14.8.16

Mi ricordo. Firenze 1944, l'ora della libertà (Vladimiro Settimelli)

Sì, mi commuovo sempre quando rileggo quelle lapidi dettate da Piero Calamandrei. Sono gli anni, sono gli anni, mi urla un diavoletto nell'orecchio. Certo mi commuovo anche perché molti degli ammazzati, alcuni torturati, certi compagni bravi, coraggiosi e generosi, mi sono passati vicini. Molto vicini. Li ho visti mentre uscivano per le strade di Firenze, sessanta anni fa, con il mitra in pugno o trascinando armi, manifestini, l'Unità clandestina, piccola, piccola e stampata su carta quasi trasparente. Li ho visti in piedi sulle macerie dei ponti fatti saltare in aria dai nazisti, mentre sparavano e cercavano di staccare i cavetti delle mine, di salvare l'acquedotto o di portare via feriti e moribondi... Li ho visti mentre si abbracciavano con gli altri che erano arrivati dalla montagna con i fazzoletti rossi al collo e cercavano, sotto le raffiche dei tedeschi e dei fascisti di traversare l'Arno per liberare il centro della città.
Una sola volta - non mi sono mai sognato di raccontarlo - ho avuto il cuore di leggere, negli anni '60, quel marmo murato fuori da Villa Triste, sulla via Bolognese, dove gli aguzzini della banda Carità torturavano gli antifascisti, i partigiani, gli uomini dei Gap. Ecco che cosa c'era e c'è scritto: «Non più Villa Triste/ se in queste mura/ spiriti innocenti e fraterni/ armati sol di coscienza/ in faccia a spie torturatori carnefici/vollero/ per riscattare vergogna/ per restituire dignità/ per non rivelare il compagno/ languire soffrire morire/ non tradire».
L'altra, murata di fianco a Palazzo Vecchio, mi emoziona di meno. Certo, è ormai parte integrale della pietra serena e delle grandi mura dal bugnato rugoso. Pare addirittura in quel punto da sempre. Dice: «Dall'11 agosto 1944/ non donata ma riconquistata/ a prezzo di rovine di torture di sangue/ la libertà/ sola ministra di giustizia sociale/ per insurrezione di popolo/ per vittoria degli eserciti alleati/ in questo palazzo dei padri/ più alto sulle macerie dei ponti/ ha ripreso stanza/ nei secoli».
Sì, le lapidi, quelle lapidi della mia città, per me sono uomini. Sono il sorriso strano del Baggiani, la seria riflessività del Tagliaferri, il coraggio di Potente e di Anna Maria Enriques Agnoletti. E sono il fegato di Sinigaglia e quel suo girare per le strade, tra fascisti e nazisti, con Fanciullacci, per colpire al momento giusto. E sono ancora quel comandare ed obbedire di Elio Chianesi che tutti chiamavano «il babbo». Già, nella mia cantina, con la grande parete murata, le sue due figlie e la moglie, vennero a nascondersi dopo la morte di lui, massacrato dai fascisti. E passarono mesi, là sotto, insieme a Marcella Millul, la ragazzina ebrea che avevamo accolto in casa, dopo che i suoi genitori erano finiti in un campo di sterminio.
Attenzione. Attenzione a credere che i ragazzini e le ragazzine di dieci e undici anni, non abbiano memoria o non si accorgano di niente. Non è vero. Io ho visto tutto e ricordo tutto.
Certo, quando c'è la guerra, si cresce in fretta, molto in fretta. C'era la paura delle bombe, i morti, la fame, e il tentare di aggrapparsi alla vita in ogni modo e con qualunque mezzo. Ricordo che, all'ora di pranzo, capitava spesso che noi ragazzini ci aiutassimo, l'un l'altro, a salire sopra agli alberi del viale Donato Giannotti. Era solo per cogliere certe palline nere che poi mangiavamo a chili, anche convinti di essere fortunati.
