Sul finire dello scorso
millennio (in una con l'implosione dell'Urss e l'agonia del movimento
comunista) tornò di moda il Paradiso. Non mi pare del tutto fallace
l'impressione che ebbi allora, e cioè che l'interesse per un
Paradiso nell'aldilà facesse da pendant al tramonto dell'illusione
che si potesse costruire in terra una sorta di paradiso.
Quest'articolo
divulgativo, da un settimanale per un pubblico mediamente colto,
cerca di andare un po' più a fondo nella questione. È opera di uno
studioso di letteratura e antropologia di valore, capace di una
divulgazione efficace. Così almeno mi pare. (S.L.L.)
Hans Memling - Trittico di Danzica Pannello destro, Porte del Paradiso |
Se vi domandano
all’improvviso: «Ma il paradiso dove si trova esattamente?»
quanti di voi sapranno dare una risposta precisa? Molti saranno
imbarazzati, qualcuno sorriderà: tutti penseranno che è una domanda
fuori luogo. Infatti che cosa ce di più remoto ed astratto per noi
che il concetto stesso di paradiso? Eppure dietro l’apparente
scetticismo di tutti si nasconde una selva oscura di sentimenti,
contraddittori e confusi, che non lasciamo affiorare. È il minimo
che si possa dire considerando il successo di pubblicazioni che hanno
per oggetto l’aldilà, soprattutto nella sua dimensione
paradisiaca.
L’ultima è una
Inchiesta sul Paradiso, curata da Paola Giovetti, nota al
pubblico per aver condotto la discussa trasmissione televisiva Mister
O, dedicata ai fenomeni peranormali. Il libro raccoglie una serie
di interviste a intellettuali, politici, scienziati, su un tema che
sembra degno degli hippies e della cultura degli anni Sessanta: il
paradiso oggi, «paradise now». L’aspetto più curioso è che
tutti gli intervistati non solo hanno risposto, ma si sono dilungati
con molti particolari, come se in vita loro non avessero aspettato
altro che un'occasione simile per aprire il loro cuore.
Il rabbino capo di Roma
Elio Toaff e lo psicanalista Emilio Servadio, l’arabista Francesco
Gabrieli e l’attrice Paola Borboni, lo scrittore Alberto Bevilacqua
e il musicista Roman Vlad - insomma un miscuglio non certo omogeneo
di credenti e miscredenti, stinchi di santo e libertini - sono tutti
d’accordo su un punto: parlare del paradiso è la cosa più bella
che ci sia.
C’era da aspettarselo?
Forse sì. Paola Giovetti non è nuova a queste imprese. La sua
trasmissione sul paranormale, Mister O, ha scatenato ogni sorta di
reazione: dai balzi vertiginosi degli indici d’ascolto ai balzi
furiosi degli scienziati sulla sedia. In ogni caso emozioni. Mai
indifferenza.
Una giornalista abile e
spregiudicata che sa come si tiene in pugno il pubblico? Non si
direbbe. A incontrarla per strada Paola Giovetti ha un’aria seria,
un po’ spenta: per niente grintosa. E allora? Allora è evidente
che le reazioni nascono dal contenuto delle domande, non
dall’intervistatore. E del resto, basta entrare in libreria, basta
sfogliare le riviste più recenti per capire che l’interesse per
l'aldilà non è una moda, ma una vera e propria ossessione culturale
degli ultimi anni, che non si placa ed anzi cresce col tempo. È nata
perfino “Abstracta”, una rivista di divulgazione raffinata, sul
modello di Fmr, dedicata all’arcano e ai rapporti con l’aldilà,
a cui collaborano storici come Franco Cardini, scrittori come
Stanislao Nievo, teologi come Corrado Balducci. Le fanno eco le
riviste specialistiche: sull’ultimo numero di “Quaderni
Medievali”, l’estrosa ed originale pubblicazione diretta da
Giosuè Musca, è apparso un brillante saggio di Margherita Lecco,
sulle rappresentazioni medievali dell’aldilà.
