Ritrovare in una busta di
ritagli religiosi la recensione che segue, di quasi 40 anni fa,
riflettere sulle oramai dimenticate provocazioni del recensore mi ha
fatto venire la voglia di leggere le opere scrittore cattolico
di cui si ragiona, questo Reinhold Schneider, e non solo il testo qui
recensito su Celestino V e sul cardinale Caetani, futuro Bonifacio
VIII, ma ancor più il dramma su san Francesco e papa Innocenzo, reso
interessante dal peculiare “francescanesimo” dell'attuale papa
gesuita. Proverò a procurarmelo. (S.L.L.)
Arnolfo di Cambio, Bonifacio VIII |
Oggi di Reinhold
Schneider si parla poco, o non se ne parla più. Non dico in Italia,
ma nella sua stessa Germania. Morì nel 1958, a cinquantacinque anni.
Era un cattolico della statura e dellospirito degli Urs von
Balthasar, dei Romano Guardini, dei Karl Rahner. Anche lui, teologo e
filosofo, critico letterario; ma, a differenza di costoro, proteso
alla creatività poetica, soprattutto sui versanti della narrativa e
del teatro. Nell'Italia molto democristiana dei suoi ultimi anni,
Schneider era spesso invitato per presentazioni e conferenze.
Talvolta lo si vide tra noi, con la sua faccia triste e intensa, il
naso lievemente pulcinellesco, una maschera che ricordava quella
dell’attore Salvo Randone. Poi ci fu molta buriana, qui da noi e in
Germania, Schneider se ne andò e sul suo nome calò il silenzio.
Che cosa è un
cattolico
Peccato. Bisogna dir
grazie all’editrice Città Armoniosa che dopo aver pubblicato di
lui gli aforismi e i pensieri intitolati Parole dal profondo,
ora ha avuto l’ottima idea di riproporre uno dei suoi due drammi
maggiori (l'altro s'intitola Innocenzo e Francesco): Il
gran rifiuto (pagg. 364, lire 15.000), nella traduzione assai
corretta di Luigi Porsi. Dico peccato, perché la lettura di un
simile testo teatrale — ma è anche un saggio, un romanzo
squadernato in scene — a parte il suo valore assoluto, che per noi
permane alto, può rivestire una notevole utilità.
Per i cattolici, forse?
No, i cattolici, se informati e documentati, queste cose le hanno
succhiate col latte, e magari oggi hanno trovato ragioni più o meno
valide per dimenticarle, per «superarle». Se sono cattolici
estranei alla problematica culturale, non leggerebbero, o
metterebbero subito da parte Reinhold Schneider, come tantissime
altre cose. E magari per snobismo, oggi si farebbero un punto d’onore
di leggere Charles Bukowski. L’utilità di leggere un testo come
questo la ravviso soprattutto o quasi esclusivamente per i laici.
I laici, oggi, sono molto
coccolati. Non solo da loro stessi — con la segreta implicazione
che chi non è laico, ossia areligioso, non sia praticamente da
prendere sul serio — ma persino dai credenti, anzi in modo
particolare da questi ultimi. Credente io stesso, parlo per
esperienza personale. Non so perché, ma sento una certa
responsabilità — più o meno come il laico Beniamino Placido —
per ogni gaffe, distrazione, ingiustizia, faziosità commessa dai
laici. Se le stesse cose vengono commesse dai miei compagni di fede
nel soprannaturale, provo solo rabbia. Ora, la responsabilità è
cosa ben più seria e profonda, intima e affettuosa della rabbia. Il
laico, anche noi credenti lo vorremmo mandare in giro tirato a
lucido, impeccabile e bello come uno sposo. Se la sua cravatta stona
o il bavero ha una macchia di unto il cuore ci dà una fitta.
Una cosa che vorrei
regalare ai miei amici laici è una comprensione rispettosa e
penetrante di che cosa sia un cattolico. Un cattolico può essere
anche un ministro ladro o un prelato furbesco, una pinzochera
spietata o un professore trombone. Ma, credetemi, qualche volta un
cattolico è anche qualcos’altro. E se un cattolico — o, diciamo
meglio, un credente — «funziona», va studiato con cura, perché
ha alcune cose strane da offrire, che per lo meno dovrebbero attirare
la curiosità dell’entomologo. Dopo, magari, si potranno anche
rifiutare tutte le peculiarità e le «ubbie» dell’homo
religiosus: ma prima vorrei tanto che si capisse di che cosa si
tratta.