Insomma, io che non ricordo che cosa ho fatto ieri, nella mente e nel cuore ho tutto e tutti di quei giorni. A volte, è come se guardassi brandelli di qualche vecchio film in bianco e nero. Sono brandelli che, spesso, si sovrappongono e sovrappongono ore, giorni e momenti diversi. Poi arrivano altre facce, parole, personaggi, piccole azioni come il mettere manifestini antifascisti nelle cassette delle lettere. Tutti arrivano o vanno via. Oppure vengono sostituiti da immagini del passeggiare con mio padre Donato e mamma Rina, con certe forbicine in mano per fermarsi, ogni tanto, e tagliare, con un colpo secco, i cavi telefonici dei comandi tedeschi e fascisti.
La nostra era una famiglia «rossa» e antifascista da sempre. Mio padre era stato condannato a sedici anni di galera perché comunista e, dunque, non poteva lavorare durante il fascismo. E allora si dedicava a qualche lavoro di manovalanza fatto «in nero», come si dice oggi e alle lunghe chiacchierate con i suoi due figli. Spiegava che cosa era il fascismo, perché avevamo preso in casa una ragazzina ebrea, perché era finito in carcere e perché era necessario combattere per la libertà e non mettersi da parte.
Sì, lo so, oggi può sembrare tutto retorico, populista o demagogico. Ma non mi importa un bel niente. Racconterò ugualmente quel che facemmo e quel che vidi fare anche nei giorni in cui la nostra Firenze tornò libera.
A volte, quegli spezzoni di film in bianco e nero che ricordano quei giorni di sessanta anni fa, tragici, terribili, ma anche pieni dei gioia, sono persino accompagnati da una specie di sottofondo sonoro con parole che tutti conosciamo: «Fischia il vento, urla la bufera...». O da «Bella ciao, ciao...». Poi c'era l'altra canzone che non ricordo più ma che diceva qualcosa come «... Sventolerai lassù, sulle macerie di un mondo che fu... ». E il mondo che fu erano, ovviamente, il fascismo, l'occupazione nazista, le persecuzioni, le fucilazioni, i massacri, la guerra, i bombardamenti.
Quel 1944, fu davvero terribile per Firenze. Il 10 giugno, venne sospesa l'erogazione del gas, il 14, i giornali, spiegarono che era necessario fare provviste di acqua. Qualche macelleria, vendeva ancora frattaglie a prezzo calmierato, per non più di cento grammi al mese e c'erano file immense di fiorentini affamati e disperati. Sotto i bombardamenti alleati, intanto, era già crollato il Teatro Comunale ed erano stati colpiti i nodi ferroviari e tante case. Molti che ne avevano avuto la possibilità, avevano lasciato tutto sfollando in campagna. In ogni angolo, le autorità fasciste avevano affisso manifesti con l'offerta di soldi e di sale, per ogni antifascista, ebreo o partigiano consegnato.
Gli uomini di Salò, in città, erano Giotto Dainelli, Raffaele Manganiello, il torturatore Mario Carità con la sua banda. Loro facevano il bello e il cattivo tempo. Arrestavano, deportavano, uccidevano. Poi c'era Gentile, il più autorevole e rappresentativo personaggio del fascismo «repubblichino». È noto: sarà ucciso dai gappisti.
Anche i gruppi antifascisti in città sono, comunque, ogni giorno più attivi. Ci sono già i coraggiosi gappisti che operano su mandato del Comitato toscano di liberazione nazionale che raccoglie tutti i partiti e uomini che tutti conoscono e stimano. Sui colli e sui monti che circondano Firenze, già si sono radunati coraggiosissime partigiani raccolti in «bande». Ce ne sono a Monte Morello, in Roveta, sul Monte Giovi, sul Pratomagno e a Secchieta. Sono giovanissimi antifascisti, ex soldati e ufficiali, ex prigionieri inglesi, francesi, americani, polacchi e persino russi. Si è formata la divisione «Arno» che ha riunito le brigate garibaldine «Lanciotto», «Sinigaglia», «Caiani» e «Fanciullacci». Poi ci sono le brigate socialiste, quelle di «Giustizia e Libertà», della Dc e del Partito d'Azione.
