento cesserebbe di agire come misura disciplinare. La posizione sociale del “principale” sarebbe scossa, si accrescerebbe la sicurezza di sé e la coscienza di classe dei lavoratori. Gli scioperi per un salario più alto e il miglioramento delle condizioni di lavoro sarebbero fonti di tensione politica. E’ vero che i profitti sarebbero più elevati in un regime di pieno impiego, rispetto al loro livello medio sotto il laisser faire. Persino la crescita dei salari derivante dalla posizione più forte dei lavoratori verrebbe ad agire piuttosto in direzione di un accrescimento dei prezzi che di una riduzione dei profitti e in tale maniera verrebbe a colpire soprattutto gli interessi dei rentiers.
Ma “la disciplina nelle fabbriche” e la “stabilità politica” sono più importanti per i capitalisti dei profitti correnti. L’istinto di classe dice loro che una continua piena occupazione non è “sana” dal loro punto di vista perché la disoccupazione è un elemento integrale di un sistema capitalistico normale. […] Il periodo nel quale i “capitani d’industria” potevano permettersi di combattere qualsiasi forma di intervento statale, avente come scopo una attenuazione delle crisi economiche, appartiene ormai al passato. Attualmente non si pone in questione la necessità dell’intervento pubblico in tempo di crisi. La controversia si riferisce piuttosto alla direzione di tale intervento e al fatto se esso debba venir posto in essere soltanto al fine di attenuare la crisi o debba anche tendere ad assicurare un costante pieno impiego.
Nelle discussioni correnti su tale tema riemerge continuamente la concezione secondo cui la crisi deve essere contrastata tramite la stimolazione dell’investimento privato. Il capitalista resta l’intermediario tramite il quale l’intervento viene ad essere effettuato. Qualora la situazione politica non gli dia fiducia, allora non si fa “comprare” e non accresce i suoi investimenti. Nello stesso tempo tale tipo di intervento non porta lo Stato “a giocare agli investimenti” (pubblici) non fa “buttar via soldi” nel sussidiare il consumo. E’ possibile tuttavia dimostrare che l’incentivazione dell’investimento privato non è un metodo adeguato per prevenire la disoccupazione di massa [...]
La situazione si presenta attualmente come se i “capitani d’industria” e i loro esperti avessero tendenza ad accettare come “male minore” un’attenuazione della crisi tramite le spese pubbliche finanziate per via del deficit del bilancio. Sembra tuttavia che essi siano ancora ostinatamente contrari ad un accrescimento dell’occupazione ottenuto sovvenzionando il consumo e agli sforzi di mantenere il pieno impiego. Tale stato di cose sarà forse sintomatico per il futuro sistema economico delle democrazie capitalistiche. In tempo di crisi o in seguito alle pressioni delle masse, e forse anche senza di questo, si metteranno in moto gli investimenti pubblici finanziati tramite il deficit di bilancio, allo scopo di contrastare la disoccupazione di massa. Ma qualora si facciano dei tentativi per utilizzare tali metodi al fine di mantenere l’elevato livello di occupazione raggiunto nel boom successivo, si andrà incontro probabilmente ad un’aspra opposizione da parte dei “capitani d’industria”. Come abbiamo già mostrato più sopra, essi non desiderano assolutamente un pieno impiego costante. I lavoratori diventano in tale situazione “recalcitranti” e i “capitani d’industria” diventano ansiosi di dar loro una lezione”. Inoltre la crescita dei prezzi in tempo di boom agisce a svantaggio dei redditieri piccoli e grandi cosicché oggi essi cominciano ad avversare l’alta congiuntura. In tale situazione si forma probabilmente un blocco del grande capitale e delle rendite, e tale blocco trova probabilmente più di un economista pronto a dichiarare che la situazione è estremamente poco sana. La pressione di tutte queste forze, e in particolare del grande capitale, induce sicuramente il governo al ritorno alla politica tradizionale di pareggio del bilancio. In tale maniera subentra la crisi, nella quale lapolitica di espansione della spesa pubblica riacquista di nuovo il proprio significato.
Tale schema di “ciclo congiunturale politico” non è del tutto ipotetico, in quanto uno sviluppo analogo degli avvenimenti si è verificato negli Stati Uniti negli anni 1937-1938. L’interruzione del boom nella seconda metà del 1937 fu in realtà la conseguenza di una forte riduzione del deficit di bilancio. D’altra parte nell’acuta crisi che di nuovo ne derivò, il governo ritornò rapidamente alla politica di espansione delle spese pubbliche. Per cui il regime del “ciclo congiunturale politico” non assicurerebbe il pieno impiego tranne che nel punto massimo del boom, ma le crisi sarebbero relativamente moderate e di breve durata.

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