Dal sito de “l'Indice”
riprendo l'estratto da un'intervista a Tullio De Mauro di qualche
anno fa sull'analfabetismo, soprattutto di ritorno, sui livelli
scarsi delle attività di lettura, sugli effetti sociali, civili,
economici di tutto ciò. (S.L.L.)
Lei
è lo studioso che più insistentemente in quest’ultimi anni ha
continuato ad avvertire dei pericoli dell’analfabetismo, condizione
di gruppi crescenti di italiani e non, e tuttavia anno dopo anno
nulla è cambiato e i dati mostrano situazioni peggiorate. Ma,
provocatoriamente, perché l’analfabetismo è la così grande
iattura che si descrive? Se ci sono così tanti analfabeti e la vita
nazionale scorre più o meno come sempre, perché dobbiamo
preoccuparcene?
Tanto più in tempi di
internet, lettura e scrittura di testi e almeno elementari capacità
di calcolo e di lettura di una tabella o di un grafico sono un filtro
indispensabile di utilizzazione di servizi e risorse informative, di
esercizio di attività produttive di qualche contenuto tecnologico,
di acquisizione e controllo critico di informazioni di ogni tipo. Gli
analfabeti o semianalfabeti si ingegnano con mirabili astuzie per
celare il loro handicap, ma pesano in modo terribilmente negativo
sulla vita produttiva e sul reddito del paese. Pesano sulla lettura e
sulle capacità di maturare insieme orientamenti meditati nella vita
sociale e politica. Cerco di occuparmi non solo del mio mestiere di
linguista, ma anche di scuola. E so da tutte le indagini
internazionali in materia che la condizione culturale di famiglie e
ambiente si riverbera negativamente sugli apprendimenti scolastici di
ragazze e ragazzi: la scuola è costretta a lavorare in salita, fa
molto, ma non può fronteggiare l’imponente descolarizzazione degli
adulti, insomma l’analfabetismo di ritorno.
Quale motivazione
dovrebbe spingere le classi dirigenti, in primo luogo la dirigenza
politica del paese nel suo complesso, ad allargare le basi della
comprensione e dell’intelligenza sociale, a favorire l’aumento e
la redistribuzione del capitale culturale? Non sono esse in fondo
espressioni di élites ed élites esse stesse? E dunque perché
dovrebbero attivare processi che vanno a minare la loro esistenza?
Non sarebbe, da parte loro, più desiderabile una popolazione debole
dal punto di vista delle capacità critiche e dunque una popolazione
più manipolabile?
La motivazione esplicita
c’è ed è nell’articolo 3 della nostra Costituzione. Le
disparità di livello sono un grande ostacolo alla partecipazione
effettiva alla vita sociale e politica del paese. Sì, forse, come le
sue domande implicano, è proprio questo che si vuole evitare. Certo
più volte negli anni ho constatato che vi è una certa freddezza nei
gruppi dirigenti, e non solo a destra, nel tenere conto di ciò che
stiamo dicendo.
Nelle nostre società
occidentali non c’è piena abbondanza di tutto. Vi sono infatti
beni che sono scarsi o diventano scarsi, pensiamo oggi all’aria
pulita, agli spazi urbani, alla qualità del cibo e altro ancora.
Bene, la capacità di interpretazione del testo scritto e il fare su
di esso inferenze medio-alte non potrebbe essere un bene scarso e
accettabile in quanto tale?
È un po’ quello che
pensa un mio antico allievo e amico, oggi valoroso collega, Raffaele
Simone: ci fronteggia e ci sovrasta un “mostro mite” che un po’
alla volta, per carità senza (troppa) violenza, ci imbonisce e poi
succhia l’ossigeno di cui il nostro cervello ha bisogno. Aldous
Huxley e George Orwell dipinsero quadri, ancora impressionanti per la
loro precisione profetica, delle tecniche del mostro mite e dei
risultati della loro applicazione. Ma anche Piero Calamandrei ha
scritto pagine memorabili (ora riedite da Sellerio) sulla “mite”
progressiva svalutazione e atrofizzazione di scuola, magistratura,
realtà autonome che potrebbero produrre anticorpi contro il mostro.
