4.8.16

La morte di Pasolini. I comunisti e il poeta (Bruno Schacherl)

Le domande che lascia aperte
Una morte così perfettamente iscritta in un discorso sembra essa stessa essere parola, segno di una verità ostinatamente, freneticamente perseguita. Tanto più dopo che le cronache della radio, della televisione, dei giornali, i ragionamenti — forse mai così sinceri e spietati e dolenti — di tutto ciò che conta e si muove nella cultura italiana, non si sono limitati a darci il ritratto umano e culturale di Pier Paolo Pasolini, a ripercorrere la sua presenza inquieta nella lotta politica e ideale in oltre vent'anni della nostra storia, ma hanno tentato di continuare quel discorso così dolorosamente interrotto, che è il discorso sul nostro presente duro e così spesso tragico e sul nostro incerto, oscuro futuro. E tuttavia, tutti insieme — penso all'immenso potere della macchina dei mass-media che, a torto o a ragione, egli ha fino all'ultimo continuato a denunciare e al tempo stesso, contraddittoriamente ma non tanto, a servire e a servirsene — è come se avessero finito col contribuire alla fissazione, alla continuazione come mito o parabola moderna, di quel personaggio Pasolini così reale e così inquietante, così vero e così scomodo per tutti, che egli ha dovuto — forse assai più che voluto — costruire nel corso di tutta la sua vita, della sua ininterrotta battaglia intellettuale e pubblica, sino alla fine e al prevedibile e previsto paesaggio di miseria, di desolazione, di violenza e di pena feroce dove la morte lo ha stroncato.
Eppure questa fine atroce, emblematica degli abissi che stanno attorno e dentro le nostre stesse certezze o speranze, non chiude, non deve chiudere il cerchio. È ancora una domanda che Pasolini, nel momento in cui la sua bocca viene tappata per sempre, continua a porci con lo stesso assillo frenetico con cui ha continuato a gridarla negli ultimi mesi. Dirò di più. Sta a noi, in qualche misura, far sì che il « personaggio » non si sovrapponga a questa domanda e non la soffochi. Abbiamo e avremo sempre di più bisogno, noi comunisti, di un interlocutore scomodo e difficile qual era Pasolini: il quale ci aveva scelti come punto di riferimento e speranza — sia pure solo astratta e ipotetica — di tutta la sua battaglia politica, morale e ideale, non perché avessimo pronte le risposte, ma per quello che siamo venuti rappresentando nella storia delle classi subalterne in Italia in questo dopoguerra, forza di organizzazione e di lotta, polo di aggregazione nella generale disgregazione di valori, bisogno di una società diversa. Si potranno, si dovranno ancora discutere le motivazioni profonde, esistenziali e culturali, del suo « male di vivere »: cogliere con pietà e onestà morale e intellettuale tutta la profondità della ferita che era in lui e da cui sgorgavano — ora lo sappiamo fin troppo bene — come sangue i suoi versi, le immagini lancinanti dei suoi film, le sue disperate interrogazioni. Ma è innegabile che, nella sua « diversità », a noi in primo luogo egli si rivolgesse. E toccherà a noi ancora, oggi e domani molto di più di quanto abbiamo saputo fare ieri, rispondergli. Per questo, se tra le file di quella classe dominante che egli così accanitamente ha combattuto e che così ferocemente per vent'anni lo ha odiato, vilipeso, censurato, perseguitato, c'è oggi chi trae un sospiro di sollievo perché, passato questo momento di commozione popolare, quella voce umile, tenace e ferma comunque tacerà per sempre, noi dovremo far nostro anche il suo coraggio solitario e disperato perché essa in qualche modo risuoni ancora, e ci solleciti e ci aiuti nella nostra lotta.
Intanto, c'è la grande questione della violenza che cresce «a livello di massa» in questa società, come conseguenza della crisi politica e di valori e di quello che egli chiamava il vero e proprio «genocidio culturale ». La nostra risposta deve sapersi porre all'altezza che anche questo atroce ed emblematico episodio impone. Dobbiamo prima di tutto capire di più, organizzarci di più, collegare di più le proposte operative immediate con la grande ispirazione di fondo che è la nostra, e che si può riassumere nel compito immane della gramsciana « riforma intellettuale e morale ». Senza illusioni, ma senza rinunce. Sappiamo bene di chi è la colpa della «mutazione antropologica» (altro termine pasoliniano con cui abbiamo avuto e avremo molto da discutere); ma anche qui, non possiamo accontentarci che altri, sempre più numerosi, condividano la nostra e sua denuncia e vogliano fare qualcosa con noi per rovesciare questo corso; dobbiamo invece estendere nella pratica quotidiana, e fin nel costume, le alleanze — e l'egemonia — della classe operaia, anche — perché no? — per impedire delitti così sconvolgenti come questo e gli altri che insanguinano ogni giorno di più il paese e degradano le nostre illusorie metropoli e periferie coloniali. Sappiamo, e dovremo capire sempre meglio, come violenza «a livello di massa », delitto gratuito e criminalità organizzata, fino alle trame nere e alla strategia della tensione, facciano in definitiva parte di una stessa catena che potrebbe soffocare il paese.
Ma i problemi che abbiamo di fronte sono anche molto più gravi. Pasolini li ha vissuti e probabilmente ne è morto. Possiamo noi tacerne e fare come se non esistessero? E' tutta la problematica del «diverso», dell'«escluso», su cui egli aveva costruito una intera metafisica, a investire ormai la vita quotidiana di interi agglomerati urbani e coinvolgere comunque le coscienze di tutti. I temi della sessualità — ma anche quelli della omosessualità — vengono alla ribalta in relazione con profondi mutamenti sociali e con la traumatica crisi generale con una drammaticità che molti forse avevano sottovalutato e che è resa ancora più acuta da antiche arretratezze connesse alla storia e alla cultura di massa del nostro paese. Anche su questi temi dobbiamo saperci misurare, e soprattutto lavorare tra le masse, senza cedere alle provocazioni radicali ma anche senza dogmatismi.
Pensiamo tuttavia che la morte di Pasolini ci inviti anche ad altre riflessioni, che investono la condizione più generale dell'intellettuale. Siamo infarti convinti che il suo essere «diverso» avesse motivazioni meno facilmente riconducibili alla psicologia e alla biologia. Al fondo della sua ferita, c'era — col suo bene e col suo male — una tale disperata fame di conoscenza da segnare tutto il suo destino. Si è parlato di identificazione arte-vita, quasi di un rovescio speculare (di matrice cattolica o persino luterana) di quella che fu la più esemplare e mostruosa esperienza decadente della letteratura italiana dell'ultimo secolo, quella dannunziana. Io direi piuttosto che quel bisogno di identificazione esistenziale e fin culturale con tutto ciò che nella società che egli sentiva così profondamente sua vi fosse di emarginato, di oppresso, di «diverso» appunto, nasceva da qualcosa di ben più alto, che era disperazione ma anche immenso coraggio intellettuale e morale: ossia la coscienza della separatezza della parola — suo strumento e sua dannazione — dal vivere. E tutto ciò, nel quadro di uqa cultura che aveva accolto tutti gli strumenti più affinati e consapevoli della ricerca contemporanea, ma che da sola, questo problema non aveva saputo porsi, né viverlo nella pena quotidiana della carne e della lotta. E morirne.
È un'altra domanda che egli ci lascia. E che attende altre risposte.


Rinascita, 7 novembre 1975

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