Il saggio di Margherita
Lecco non è che l’ultimo esempio di questo genere di interventi,
se andiamo indietro negli ultimi due o tre anni troviamo una sfilza
di storici, semiotici, filosofi di grido che si sono occupati di
questi temi. Medievalisti come Jacques Le Goff, che ha studiato la
nascita del mito del purgatorio in un’opera classica, già esaurita
(La nascita del purgatorio, Einaudi) semiologi come Cesare
Segre che ha analizzato le strutture mentali delle rappresentazioni
dell’aldilà (La nascita dell’altro mondo, in “Autografo”, n°
1); studiosi di religioni e lingue orientali come Ugo Marazzi, autore
di un magnifico volume sugli sciamani, gli stregoni che parlano con i
morti (Testi dello sciamassimo, Utet); antropologi come Luigi
Lombardi Satriani, il cui volume Il ponte di San Giacomo
(Rizzoli) sulle rappresentazioni popolari dell’aldilà ha vinto nel
1983 il premio Viareggio. L’ultimo della serie è uno studio,
uscito in questi giorni, di Jean Couliano, che affronta il problema
dell’aldilà nell’aldiquà, ovvero l’esperienza del paradiso in
terra nei mistici di ogni razza e paese (Esperienze dell’estasi
dall’Ellenismo al Medioevo, Laterza).
Perché tanto interesse?
Non si può rispondere alla domanda senza chiedersi prima: perché
tanto interesse proprio per il paradiso? E cioè: perché il paradiso
sì e l’inferno no? E infatti innegabile che tutti i libri, gli
articoli, le interviste su questo argomento parlano quasi
esclusivamente del paradiso, al massimo del purgatorio, ma non certo
dell’inferno, un luogo che, a detta di un cattolico ultraortodosso
come Roberto Formigoni, esiste, ma «non è detto che dentro ci sia
qualcuno o che ci finirà qualcuno» (Inchiesta sul paradiso).
Dunque, perché solo il
paradiso?
Per capire questa
complessa e contorta «fede senza fede» in un aldilà positivo più
dell’aldiquà, occorre fare un salto indietro nel tempo, fino alle
origini della cultura occidentale. Essa ha infatti un carattere
particolare che la differenzia dalle altre: una fiducia spiccata
nella vita e nell’uomo.
Le concezioni dell’altro
mondo riflettono chiaramente questo ottimismo antropocentrico, per
cui la vita è il bene più grande, la morte il male peggiore. A
differenza di altre religioni, per i greci e per i latini
l’oltretomba ha un carattere tristissimo ed opposto alla vita
terrena: dopo la morte tutti precipitano nella stessa angosciosa
terra di nessuno, il Regno delle Ombre. Ridotti a pallidi fantasmi,
gli uomini continuano a sopravvivere a se stessi, tristi, inutili,
rimpiangendo la vita perduta. Il loro stato d’animo è ben
esemplificato da ciò che Achille dice ad Ulisse nell'Odissea:
l’astuto eroe riesce a scendere nel Regno delle Ombre e incontra il
suo ex compagno d’armi: e questi, desolato, gli dice che
preferirebbe essere «l’ultimo degli schiavi sulla terra piuttosto
che il re dei morti». Questa concezione dolorosa dell’oltretomba
nasceva appunto dalla concezione ottimistica dell’esistenza: la
vita solare ed esuberante dei popoli del Mediterraneo era sentita
come il massimo dei valori; dopo non c’era che nostalgia e
turbamento.
Le cose cambiano in epoca
ellenistica. Dopo la morte di Alessandro Magno (323 avanti Cristo) si
formano i vasti imperi che annullano ogni ambizione politica ed ogni
libertà individuale. I cittadini delle popolose ed esuberanti
città-stato divengono sudditi di questo o quel monarca, senza più
prospettive democratiche. Si potrebbe dire che la loro vita terrena
assomiglia ormai alla loro vita ultraterrena: privi di stimoli, di
iniziativa, di possibilità di miglioramento, possono solo obbedire,
chinare il capo e sopravvivere. Ed ecco allora che fioriscono
dovunque nuovi culti, nuove concezioni dell’aldilà, che riflettono
le speranze di tutti in un mondo migliore. Culti misteriosi che si
richiamano a Orfeo, a Pitagora, agli Oracoli dei Caldei, promettono
la salvezza. Il motivo comune a tutti questi culti è che l’uomo è
prigioniero della materia, schiavo del corpo e della vita terrena. Se
riesce a liberarsi, con tecniche appropriate, ritroverà la sua vera
natura: egli è un essere divino.
