Parigi 1871. Il Ministero delle Finanze dopo l'incendio |
Ancora un venticinque
anni fa, Parigi era la città che accumulava le stratificazioni delle
epoche senza che il vecchio fosse spodestato dal nuovo e -
soprattutto per noi che venivamo dall'Italia del miracolo economico,
così frettolosa nell'assumere in superficie gli aspetti più
futuribili e nel cancellare le umili tracce del passato - una delle
ragioni del suo fascino erano le botteghe antiquate, le insegne
stinte, le facciate lebbrose. Aspetti d'una tradizione risparmiatrice
e misoneista coesistevano coi segni dell'opulenza di capitale d'un
impero coloniale ancora non del tutto liquidato e ci permettevano di
recuperare ultimi riverberi di belle èpoque e periferie di
film di Carnè anteguerra.
Gli Anni Sessanta si
aprirono coi ravalements voluti da Malraux che restituivano il
pristino biancore alle facciate fuligginose, ed era una novità che
andava ancora nel senso della perennità del passato. Ma ormai il
boom edilizio era maturato anche a Parigi e le costruzioni nuove, i
negozi lustri, le insegne moderne infiltravano inattese prospettive
milanesi in una città che dalla guerra in poi non aveva cambiato che
minimamente la sua immagine; i grattacieli e i nuovi complessi
affacciavano Tokyo agli spalti della Senna; la severità fiscale
falcidiava il pulviscolo di bottegucce che da tempo immemorabile
perpetuava la minuta vita commerciale e artigiana di Parigi, e al
loro posto le catene di supermercati e le onnipresenti banche
estendevano le loro anonime superfici.
Un'idea moderna di Parigi
prese a profilarsi col regno di Pompidou; ne va dato merito all'uomo,
che - caso raro tra i reggitori francesi di questo secolo - aveva nel
campo delle forme visuali gusti precisi e propositi non banali; ma
non ebbe fortuna e quasi tutto gli andò storto. Ancora il grande
giocattolo di Beaubourg fu tra le realizzazioni volute da lui la più
felice, perché oggetto completamente inedito e che si ricollegava in
qualche modo all'euforia delle Esposizioni universali. Ma il buco
lasciato aperto dalla scomparsa delle Halles (la coscienza del valore
delle architetture in ferro battuto di Baltard e del crimine
irreparabile commesso fu chiara a tutti solo un momento dopo che la
distruzione fosse compiuta, e già era troppo tardi) restò una piaga
dolente nel cuore di Parigi, che l'attuale sistemazione a ipogeo
commerciale ha peggiorato anziché sanare. Poi la Dèfense,
che restò uno scostante campionario d'architettura manageriale, le
cui torri spuntando di lato all'orizzonte sciupano senza integrarvisi
la prospettiva Arco del Carrousel - obelisco della Concorde - Arc de
Triomphe, compendio dell'Ottocento restauratore.
Oggi domina un senso
d'insicurezza, perché da un lato si sa che solo le decisioni
coraggiose danno grandi risultati e dall'altro si sa che ogni
decisione potrebbe rivelarsi sbagliata a breve scadenza, e questa
insicurezza si riflette nelle discussioni che continuano attorno alla
ristrutturazione del Louvre, con la piramide trasparente dell'
architetto cino-americano Pei che sorgerà nella gran corte, e -
soprattutto - lo sventramento sotterraneo. Tutte queste cose mi
tornavano alla mente leggendo l'ultima raccolta di saggi di Giovanni
Macchia, Le rovine di Parigi (Mondadori) la cui ultima parte
(che dà il titolo al volume) è dedicata all'origine di questo
dramma, definibile sinteticamente così: il mito di Parigi come città
assoluta, sommario dell'universo - la Parigi di Hugo, di Sue, di
Balzac, poi di Baudelaire e delle acquaforti di Mèryon - nasce nello
stesso momento in cui s'affaccia un presagio di distruzione, e dietro
la multiforme ricchezza dello spettacolo urbano s'intravede un
paesaggio di deserto con rovine.