Intanto, in centro e in periferia, nazisti e fascisti continuano a rastrellare, arrestare e torturare. Scoprono gli uomini di «radio Cora» che sono in contatto con gli alleati. Sterminano tutti. Così muoiono il professor Enrico Bocci, il fisico Carlo Ballario, l'ingegner Luigi Morandi, il capitano pilota Italo Piccagli ed Enrico Bocci. I gappisti, nel frattempo, hanno colpito e ucciso il colonnello Gino Gobbi, Giovanni Gentile, appunto, e altri gerarchi. Hanno anche liberato dal carcere diciassette donne e Bruno Fanciullacci, uno dei loro comandanti. Fanciullacci, verrà di nuovo arrestato e torturato. Riuscirà a gettarsi da una finestra di «Villa Triste» e morire. I fascisti, durante una retata, la sera del 17 luglio, sparano sulla folla e uccidono cinque persone tra le quali un vecchio ed un bambino. È, ormai, una resa dei conti terribile.
n una giornata di orrore, fascisti e nazisti, al Campo di Marte, avevano anche fucilato cinque ragazzi che non si erano presentati alla chiamata di leva. Sul posto, per vedere la strage, e «ammonire» erano stati fatti arrivare altri soldati e la popolazione. Il Comitato di liberazione, con fascisti e tedeschi ancora in città, ora lancia persino il «Prestito della libertà» per finanziare le formazioni partigiane. In pochi giorni vengono raccolti dieci milioni. E in casa mia? Da noi, le cantine sono state chiuse e nascoste con un grande muro. Dietro, nello spazio vuoto, la gente del palazzo ha infilato le ricchezze di allora: materassi di lana, macchine da cucire, qualche gioiello. Ma le cantine sono diventate, soprattutto, un grande deposito di armi per le formazioni di montagna. Un paio di volte alla settimana, io vengo vestito di tutto punto. Sotto la cintura dei pantaloni e nelle mutande mi vengono cuciti messaggi e ordini di vario genere. Parto, supero sempre tre o quattro posti di blocco nazisti (ai ragazzini nessuno fa caso) e finisco in una casa verso le colline di Bagno a Ripoli. Qui mi spogliano (che vergogna rimanere mezzo nudo in una famiglia estranea) si prendono i messaggi e io posso tornare a casa.
Gino Baggiani, imbianchino, con il suo triciclo e doppio fondo, porta poi, sotto bidoni di vernice, fucili e bombe a mano agli uomini in montagna. Lo ricordo come se fosse ieri. Era miope e diceva sempre, sorridendo al nulla: «Non riuscirei a vedere un negro sulla neve». Ma partiva ugualmente con il suo carico. Un giorno, guardando in strada da un buco nel portone, vedo il Baggiani che spinge sui pedali. Ad un tratto si sente un colpo di mortaio e il nostro compagno viene colpito in pieno alle spalle. È così che il suo corpo dissolversi nel nulla.
Sempre da quello spioncino, una mattina guardo con terrore una lunga colonna di rastrellati spinta dai nazisti verso Piazza Gavinana. In fondo, spunta il mio maestro delle elementari che con la sua gamba «matta», si trascina con difficoltà. Pare calmo e tranquillo. Di lui non saprò mai più nulla. Quella mattina, appoggiato allo spioncino, piango disperato.
