31.3.11

Ripetere, ripetere, ripetere (di Gian Luigi Beccaria)

Nella rubrica Parole in corso, sul Tuttolibri de “La Stampa” del 5 marzo 2011, Gian Luigi Beccaria riflette sugli effetti del berlusconismo, inteso come tecnica oratoria e di comunicazione, nella vita collettiva del nostro paese. Da leggere. (S.L.L.)
Lo slogan sostituisce il pensiero, la rissa soffoca il dialogo: l’esempio vien dall’alto

Il nostro premier sabato 25 febbraio ha detto che la scuola pubblica diseduca. Non per follia, ma perché desiderava incassare una particolare benedizione di quella parte di Chiesa che non lo osteggia. Ma soprattutto, da buon pubblicitario, sa bene che le parole, a forza di dirle e ridirle, prima o poi entrano nella zucca della gente. Forse che non è entrato nel senso comune il concetto che i magistrati che incriminano lui e i suoi amici sono «magistrati politicizzati», «toghe rosse»?
Nell'aureo libretto Sulla lingua del tempo presente (Einaudi), Gustavo Zagrebelsky ci ha opportunamente ricordato il motto di Goebbels: «Ripetere una cosa qualsiasi cento, mille, un milione di volte e diventerà verità». La ripetizione ossessiva da parte del nostro premier di parole come slogan non è ripetizione senile, ma una chiarissima tecnica pubblicitaria: la ripetizione del prodotto.
Ci stiamo ormai abituando a considerare la vita pubblica come un grande spazio per pubblicitari e venditori di slogan. Il premier è gran maestro in questo campo: continua a ripetere che i magistrati sono «fanatici», i giornalisti «comunisti», o comunque dominati dai «poteri forti» e dalle opposizioni, e via seguitando con amenità del genere. La frequenza nell'usare «comunista» per dir male dell'avversario è stupidaggine e nello stesso tempo astuzia: pur sapendo che quel termine non ha più un fondamento reale, poiché il comunismo si è estinto da oltre una generazione, e che è parola vaga e generica, parola etichetta che non vuole più dire nulla, formula rituale priva di contenuto, suona in ogni caso come parola negativa che risveglia echi profondi, che riassume stati d'animo sedimentati nella storia italiana, attinge a strati della memoria collettiva di un passato che ha prodotto in certi paesi «miseria, terrore, morte» (parole d'autore!).
Ripetere dunque, ridire,e poi insultare. Tutto ciò genera infinita malinconia e sconforto, in un paese civile come il nostro che si sta apprestando a festeggiare alcuni punti luminosi del suo passato, i 150 anni della raggiunta Unità. Disturba infinitamente che la scena pubblica si sia così tanto trivializzata. E che sia diventata soltanto rissosa. Non appartiene più all'uso presente il linguaggio del dialogo, quello che chiarifica, o persuade sulla bontà di un programma, verte su dei contenuti concreti. Tutta l'oratoria dei politici si concentra nel distruggere il programma degli altri invece di costruire e di limare il proprio, tutta l'intelligenza si spreca nel «pensare contro». Non si è più capaci di «pensare insieme».
Nei dibattiti si sa soltanto ululare, interrompe l'avversario, dar sulla voce, contrapporre al ragionamento il non-ragionamento delle urla e delle parole svuotate di senso reale: ridotte al minimo, sempre le stesse, battute e ribattute, diminuiranno sempre di più le possibilità, gli spazi del pensiero e della discussione costruttiva.

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