Questo è già vero nel
Settecento, quando il culto delle rovine delle capitali
dell'antichità porta ad anticipare per Parigi il destino che fu di
Babilonia, Menfi, Atene, Roma, e a proiettare sulla città vivente
panoramiche spettrali cosparse di relitti archeologici. Partendo da
visionari e ruinografi settecenteschi come Mercier, come Volney, come
l'avvenirista catastrofico Grainville (che conoscevo solo perchè
rievocato da Queneau), Macchia s'innesta sul periodo della prima
esplosione di modernità urbanistica come violenza all'immagine del
passato, cioè allo sventramento compiuto durante il Secondo Impero
per iniziativa del prefetto Haussmann (nominato barone dopo questa
impresa) che aperse i grandi viali sconvolgendo la topografia
parigina e il mondo dell'immaginazione poetica e romanzesca.
Baudelaire, con cui la
metropoli moderna diventa topos poetico dominante, è anche colui che
vede nei segni delle trasformazioni urbanistiche - palazzi in
costruzione, impalcature, come nel Cygne - l'immagine della
distruzione, della perdita del proprio mondo, dell'esilio nel
deserto: la forme d'une ville / change plus vite, hèlas, que le
coeur d' un mortel... E per sottrarre la città al divenire e
all'effimero sogna una città tutta minerale, una concrezione di
cristalli (Rêve parisien). Prima di lui Lamartine, che non
condivideva l'allergia di Baudelaire per il regno vegetale, aveva
sognato Parigi inghiottita dalle foreste e dal fango della Senna. Le
rovine di Parigi si chiude come un travolgente poema su questa
straordinaria concentrazione del potere trasfiguratore della
letteratura: tra Ottocento e Novecento la poesia francese si investe
nel perenne rifarsi di una città e insieme nell'immagine della sua
fine, e particolarmente nel dramma che ebbe come antagonisti il
razionalismo autoritario delle grandi prospettive rettilinee aperte
dal piccone haussmanniano e la nostalgia della caotica topografia
medievale e della minuta vita popolare a essa legata.
Tra i nostalgici più
accesi, troviamo proprio i rivoluzionari più barricaderi: in
politica come Blanqui e in letteratura come Zola. (E non a caso -
possiamo aggiungere - visto che ancora nel maggio 1968 le barricate
nascono come evocate dalla topografia dei vecchi quartieri, la stessa
delle rivoluzioni del 1830 e del 1848, a conferma di quanto
l'elemento mitologico e archeologico sia inseparabile dall'idea di
rivoluzione). Mentre d'altro canto l'idea di città del peccato porta
a evocare distruzioni bibliche, un angelo sterminatore in Alfred de
Vigny, così come un aereo tedesco della Prima Guerra Mondiale che
sorvola la Sodoma e Gomorra di Proust. L'aereo nemico,
l'Angelo sterminatore: il fitto tessuto che intreccia erudizione e
sottile intelligenza dei testi rende i saggi di Macchia godibili come
opere creative, quali essi effettivamente sono. Leggendoli uno per
uno, ma ancor più di seguito, si è presi dalla cadenza delle "rime"
di situazioni e di immagini che si specchiano da un autore all'altro,
da un secolo all'altro. Sto parlando d'un libro nel libro, o meglio
d'un superlibro o metalibro che traversa le varie raccolte del nostro
maggiore saggista. Perché nei volumi che egli pubblica con
regolarità biennale (l' ultimo era stato Saggi italiani,
Mondadori, 1983, che contiene uno dei suoi capolavori assoluti: Tasso
e la prigione romantica) si possono sempre distinguere filoni che
passano dall'uno all'altro. E questa suite parigina ha la sua
logica premessa ne Il mito di Parigi, breve saggio finale del
volume omonimo (Einaudi, 1965; ma il motivo era presente fin
dall'introduzione 1958 a Il paradiso della ragione), che è
anche la premessa a tutto quel che ho aggiunto di mio in quest'
articolo.