Reinhold Schneider, pur
tenendo conto degli anni in cui scrisse (suppergiù dal 1930 al
1958), è un modello di tutto rispetto, in cui un cattolico non
troppo «extravagante» può riconoscersi. Si vocifera ad esempio,
tra i laici, che il credente di tipo «romano» sia portato al
trionfalismo, magari bene mascherato. Schneider dimostra il
contrario. Ossessionato per tutta la sua vita di uomo e di scrittore
dal problema dei tragici rapporti tra fede e potere, tra spiritualità
evangelica e machiavellismo cruento della storia, in questo suo ampio
dramma sventagliato su mezza Europa presenta con finezza di tocco, ma
anche schiacciandoci sotto quintali di orrore, la bestialità dei
rapporti umani, specie là dove la barra del comando passa in mano ai
preti, ai vescovi, ai papi, ai «santi padri».
Il povero eremita
Si dice anche, dei
credenti e degli autori cosiddetti «spiritualisti» (brutta parola,
al mio orecchio), che in fondo hanno pur sempre pronta una
consolazione. Sarà vero. Chi non ce l’ha, del resto, una
consolazione: le generazioni future, o il partito che finirà per
trionfare, o la morte che tutto annienta? Ma quando Schneider vi fa
vedere che ignobile fine viene imposta al promettente papato del
povero eremita Pietro da Morrone (Celestino V, colui che «fece per
viltate il gran rifiuto», se Dante alludeva proprio a lui), credo
che parlar di consolazione sia piuttosto incongruo, una vera
«allegria di naufragi».
Si è detto anche che un
cattolico, per il tipo della sua fede, è incapace di vera tragedia,
perché ogni conflitto ai suoi occhi è già risolto in seno a Dio.
Già, se fossimo angeli in terra, o uomini di pura contemplazione, o
defunti già in gloria. Ma siamo esseri di carne e di incertezza, di
dubbio e di paura. E la tragedia, per chi crede che ogni nostra
decisione ha una portata eterna, si vorrà ammettere che sia ben più
lancinante che per chi vede assai più circoscritta la sfera delle
nostre azioni.
Il ritratto di papa
Bonifacio VHI, il nemico di Dante e di Jacopone da Todi, ci fa capire
fino a che punto di straziante dilemma possa apparire una creatura
umana, per di più «consacrata», agli occhi di un credente. Com’è
facile parlare di Hitler e di Stalin nel mondo d’oggi, privo di
trascendenza! Belle condanne rotonde, globali, magari spersonalizzate
per addossare quasi tutta la responsabilità a una classe sociale o a
una degenerazione di partito. Ma il Bonifacio VIII di Schneider ha
molte sfaccettature in più: ora è un pazzo criminale da mettere ai
ferri, ora un’anima disperata che vorrebbe credere ed essere santa,
ora un despota asiatico scivolato nell’Italia del Medioevo, ora un
povero infelice che andrebbe amato e capito. La disperazione, in
Schneider e in ogni credente di alta qualità ma non santo, si annida
ovunque. E infatti Schneider, negli ultimi anni, vide scendere su di
sé un tal buio filosofico che, pare (altra cosa curiosa dei
credenti: non si sa mai bene quando e se smettono di essere tali),
morì nella notte del dubbio.
Tutto questo, con una delicatezza di mano che mette commozione; poi, di colpo, con sferzate che snudano l'osso. Un gioco forsennato, forse, per chi sta a vedere senza accettarne le regole. Ma non certo un gioco laico, né sciocco, né noioso. Meno che mai un gioco messo già agli atti dalla storia. Perciò è bene studiarlo su testi autentici: come questo.
Tutto questo, con una delicatezza di mano che mette commozione; poi, di colpo, con sferzate che snudano l'osso. Un gioco forsennato, forse, per chi sta a vedere senza accettarne le regole. Ma non certo un gioco laico, né sciocco, né noioso. Meno che mai un gioco messo già agli atti dalla storia. Perciò è bene studiarlo su testi autentici: come questo.
"la Repubblica", ritaglio senza data, probabilmente 1981
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