Tra il 29 luglio e il 4 agosto, gli abitanti dei Lungarni vengono fatti sgomberare. Poi, i nazisti in ritirata, fanno saltare i cinque ponti della città. Sono esplosioni immani che svegliano e terrorizzano tutti. Da noi, finestre e porte si spalancano di colpo. I tedeschi hanno sbriciolato ,con la dinamite, anche il bellissimo Ponte a Santa Trinità, una meraviglia nel cuore di mezzo mondo. È rimasto in piedi solo il Ponte Vecchio, bloccato da montagne di macerie dai due lati perchè sono stati fatti saltare anche Por Santa Maria e Borgo S. Jacopo.
Firenze, ora, è divisa in due. Il comandante partigiano Enrico Fischer stende un filo telefonico tra le due sponde dell'Arno, attraverso il corridoio Vasariano. Poi, attraverso lo stesso corridoio, in mezzo a quadri preziosi e busti fatti a pezzi, Fischer fa traversare anche tre comandanti partigiani: Nello Niccoli, Carlo Ludovico Ragghianti e Orazio Barbieri. Ed ecco la mattina dell'11 agosto, il giorno dell'insurrezione. Alle 6,45, suona a distesa la «Martinella» di Palazzo Vecchio. Tutti aspettavano, da tempo, il rumore impressionante di quell'antico batacchio. Proprio come ai tempi delle guerre per le libertà comunali. I combattenti, i partigiani, gli antifascisti escono all'aperto. Vedo il mio babbo con il mitra in pugno che corre fuori con i suoi, lungo il viale Donato Giannotti e grida al prete della parrocchia, un vecchio amico antifascista: «Padre, lei non sparerà, lo so. Allora porti via i morti». A lato della strada sono già tanti. Poveracci, avevano cercato di traversare per prendere acqua da bere ad una fontanella, ma le mitragliatrici tedesche non avevano avuto pietà. Dal fondo del viale si sentono canti e grida. È tutto un correre. A centinaia escono, come poveri topi, dagli scantinati, dalle buche e dai rifugi antiaerei. Sono bianchi in faccia, affamati, esausti. Tutti si abbracciano, gridano e abbracciano i partigiani di Gracco (Angiolo Gracci) con il fazzoletto rosso al collo, carichi di mitragliatrici e fucili e con i nastri di proiettili a tracolla. Che emozione, che felicità. Come si fa a spiegarlo, dopo più di mezzo secolo? Gracco è alto e grosso, pieno di riccioli e sorride vagamente. Accanto a lui, il ragazzino Settimelli si sente come un «tigrotto» vicino a Sandokan.
Questi, penso per un attimo, sono i «nostri», i compagni, gli amici, i liberatori che abbiamo aspettato per mesi. Ora sono qui. È festa grande. Pochi minuti dopo, su questa gente felice, i franchi tiratori fascisti cominciano a sparare. Ci sono morti e feriti, ma ormai Gracco e i suoi, sono con noi, in Piazza Gavinana. Ormai siamo liberi, liberi per sempre. Qualcuno dice che il comandante partigiano «Potente» e cioè Aligi Barducci, è morto durante la battaglia. È vero, è vero. Lo amavano tutti perché era un ragazzo straordinario, una leggenda. Si cammina lungo l'Arno, ovunque. Si riscopre la vita in mezzo alla tragedia. Mio padre è tornato. Mia madre, la zia Valeria, Marcella Millul, la ragazza ebrea sempre in cantina e un gruppetto di anziani che non erano più usciti da casa, guardano, verso i Lungarni, le montagne di macerie, i resti dei ponti e le distruzioni. Giù, giù, fino alle Cascine. La città è ferita, offesa, umiliata, fatta a pezzi. Muti e in un silenzio, nel gruppo, piangono tutti. Senza singhiozzi. Poi, piegano la testa come per sfidare il dolore.
La mattina dopo, arrivano i soldati alleati ed è di nuovo festa. Scopro, per la prima volta in vita mia, seduto su una cassetta a due passi dalle cucine dei soldati americani, che il pane bianco esiste davvero.


L'Unità, 9 Agosto 2004

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