Queste concezioni,
alimentate e approfondite dai filosofi neoplatonici, portano a un
radicale cambiamento della visione dell’aldilà. Dopo la morte vi
possono essere due possibili destini: o si ritorna alla divinità
perché ci si è liberati dal peso delle costrizioni; o si rimane
ancora prigionieri del carcere terreno e ci si deve purificare con
una lunga serie di tormenti e, secondo alcuni, addirittura con la
reincarnazione in una nuova esistenza. La vita diviene così sempre
più un peso: la vera vita è quella di chi si libera da questo peso
e ridiviene simile al Dio che l’ha creato. Allo stesso modo per gli
induisti, l’anima si dissolve nello Spirito divino, il Brahman.
Il passaggio successivo
fu, naturalmente, il cristianesimo. Nel pensiero cristiano ritroviamo
molti elementi della cultura orfico-pitagorica: l’anima si deve
liberare dalla catena della carne, per riconquistare il paradiso
perduto. Ma la differenza, la novità del cristianesimo fu proprio
nel concetto di «paradiso perduto». Infatti, secondo il racconto
della Bibbia, l’uomo ha perduto il paradiso per una colpa, oscura
ma terribile, all’origine. Dunque non è solo un prigioniero del
corpo: è un prigioniero che sconta un reato, un crimine che è stato
commesso una volta da Adamo, ma che si ripete ogni volta che i suoi
discendenti violano le leggi di Dio.
La novità consisteva nel
concetto di redenzione e di merito che l'idea di colpa introduceva.
Per la prima volta nella storia della cultura occidentale l’uomo
poteva scegliersi l’aldilà che voleva. Non era più una vittima
della morte che lo riduceva a un’ombra; neppure era vittima di un
destino che lo incatenava al corpo. Era vittima solo delle sue
passioni, della sua superbia: in una parola di se stesso.
Cominciarono a
diffondersi, così, visioni a forti tinte della vita ultraterrena,
che sottolineavano il diverso destino del giusto e del peccatore.
Severi moralisti come Tertulliano si abbandonano a descrizioni del
giudizio divino degne del marchese de Sade: lo spettacolo dei
cattivi, dei potenti, dei peccatori fatti a pezzi, squartati,
bruciati, torturati per l'eternità è un grande sollievo per chi
soffre le pene dell’esistenza.
In ambienti ereticali
simili visioni furono ancora più furenti: nell’altro mondo si
realizza ciò che in questo mondo è vietato. Ed ecco allora le
Apocalissi degli gnostici, con terrificanti immagini di
punizione; ecco le condanne senza appello dei manichei per chi non è
«eletto», salvato direttamente da Dio da una vita che non può che
essere peccaminosa.
L’armamentario delle
punizioni ripesca vecchi motivi del folklore, insieme a nuove
fantasie: il fuoco, tormento tipico e tradizionale di molte
religioni, si mescola a spezzettamenti e torture spesso legate
all’orfismo (Orfeo fu fatto a pezzi dalle Baccanti).
E il paradiso. Quanto più
truce, feroce, bestiale è l’inferno, tanto più ineffabile, aereo,
luminoso è il paradiso. Il cristianesimo sviluppa all’estremo le
suggestioni neoplatoniche: libero dalla materia, dal corpo e
soprattutto dalla colpa e dall’angoscia, chi è in paradiso è
felice in modo indicibile; è una specie di ubriaco lucido che vola
nell’aria. Una concezione che ricorda quella del volo estatico
dello sciamano nelle religioni primitive.
Le due realtà opposte si
fronteggiarono per secoli durante il Medioevo: l’invenzione del
purgatorio, come ha mostrato Le Goff, è un fenomeno tardo, nato per
attenuare l’urto tra due destini così radicalmente opposti. Il
purgatorio accoglie i borghesi, i piccoli peccatori, le puttane, i
truffatori che pullulano nelle città, nei comuni che si stanno
liberando del Medioevo. Costoro non sono sufficientemente cattivi per
essere dannati, ma neanche sono anime candide e meritano una qualche
punizione. Nasce così l’idea di un tormento a tempo determinato:
pene simili a quelle dell’inferno (fuoco; fatica; dolore) ma meno
violente e soprattutto solo temporanee.
Non si trattava però di
una vera innovazione: come abbiamo visto già nella filosofia
neoplatonica si ammettevano delle pene di espiazione temporanee: ed
Origene, grande teologo del III secolo dopo Cristo, aveva proclamato
che l’inferno non poteva durare per sempre, provocando le ire della
Chiesa.
In ogni caso, nuova o
meno, l’idea del purgatorio piacque: e l’immagine dell’aldilà,
consacrata da Dante Alighieri, si cristallizzò definitivamente. Tre
Regni, uno della dannazione senza rimedio, uno della sofferenza
redentrice, uno della letizia. Inferno, purgatorio e paradiso.