Un grande pianista
diceva che se non suonava per un giorno se ne accorgeva solo lui, ma
se non suonava per due giorni se ne accorgeva anche chi lo ascoltava.
Perché insomma in questa Italia si corre il rischio di andare 11/13
anni a scuola, o anche più, e poco dopo perdere ciò che si è
acquisito? Che cosa manca o che cosa vi è di perverso?
C’è un fatto
fisiologico: in età adulta si calcola che regrediamo dappertutto di
cinque anni rispetto ai livelli massimi di competenza conquistati a
scuola, se le attività conformi a quei livelli non vengono
esercitate. Domando a mia volta: in una terra senza vere librerie
(sarebbero, queste, solo 300) e con più dei tre quarti dei Comuni
senza una biblioteca di pubblica lettura, dove e come, uscita da
scuola, la popolazione adulta può continuare a esercitare le
capacità di lettura e intelligenza acquisite a scuola?
Perché
l’istruzione degli adulti è la chiave di volta di un pensiero che
progetta e cerca la riduzione degli indici dei vari analfabetismi?
Perché non sarebbe del tutto valido un sapere esperienziale, senza
la capacità di interpretare lo scritto? Si possono non possedere
quelle capacità di lettura e interpretazione o di calcolo, ma si può
avere un saper fare ricco di vita, ricco delle sue inferenze e dei
suoi calcoli.
Quel che lei dipinge fu
vero nelle società a base produttiva contadina, cioè in Italia fino
ai primi anni cinquanta. Ho conosciuto quel mondo e so quanta
intelligenza ospitasse. Ma oggi? Chi non sa leggere e capire
palesemente non sa guidare un’automobile o, se purtroppo lo fa,
combina disastri, non sceglie bene alimenti al supermercato, finisce
preda delle cento e cento vannemarche sparse nel paese e esibite
dalle televisioni. Ed è curioso (o no?) constatare che le abilità
di un sapere di vita prezioso e prealfabetico, che abbiamo
stolidamente dilapidato tra anni cinquanta e sessanta, oggi appaiono
coltivate soprattutto, anzi quasi esclusivamente (a parte solo il
cucito) dalla fascia più colta degli adulti e delle adulte.
Non era raro negli
anni cinquanta trovare analfabeti che ascoltavano la musica colta, la
lirica, piuttosto che la canzonetta leggera. Oggi lo spostamento in
basso del quadro valoriale comune costituisce una minaccia per la
capacità individuale di critica e di scelta?
Sì.
In
un suo studio, realizzato con Adolfo Morrone, Livelli di
partecipazione alla vita della cultura in Italia (Fondazione
Mondo Digitale, 2008) ci ha colpito il dato, che potrebbe essere
singolare ma certamente non lo è, che gli strati più attivi e più
competenti culturalmente sono anche quelli che più si dedicano ad
attività pratiche minute.
Vede, appartengo a quelli
che credono che il cervello sia uno, una l’intelligenza nelle sue
forme diverse. Probabilmente soltanto chi fa funzionare l’uno e
l’altra ha gusto per quelle attività materiali che Benedetto Croce
chiamò una volta “banausiche”, proprie di quella che Kant
chiamava cultura della sopravvivenza. Ma altolà con
l’anticrocianesimo facile. È di Croce una grande pagina in cui si
spiega che opere non sono solo quelle dell’ingegno, rinomate nei
secoli, ma anche le “opere di vita”, il saper attendere al
quotidiano, il coltivare gli affetti. E temo (non so usare altro
verbo), temo che anche di queste opere oggi siamo poveri nel nostro
paese e che pochi, ormai, sappiano “l’odore dei limoni”.
Riusciremo a tornare ricchi?
“L'Indice” Dicembre
2009 – anno XXVI – n. 12
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