4.5.15

James Watson & Francis Crick. La strana coppia della doppia elica (Enrico Alleva)

Da sinistra Francis Crick e James Watson
Sono passati più di trent'anni da quando nel 1983, seguendo il consiglio che dava Enrico Alleva su “la talpa giovedì”, il supplemento libri del “manifesto”, comprai e lessi un paio di libri scientifici, molto diversi tra loro, ma uniti dal fatto che ne erano autori James Watson e Francis Crick. I due, in coppia, erano stati gli inventori del “doppia elica” del Dna, modello teorico che è stato all'origine di moltissime ricerche e alla base di intere discipline quali la genetica o la biologia molecolare. I libri, chissà come chissà per dove, sono scomparsi dalla mia biblioteca. Ho il sospetto che ci sia un collegamento con le scelte di vita di mia figlia, che oggi da professore ordinario organizza e compie ricerche di biochimica molecolare all'Università di Copenaghen. Ho conservato invece il ritaglio dell'articolo di Alleva, da cui recupero lo stralcio che segue.

Il primo testo, che è la ristampa di un libro, risaputamente «grande», La doppia elica: trent'anni dopo, Garzanti 1982), è scritto vivacissimo di Watson, e narra proprio della grande «scoperta» che un ornitologo «pentito» e un fisico logorroico fecero, bruciando sulla linea d'arrivo il quotatissimo rivale americano Linus Pauling. Un titolo — poi abortito — di questo libro-racconto fu Base pairs, grazioso doppio senso traduciblle sia come «Coppia di basi» (l'essenza della «visione» di scala ritorta a doppia elica, intuita proprio come complementarità stereochimica delle coppie di basi che costituiscono i pioli della scala) come «Quella sporca coppia» (epiteto riferibile ai due scopritori).
E il racconto di questo storico rapporto di coppia scientifica scorre tutto d'un fiato, piacevole quanto un buon romanzo d'avventura. Ma di questo libro va ricordata soprattutto l'importanza nella storia della divulgazione scientifica, dato che esso in origine venne addirittura «ricusato» dalla Harvard Università Press per la quale fu scritto, e nonostante la notorietà dell'autore, il che provocò scandali e (si dice) dimissioni. Né — a ripensarci — diversamente poteva essere, considerato il clima sommesso e apparentemente asettico della scienza degli anni cinquanta e sessanta. Possibile dare alle stampe il libro di un premio Nobel che si rallegrava pubblicamente e per iscritto del fatto che sua sorella «si fidanzasse» con il figlio di un collega, dato che così lui avrebbe potuto rapidamente rifornirsi d'informazioni scientifiche, trasmesse su «corsia preferenziale»? Dove sarebbe andata a morire l'etica di tutta una corporazione, da sempre ritenuta immolarsi con distacco e onestà al progresso delle conoscenze dell'umanità?
Ma il libro usci lo stesso, sia pure a puntate, su una rivista. E subito fu rissa. In questa riedizione, curata dal noto biologo molecolare Gunther Stent, assieme alla riproposizione del testo originale, c'è anche la raccolta assolutamente non accessoria di una ventina di recensioni dei saggi del tempo. Trent'anni dopo, c'è anche chi recensisce i recensori. Qui viene il bello.

Anche il testo di Francis Crick, che il compare Watson ci .cura «non aver mai visto in evna di modestia» esce nel «Saggi Rossi» di Garzanti. Collana brillante quindi per scelte, e accurata per formulazioni e che , a dal primi titoli sembra collocarsi molto in alto nell'Olimpo (non poi così tanto olimpionico) della letteratura scientifica italiana.
Nel suo L'ordine della vita, Crick riproponi almeno per la terza volta nella storia della scienza l'ipotesi della «Panspermia guidata», cioè di un'origine extraterrestre della vita terrestre: ipotesi costruita su dati biochimici, astronavi vettrici, considerazioni probabilistiche di Enrico Fermi.
Ma quello che c'è di realmente originale (e di piacevolmente utile) nel libro non è tanto l'esposizione di questa ipotesi, che lo stesso Crick si chiede se sia «scienza autentica o soltanto una forma di fantascienza neanche troppo fantasiosa». Sono le considerazioni, e le riflessioni magari riproposte fra le righe o nascoste dall'ironia di chi, sulla vita di laboratorio, la sa evidentemente molto lunga, e che fanno di questo libro un manualetto ottimo di filosofia naturale del nostri tempi.
Il lettore scoprirà così che la sua vita è meno spessa di una virgola del libro che sta leggendo, se in esso una parola vale 1500 anni. E oltre che per la brevità dell'umana esistenza, resterà stupito (mai abbastanza) del nostro relativismo sensoriale, che tanto goffi ci rende nell'intendimento del fenomeni naturali. Anche se «il mondo vicino a noi è denso di oggetti», «la nostra stima intuitiva della loro distanza dipende soprattutto dalla loro grandezza apparente e dalle loro interrelazioni visuali». Per questo «è molto più difficile stimare la distanza di un oggetto non familiare che vaga nella solitudine di un cielo blu e sereno». Senza leggi di prospettiva fisico-fisiologiche e allo stesso tempo rappresentazioni «mentali», mal potremmo capire che la luna è più grande di una mongolfiera.
Ci possiamo addentrare con la mente a misurare la dismisura, in un viaggio siderale verso l'infinitamente piccolo. Lasciamo i nostri occhi, che sanno scorgere una pulce (un millimetro), e il microscopio ottico, che arriva a farci vedere i microbi (un millesimo di millimetro); vediamo «in nanometri» (milionesimi di millimetro) con il microscopio elettronico, gli spazi tra atomi nei composti organici. Viaggiamo in un'atmosfera vagamente kubricklana, tra i mille milioni di molecole che contiene una goccia d'acqua. Ci proviamo a muovere i psicosecondi (milionesimi di milionesimo di secondo). Ma come gestire questi tempi e questi spazi, «superare questa difficoltà, cosi connaturata alla condizione umana»? «Dobbiamo calcolare e ricalcolare, anche se solo in modo approssimativo, per controllare e ricontrollare le impressioni iniziali; finché lentamente, col tempo, con applicazione costante, il mondo reale, il mondo dell'immensamente piccolo dell'immensamente grande non diviene familiare».


“la talpa libri – il manifesto”, ritaglio senza data, ma 1983

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