L'idea di partenza è
questa: il mito di Parigi è l'esatto contrario di quello della
"città ideale"; perché la "città ideale",
capitale della ragione e dell'ordine e della bellezza, era
Versailles, tutta geometrica e cartesiana, e Parigi rappresentava
l'antitesi, il rovescio: "un enorme organismo in movimento,
bello perchè vivo, animato nel suo divenire da una vita sotterranea,
piena d'ombre e profonda". Un altro metalibro che continua
attraverso tutti i libri di Macchia è quello dei moralisti, che
ingloba varie letterature a partire dal Cinquecento e prima: Le
rovine di Parigi (così come Il mito di Parigi) s'aprono
con un testo su Montaigne. (Come guida preliminare a questo percorso
resta fondamentale l'antologia curata da Macchia nel 1961 per
Garzanti, I moralisti classici, più volte ristampata). Nelle
Rovine il Seicento, secolo dei moralisti per eccellenza, è
meno rappresentato che negli altri libri di Macchia, ma in compenso
c'è un nutrito numero di capitoli sul Settecento, che fanno il punto
su personaggi-chiave come Lamettrie, ma anche su costellazioni di
prima grandezza come Rousseau e Voltaire (e anche Sade).
La grande dote di Macchia
è d'essere il più chiaro e equilibrato e onnicomprensivo dei
critici e al medesimo tempo d'esprimere tutto se stesso tra le pieghe
della sua erudizione e della rete di rapporti che tende tra i testi.
Poi c'è un altro filone - non so se nessuno l'ha mai commentato -,
forse il più singolare e prelibato: quello delle opere ipotetiche,
che avrebbero potuto essere e invece non sono mai state scritte.
Macchia è un critico (forse il solo al mondo) che tiene conto non
solo degli infiniti libri che sono stati scritti, dai più illustri
ai più oscuri, ma destina una speciale sottilissima attenzione a
indagare le possibilità che la letteratura ha perduto: una
biblioteca virtuale che comprende (si veda Il libro da fare,
che apre i Saggi italiani) le opere progettate dagli autori e
di cui resta il titolo o poco più (Baudelaire covava una miniera
d'opere non realizzate), non solo, ma anche quelle a cui gli autori
non hanno mai pensato e che pure ci saremmo aspettati che
scrivessero. Perchè lo struggente episodio virgiliano di Andromaca
(quando la nostalgia della vedova esiliata ricrea in Epiro la
topografia di Troia) non è entrato nella Divina Commedia?
(Eppure Dante l'aveva ben presente, visto che lo cita nel De
Monarchia). E come mai Racine scrivendo la sua Andromaca si
lascia sfuggire uno spunto così teatrale? E perché a Baudelaire
l'Andromaca di Virgilio fa venire in mente un cigno che muore di
sete? A tutte queste domande risponde un saggio delle Rovine
di Parigi, un capolavoro assoluto anche questo.
Continuare l'elenco dei
fili conduttori delle indagini di Macchia sarebbe troppo lungo, ma ce
n'è ancora uno che non posso trascurare, soprattutto parlando di
questo libro: quello apocalittico. Si direbbe che questo signore
gentile, dall' apparenza rosea e ilare, custodisca nella calma della
sua biblioteca, come un tesoro accumulato negli anni, una collezione
di catastrofi telluriche. O per esser più precisi, una
documentazione dell'aspettativa di catastrofe che cova nei cuori come
paura o come malcelato desiderio. Già in altri libri come La
caduta della Luna (Mondadori, 1973) cominciava a profilarsi
questo aspetto, che acquista ora più evidenza, anche per un' altra
eredità raccolta cammin facendo. Infatti Le rovine di Parigi,
tema e titolo, prendono spunto dalle rovine del libro che Walter
Benjamin voleva scrivere sulla città dei "passaggi" e di
cui non restano che frammenti e una montagna di citazioni. Gli autori
delle citazioni di Benjamin sono gli stessi su cui Macchia lavora,
riplasmando nel suo discorso la stessa figura. Per cui questo libro è
in qualche modo un'incarnazione compiuta del fantasma di quell'altro:
nella nitidezza e nella solida acribia di Macchia passa un fremito
della tensione escatologica del profeta berlinese. A questo punto
qualcuno sarà tentato d' arruolare Macchia nella schiera dei
cavalieri dell'apocalisse, oggi folta più che mai. Io preferisco
trarre anche da lui conferma al convincimento opposto: la scaramanzia
come metodo sovrano di dominio della Storia; la consuetudine con la
visione della fine del mondo come stabile condizione perché il mondo
continui.
“la Repubblica”,19
giugno 1985
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