È a questo punto, quando
tutto è chiaro e ordinato, che comincia tutta un’altra storia che
arriva fino a noi.
L’uomo si disinteressò
sempre più di ciò che accadeva dopo la morte, in quella mirabile
tripartizione che era stata così maniacalmente preparata: e cominciò
a interessarsi sempre più ossessivamente a ciò che accade prima di
morire. E alla morte in sé e per sé. La storia della cultura
moderna è la cronaca di una partita a scacchi giocata tra l’uomo e
la morte.
All’inizio con la
riscoperta dell’antichità e dei suoi valori, nel Rinascimento,
l’uomo sente di nuovo, come i greci, che la vita è il valore
supremo: e teme la morte, rappresentandone gli aspetti più
terrificanti.
Nascono allora le Artes
Moriendi, arti del ben morire, trattati ascetici che dovrebbero
insegnare ad accettare la morte e che di fatto contribuiscono solo ad
aumentare l’orrore nei suoi confronti. Così come tutti i quadri e
le sacre rappresentazioni, i Trionfi della morte e le Danze macabre,
che hanno per soggetto la dissoluzione del corpo.
Col tempo, l’uomo
finisce per dimenticare la morte e l’aldilà, vivendo come se il
problema non lo riguardasse. È questo il meccanismo di rimozione
della morte e dell’oltretomba
dalla vita quotidiana, il
fenomeno studiato tanto approfonditamente dal tanatologo Philip
Ariès. In pratica, dal Settecento ad oggi, la società si è difesa
dal pensiero della morte evitando di parlarne e creando istituzioni
specializzate che si occupano della cosa solo quando è necessario,
come gli ospedali e i cimiteri fuori della città.
La cultura occidentale è
così tornata alle origini: come i greci, anche noi pensiamo che
l’aldilà sia un luogo angoscioso, dove ci si trascina in un’agonia
perenne. Oppure, se siamo atei, come la maggioranza dei pensatori
moderni, dopo la morte c’è il nulla.
In questo modo
l’Occidente ha rifiutato tutte le speculazioni dei secoli
precedenti sull’aldilà: al contrario dei musulmani, che credono in
un paradiso molto concreto, in cui ci sono belle donne e
divertimenti, e in un inferno con ghignanti diavoli che versano pece
fusa sui dannati, gli europei hanno relegato questo genere di
rappresentazioni in soffitta. Credere a simili immagini è puerile,
infantile, grossolano. Più «virile», invece, credere solo a ciò
che si vede: alla vita terrena, non all’ultraterrena.
Eppure questo meccanismo
non funziona del tutto: non è un caso se il positivismo, cioè la
fede assoluta nella ragione e nella scienza, sia nato alla fine
dell’Ottocento negli stessi anni in cui è nato lo spiritismo, cioè
la fede nella presenza dei morti tra noi. Razionalismo e terrori
irrazionali sono due facce della stessa medaglia: la morte cacciata
dalla porta rientra dalla finestra. Lo dimostrano casi famosi di
illustri personaggi dell’Ottocento, positivisti e scettici di
giorno, angosciati cultori di spiritismo di notte, come lo studioso
Achille Ardigò. Da allora ad oggi le cose non sono cambiate. La
società opulenta evita di parlare dell’aldilà: ma i suoi membri,
privatamente, non parlano d’altro.
E torniamo così alla
questione iniziale: perché il paradiso e non l’inferno? Visto che
si parla dell’aldilà solo nell’intimità, ma non pubblicamente,
è naturale che ciascuno pensi solo al proprio destino dopo la morte.
Nessuno ha il coraggio di
confessarlo: ma di fatto tutti pensiamo di andare in paradiso, o al
massimo in purgatorio. Ed anche se l’immagine di questi regni
d’oltretomba è sbiadita e fuori moda, anche se il fuoco e i
diavoli fanno sorridere l’uomo d’oggi, nessuno è disposto ad
accettare di dover pagare un conto troppo salato alla fine del
viaggio. Così, ufficialmente, l’altro mondo non esiste; ma se si
accetta che esista in qualche modo, allora non può che essere un
mondo migliore di questo. Un paradiso dunque. Chissà se tutto questo
non significa, indirettamente, che la vita terrena di oggi, di cui
andiamo talmente fieri da dimenticare perfino la morte, non sia in
fondo un inferno.
EUROPEO/15 MARZO 1986
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