San Sepolcro, Museo civico, Il volto del Cristo nella "Resurrezione" di Piero della Francesca |
«Titolature» del Cristo
sono, nel linguaggio teologico di origine tedesca, le differenti
denominazioni con le quali Gesù di Nazareth, nell’alveo della sua
predicazione palestinese e, poi, nello sviluppo storico fino alla
Riforma e Controriforma fu riconosciuto e chiamato: Figlio dell’Uomo,
Figlio di Dio, rabbi, profeta, Re del mondo, Messia, Redentore,
Salvatore e altri nomi analoghi si costituiscono in una costellazione
terminologica che rispecchi le prospettive molto differenziate con le
quali gli uomini e i gruppi lo hanno considerato.
Questo nuovo libro su
Gesù dell’esegeta statunitense Jaroslav Pelikan (Gesù nella
storia, Bari, Laterza, 1987, con prefazione di Sergio Quinzio)
fonda proprio sulle diverse ideologie sottostanti alle titolature una
documentata escursione attraverso le modalità storiche che nei
secoli, hanno riversato nella figura originaria nel predicatore ebreo
caratteristiche distanti e particolari, così che l’unico Gesù
della breve narrazione evangelica si ricostruisce nei molti Gesù
generati dal tempo e rispondenti a visioni del mondo ogni volta
diverse. Né questo cumularsi di polivalenze si inserisce soltanto in
una cadenza di successivi ritmi epocali, obliterando l’una immagine
sorgente, l’altra già storicamente strutturata, ma sembra
verificarsi un progressivo arricchimento, fino al punto che diveniamo
eredi dei molti Gesù che ci precedono. È, tuttavia, evidente che la
varietà delle concezioni politiche e religiose si risolvono in
un’accentuazione di quella e di questa caratteristica: il Gesù di
Lutero, pur conservando l’intera serie di titolature consolidate
precedentemente, non è il Gesù dei gesuiti, né quello di Giovanni
XXIII.
Pelikan, in sostanza,
riduce a sostanza storica una tesi che fu già cara al cardinale
Suhard e che fu da lui annunziata più volte dal pulpito di Nostra
Signora di Parigi: la tesi dell'incarnazionismo storico,
secondo la quale il mistero centrale accettato da cristiani sta
nell’aver assunto Dio carne umana nel Figlio unigenito
(incarnazione in senso stretto), ma si sviluppa anche come discesa
del corpo incarnato nei tempi e nelle condizioni differenti delle
umane culture. «Ogni tempo ha fatto suo» è detto nella fonte
neotestamentaria, e cioè, pur restando prima e fuori del tempo nella
prospettiva teologica definita da Paolo, Gesù diverrebbe ipostasi
storicizzata, variante sostanza culturale, nella quale i gruppi umani
riconoscono le loro ansie e i loro fermenti ideologici. L’opera,
che raccoglie una serie di conferenze tenute dall'autore alla Yale
University, ma ricomposte in un discorso organico e conseguente,
segue il filo della tesi dell’incamazionismo storico in un impegno
espositivo diretto al grande pubblico e retto da un’evidente fede
religiosa: Gesù non è soltanto, per Pelikan, la figura umana con la
quale crocianamente dobbiamo fare i conti, ma anche un’irruzione
eccezionale del divino nel piano umano e la sintesi finale di ogni
aspirazione storica, l’aldilà della storia che diviene modello e
magistero.
La sintesi tocca, nella
prima parte, la figura del giovane palestinese che, documentata da
Paolo e, poi, dai testi evangelici e neotestamentari, opera nella sua
ebraicità non conformista, seguendo la linea contestativa degli
antichi profeti, tuttavia rigorosamente osservante della norma
religiosa del Tempio. Profeta, come quegli che parla annunziando la
parola di altri, ossia di Dio (il termine greco «profeta» ha la sua
radice in un verbo che significa «parlare al posto di», ben
distante, come grecismo, dal valore semitico del corrispondente
termine nabi, navi), Rabbi, rabbenu, come
«maestro», Messia che accoglie la tradizione anticontestamentaria
dell’unzione regale (mashiah significa «unto» e
corrisponde alla traduzione greca Christos), Figlio dell’Uomo
e Figlio di Dio, che sono appellativi comuni del genere umano nel
linguaggio ebraico, Signore, sono i segnali lessicali che indicano i
modi secondo i quali i gruppi palestinesi, cui la predicazione era
diretta, percepirono l’immagine dell’annunziatore.
