13.8.16

Treno (Giuseppe Culicchia)

Ho appena letto un libro non nuovissimo e per nulla pretenzioso che si intitola Sicilia, o cara ed ha come sottotitolo Un viaggio sentimentale, opera di Giuseppe Culicchia, scrittore e traduttore nato e vissuto a Torino e, se non mi sbaglio, torinista, figlio di un immigrato marsalese. Il libro racconta con leggerezza (soprattutto senza gli eccessi di erudizione che spesso gravano su libri dello stesso genere) i suoi rapporti con la Sicilia e specialmente con la città del padre. Un'appendice, come è ormai d'uso, è dedicata alle ricette di cucina che lo scrittore attribuisce al padre. Si tratta, quasi sempre, di classici della cucina marsalese e siciliana, generalmente semplificati, ma mantenendone l'essenza. Funzionano.
Dal libro riprenderò alcune pagine, comprese un paio di quelle gastronomiche, ma voglio cominciare con il primo dei viaggi da Torino alla Sicilia con il famoso “Treno del Sole”, soppresso nel 2011. L'anno in cui si colloca è il 1972 e il protagonista ha solo sette anni. (S.L.L.)
Villa San Giovanni, 1964. L'imbarco sul traghetto del direttissimo Torino-Palermo.

Il treno, venne fuori, traboccava di siciliani, uomini, donne e bambini, tutti con la pelle scurissima e i capelli neri come mio padre. A differenza di mio padre, però, non sembravano parlare piemontese e si esprimevano appunto in siciliano, quella lingua incomprensibile piena di chistu e di chiddu che mio padre usava solo quando venivano a trovarci da Torino le sue due sorellastre e per me e mia sorella zia Fortunata e zia Rosa, dette rispettivamente Nata e Sina, con il corredo di figli e nipoti ma un solo zio, Michele, ovvero il marito di Sina, perché l’altro, Totò, il marito di Nata, era morto pochi anni prima. Qualcuno aveva già tirato fuori i panini imbottiti di sugo e melanzane fritte, la pasta al forno con l’uva passa e i pinoli, le pizze fatte in casa e cosparse di origano, olive, acciughe, capperi, cipolle. Ogni famiglia aveva con sé una scorta di cibo che sarebbe bastata fino a Zanzibar o a Samarcanda, e ogni boccone era un tentativo di esorcizzare per sempre la guerra, la fame, l’immigrazione, la povertà. I bambini gridavano, mangiavano, bevevano, giocavano, correvano, piangevano, non di rado tutto nello stesso momento. Gli adulti salutavano dai finestrini chi li aveva accompagnati fino al treno, a meno che non si trattasse come nel nostro caso di un semplice facchino. Certe donne avevano perfino tirato fuori dall’incavo tra i seni un fazzoletto bianco, e lo sventolavano dopo essersi asciugate il sudore sulla fronte e sulla nuca. Altre invece avevano già estratto da una delle innumerevoli valigie e borse in pura plastica o similpelle il ventaglio che avrebbero adoperato senza sosta da quel momento in poi fino a Palermo. Io mi limitai a esplorare affascinato il nostro scompartimento, dove un inserviente delle Ferrovie dello Stato aveva già provveduto a calare le cuccette, le cuccette su cui mia madre e un’altra signora stavano sistemando i cuscini e le lenzuola di cotone su cui era stampata la sigla FFSS, e perfino le coperte, malgrado il caldo. I posti infatti erano sei, e assieme a noi quattro avrebbe viaggiato una coppia: lei vestita di nero dalla testa ai piedi come la nonna nelle fotografie dei nostri album, lui con un abito di lino bianco immacolato, anche se all’occhiello spiccava il classico bottone nero del lutto. “Io dormo lassù!” comunicai ai miei genitori quando scoprii che i nostri posti corrispondevano alle due cuccette in alto e alle due nel mezzo. Il fischio del capostazione coprì le parole di mia madre, preoccupata che potessi cadere durante la notte. Mi arrampicai su per la scaletta con il mio “Topolino” proprio mentre il convoglio cominciava a muoversi lentamente sui binari, e presi possesso della cuccetta, simile a quelle dove dormivano i marinai nei film di guerra che passavano in televisione e perciò ai miei occhi bellissima. Molto presto dal riquadro del nostro finestrino sparirono le facce degli accompagnatori, e dopo di queste anche i marciapiedi e gli edifici della stazione. Fuori ormai si stava facendo buio, e il capotreno o chi per lui aveva acceso la luce.

Dimenticavo: naturalmente viaggiavamo in seconda classe, che comunque era un bel progresso rispetto alla terza che aveva preso mio padre per il suo viaggio da Marsala a Torino nel 1946.


Da Sicilia, o cara, Feltrinelli, 2010

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