13.8.16

Pasolini poeta. Un senso rigenerante e amarissimo del tempo (Federico De Melis)

Sorprende, delle riconsiderazioni che si son fatte della lirica pasoliniana in occasione dell’uscita di Bestemmia (la raccolta dell'opera poetica, Garzanti, 1994), l’esigenza di circoscrivere, definire, il concetto di poesia. Che cos’è la poesia? è la domanda sottesa o esplicita negli articoli di Giovanni Raboni, Franco Loi e chi altri. Fissati i paletti, si può procedere a indicare se e quanto possa considerarsi poeta Pasolini. V’è, in questa urgenza, la nostalgia di uno statuto, che infatti l’opera poetica di Pasolini, al contrario degli «esercizi stilistici» della neo-avanguardia, mette in crisi alla radice.
Non è un caso, credo, che quasi tutte le recensioni a Bestemmia abbiano glissato sulla prefazione di Giovanni Giudici: infatti nella sua asciuttezza essa individua punti-chiave della poesia pasoliniana, tutti implicati nel problema epocale della dissipazione del linguaggio poetico e della sua impossibile ricodificazione. Poco importa, da questo punto di vista, che si consideri più o meno «riuscita» l'infrazione pasoliniana: è un ordine del ragionamento che fa parte di quel modo statutario e formulare, cioè consolatorio, di intendere la poesia, che Pasolini si sentì appunto costretto a distruggere.
Da questo ordine si può discettare sul concetto di «classico», su cui sempre Pasolini, col suo operare poetico, ha detto una parola definitiva. Egli avrebbe disdegnato l'idea di diventare «classico», non per paura della mummificazione, ma perché si sarebbe sentito totalmente incompreso nella sua «modernità»: vale a dire nell’idea, mostrata esistenzialmente quando non propugnata, secondo cui la storia aveva passato l’ultimo cerchio di fuoco, oltre il quale doveva considerarsi bruciata ogni riserva di memoria. In questo Dopostoria nessuna «classicità» si sarebbe potuta ristabilire, se non in forma parodistica.
Dall’immersione nuova nella poesia pasoliniana di cui si fa esperienza leggendo Bestemmia, che per la cura seria e amorevole di Graziella Chiarcossi e Walter Siti la raccoglie integralmente (per la parte edita) e in molti campioni significativi (per quella inedita), s’esce con un senso rigenerante e insieme amarissimo del tempo: questo per negazione, perché di continuo, dall’inizio alla fine, protagonista è l’ossessione della circolarità stagionale, del tempo che ritorna e dunque non si dà come conquista illuminista e progressista. La poesia più alta è quella in cui questo sentimento si traduce più direttamente in immagini, e queste immagini contendono la pagina a quel «ricordo mormorato» che è la storia. Qui è il grande manierista di Poesia in forma di rosa, di «Israele» o de «L’alba meridionale», avvinto infatti in questa sua stagione (1961-64) dalla lascivia e dal rovello figurativi di Pontormo e del Rosso. L’infrazione linguistica a cui Pasolini si sente obbligato dal riconoscimento di un impossibile «ritorno all’ordine» lo affaccia sul vuoto metrico, e dalla tensione che ne deriva non può che sortire esplosione immaginaria. In questo ribollire atomico affiorano a tratti, come brandelli umani, i ricordi: che son le tracce, o meglio le citazioni di una storia sognata, mitizzata, da cui non poca luce s’è riflessa, come in un processo divinatorio, sulla storia reale. Ricordi dell’elegia friulana o appenninica, proiettata sulla Roma delle borgate, sono sommersi dal mare di nuove laide urgenze. Se tutto appare ancora integro, come Argo dinanzi a Pilade, che vuole liberarla dal passato con la ragione democratica e progressiva, tutto è in realtà corrotto: col suo occhio «di pesce», magico, simile a quello della sua Medea, Pasolini penetra nella corruzione, attraverso le porte finte della storia.
È in Poesia in forma di rosa che per la prima volta con chiarezza si delinea il motivo di Petrolio: l’idea di una fuoriuscita dalla letteratura verso un’esistenza corporea e palpitante, priva dell’esperienza temporale, riflesso di un turbamento antropologico senza precedenti, che è pur sempre un libro. Sarà un «delirio» enciclopedico, come l’ha definito acutamente Fortini, a sottoporre la storia al «giudizio finale», da cui non ci si può aspettare, tuttavia, remissione alcuna. E di «volontà» enciclopedica scrive giusto Giudici a proposito dell’opera poetica di Pasolini laddove la si intenda, come si deve, quale intero. Ma se il «delirio» di Fortini è «piccolo-borghese», la «volontà» di Giudici è «dantesca»: però questa è una distinzione che nell’oltranza pasoliniana non si comprende.


“la talpa libri – il manifesto”, 10 febbraio 1994

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