Ma, uscita dal ristretto
ambito della patria di origine, la figura viene progressivamente a
perdere i suoi tratti giudaici. Si apre il pesante problema della
estensione del messaggio ai gentili, già oggetto di aspro dibattito
di epoca apostolica, e la tensione si svolge a un’opera di
giustificazione della storia antica. L’apologetica prima la
sottopone ad un’aspra condanna, secondo al quale gli dei delle
genti sono epifanie diaboliche, e poi scruta nel tempo pagano i segni
di una preparazione all’annuncio, i fermenti profetici che
esprimono l’attesa di un mondo nuovo. Accanto al palinsesto
definitivamente accettato delle profezie dall'antico Testamento
vengono cristianizzate e adattate alle esigenze apologetiche molte
immagini della paganità: da Virgilio la cui quarta Ecloga viene
reinterpretata come annunzio messianico, agli Oracoli sibillini, alla
filosofia platonica e neoplatonica, che modificheranno radicalmente i
contenuti dei primo messaggio. Gesù diviene platonicamente Verbo,
Parola, Nous, mentre i miti dell’antichità in via di disfacimento
sono riletti e capovolti: Odisseo, legato all’albero della nave per
sfuggire all’incantesimo delle Sirene, si trasforma, in Clemente di
Alessandria, il maggiore ellenizzatore del kerygma primitivo,
in una prefigurazione del Cristo crocefisso.
Ma andrei ben oltre, in
notazioni non presenti nel libro di Pelikan. Gli stessi testi
evangelici vengono sottoposti ad un’esegesi utilizzata ai fini
della documentazione di una centralità della parola evangelica, e le
Genti sono rappresentate come in un’attesa ansiosa della
rivelazione fin dall’abisso del tempo. Fulgenzio di Ruspe
ricostruisce in questo senso la scena della natività, nella quale
accanto al luogo della nascita, sono i pastori e i magi; gli uni,
egli dice, a rappresentare gli Ebrei, gli altri le genti pagane, cui
i loro profeti avevano preannunziato l’avvento. Mi sembra che
proprio in questo processo di qualificazione del messaggio come
nucleo della storia e del le culture, sia anche da individuare la
forte carica etnocentrica del Cristianesimo, che già nella leggenda
dei primi secoli, riduce le diversità culturali a pallide ombre
vaganti in un’incerta attesa dell’unica verità rivelata in
Galilea.
Prorompe e si afferma
nella fase successiva, quella costantiniana, la titolatura di Re dei
re, prima in opposizione ai diritti del cesare terreno, cui si
sostituisce il Re invisibile e universale, poi nella sottile dinamica
di legittimazione del potere ecclesiastico, che trasmette
all’imperatore l'investitura divina trasferita da Dio al Cristo, da
questi al pontefice romano, dal pontefice alla gerarchia feudale.
Sono i terreni ideologici che preparano la costantinizzazione del
messaggio evangelico e segnano la sua netta distanza dagli autentici
valori di origine. La regalità divina si conforma in regalità
politica e si giungerà al Dictatus papae, nel cui primo articolo è
proclamato che tutti i re e principi della terra devono baciare il
piede del pontefice romano, riconoscendolo come suprema autorità.
Parallelamente si delinea
la fine teologia del Cristo cosmico, come spiegazione metafisica e
ontologica della realtà e delle epoche, sulla base di tematiche già
chiare nel pensiero paolino; nel quale il Cristo è prima di tutte le
cose e tutte le cose sussistono in lui. Il Logos platonico è la
chiave di struttura dell’universo. Ormai il semplice annunzio
palestinese è divenuto speculazione filosofica. Né avrei
trascurato, in questa fase dell'analisi, che ha il suo pendant
iconografico nel Cristo Signore del Mondo (il Pancrator), alcune
interessanti motivazioni che appartengono alla teologia cosmica e
che, radicate in alcuni passi dell’Epistola ai Romani di
Paolo, si rappresentano l’intera natura come attraversata dalle
doglie del parto in attesa della rivelazione del Figlio dell’Uomo
per essere riscattata dal peso del decadimento cui la portò il
peccato dell’uomo.
Intanto, per soffermarci
su alcuni aspetti interessanti dell’opera, il Cristo diviene anche
il prototipo modulare della vita monastica, nella quale l’anacoreta
o il cenobita realizzano una vera e propria imitatio Christi,
insistendo sugli aspetti ascetici, sessuofobi e rinunziatari del
primo messaggio: si fa incidente il comando di perfezione, che
comporta, nel detto evengelico, l’abbandono della famiglia e dei
beni, diviene pressante una purezza sessuale che è già condensata
nel passo evangelico sull’eunuchismo come scelta privilegiata. Come
«Sposo dell’Anima» Gesù alimenta le grandi correnti della
mistica, che recupera i significati allegorici del Cantico dei
Cantici e che si diluisce nelle innumeri forme di un’esperienza
che raggiunge l’estasi e la totale nullificazione del Sé nel
modello divino, «principe della Pace» per definizione, Gesù
origina la dura controversia sulla legittimità della guerra e del
servizio militare, cui i primi cristiani, pagando in proprio,
costantemente si sottrassero. Le ambagi delle teologie avanzeranno
l’inganno della cosiddetta «guerra giusta», con la quale si
legalizzano la violenza e l’assassinio collettivo. Ed è questa la
piaga cocente di un Cristianesimo che, seppellendo le sue prime
istanze pacifiste, è riuscita ad adattarsi agli eccidi delle
Crociate e alla benedizione degli eserciti.
Né va dimenticato il
Cristo liberatore, come il protagonista storico della rivoluzione
della prima soppressione della schiavitù, già riconosciuta da
Engels come sicuro merito della nuova religione nel mondo antico. Ed
è pure vero che dalla originaria proclamazione della illegittimità
della schiavitù si passa a pesanti accomodamenti: verrà accolto da
parte dei teologi il diritto di avere schiavi, verranno organizzate
le grandi cacce agli indigeni nell’epoca dello schiavismo, e fino a
un secolo addietro la servitù della gleba, non soltanto in Russia,
perpetuava una condizione di imponente reificazione dell’uomo.
Infine si presentano particolarmente acute le notazioni sul Gesù
degli Illuministi e dei Deisti inglesi, un Gesù ora ricondotto alla
sua dimensione storica, ora spogliato di ogni soprannaturalità e
sollevato a ragione di una religione naturale che è presente nello
spirito umano.
In ultima analisi questo
di Pelikan è un bel libro proprio perché, pur restando l’autore
radicato al suo credo religioso, storicizza decisamente un Gesù che
la teologia aveva cristallizzato in una extratemporalità metafisica
e lo riconduce alle passioni della storia quotidiana dell'uomo. Le
cadenze dell’analisi riguardano, tuttavia, il livello colto o dotto
della grande avventura cristiana, dalle controversie trinitarie,
finemente esaminate, a quelle trattazioni della teologia cosmica, che
non saprei quanto abbia toccato le folle. Non esistono anche altri
Gesù, qui dimenticati o taciuti certo non intenzionalmente? Il Gesù,
per esempio, che divenne, in epoca recente, il fermento sconvolgente
dei nativismi e degli anticolonialismi dei popoli del Terzo mondo; o
il Gesù dei poveri, dei contadini dei pastori, vissuto come un
fraterno compagno della sofferenza e della speranza? O la storia
cristiana si diluisce soltanto nella grandeur dell’egemonia
culturale?
Il libro è corredato da
fotografie di interesse iconografico attinente alle varie titolature.
Qui e lì qualche fallo di stampa, come un curioso «sciita» (che è
il fedele della divisione islamica della Scia), con il quale, a pag.
39, si intende indicare «scitico», come nome di origine del monaco
Dionigi il Piccolo.
“il manifesto”,
ritaglio senza data, ma 1987
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