Entrate in una qualunque
pescheria e, con piglio sicuro, chiedete un chilo di gattuccio.
Curiosando su un vecchio volume avete letto la ricetta della burrida
- si tratta di un condimento a base di aceto e noci per squaloidi
lessati in acqua aromatizzata - e vorreste provare a replicarla.
Ebbene, a meno che non vi troviate in Sardegna o sulle coste toscane,
dove i gattucci sono di casa, vi sarà praticamente impossibile
trovarlo. Rinunciate all’impresa e, tristemente, ripiegate sulla
solita orata, d’allevamento ovviamente, ché quelle selvatiche
hanno raggiunto prezzi impraticabili. All’esito negativo della
ricerca consegue, inevitabile, il tracollo della fantasia: ve ne
tornate a casa con le vostre orate da porzione, simmetriche e
regolari, che del mare non hanno neppure il lontano sentore, con la
prescienza di cucinarle, come in altre occasioni, al forno,
insaporite con un po’ d’aglio e di rosmarino e contornate di
patate novelle o di pomodorini freschi.
Non pensiate, però, che
il gattuccio sia unico nel suo genere: la stessa, sconfortante,
situazione potrebbe ripetersi se, questa volta con voce più
sommessa, ordinaste uno zerro, una mostella, un grongo o un pesce
spatola. Oppure qualora cambiaste genere optando, ad esempio, per
qualche mollusco non troppo scontato e, ancora, per un pesce d’acqua
dolce diverso dall’inflazionatissima trota. Non v’è dubbio,
infatti, che tutti quanti conoscano le cozze e le vongole che,
dall’interno delle loro retine, affollano i banconi di ogni
supermercato, mentre soltanto un’esigua minoranza è pratica di
murici, piè d’asino o di cavedani, lasche e coregoni.
Che significato
attribuire a queste premesse? Forse in Italia non è mai esistita una
tradizione gastronomica capace di trasformare e utilizzare per scopi
culinari le centinaia di specie presenti nei
nostri mari. Oppure è
completamente scomparsa. La risposta dev’essere, di necessità,
duplice.
La tradizione è, almeno
apparentemente, morta per quanti, abitando nell’entroterra o
lontani da riserve ittiche naturali, ignorano quale e quanta
ricchezza popoli le nostre acque. Vedendo sempre e soltanto spigole,
orate, rombi, sampietri, naselli, sogliole, trote e salmoni sui
banchi ordinati e vagamente asettici delle pescherie cittadine ci
creiamo innumerevoli condizionamenti nella pratica domestica. Gli
stessi condizionamenti che, troppo spesso, come zavorre influenzano
le nostre scelte al ristorante. L’ignoranza orienta i nostri occhi
inesperti sui menù delle località pelagiche e lacustri, a dire il
vero non sempre così propositivi, portandoci a scartare come privi
di attrattiva i piatti più tradizionali e a scegliere, invece,
quelli che per rinomanza ci allettano maggiormente. Con l’ovvia
conseguenza che molti cuochi, in modo da accontentare palati vergini
e “raffinati”, propongano esattamente quello che questi palati
vogliono. D’altro canto, chi ha a che fare quotidianamente col mare
e non subisce passivamente le richieste dei più, offre un contributo
sostanziale alla salvaguardia e al recupero della tradizione.
Nel caso del patrimonio
ittico questo termine simboleggia, in primo luogo, la rivalutazione e
la valorizzazione dei cosiddetti pesci poveri che, almeno in passato,
hanno giocato un ruolo fondamentale sulle nostre tavole. Sono tutti
quei pesci ai quali la ristorazione alta non dedica la dovuta
attenzione, affidando loro la parte di attori non protagonisti o di
meri figuranti o che, addirittura, esclude tout court dal menù. Sono
tutte le specie che non conosciamo o che, semplicemente, non
cuciniamo perché incapaci di attribuire loro la collocazione più
adatta.
Fondamentalmente perché
si tratta di soggetti “scomodi”, in quanto difficili da pulire,
troppo piccoli o ricchi di scarto. Sono i pesci che, già un tempo,
non finivano sui mercati perché privi di valore commerciale e che i
pescatori, con arte sapiente, cucinavano direttamente sulle
imbarcazioni oppure appena approdati a riva. Dalle esigenze primarie
di sostentamento nacquero i vari brodetti della costa adriatica, le
zuppe e i guazzetti e, anche se pare più difficile a credersi, il
cappon magro che, fra le preparazioni liguri, troneggia come uno fra
i piatti più sontuosi e opulenti.
La tradizione, dunque,
insegna a impiegare ogni singola varietà di pesce, trasformandola e
confezionandole la veste più calzante. Offre innumerevoli spunti per
cucinare e conservare le acciughe e il loro novellame e per preparare
le anguille e il baccalà. Ci racconta che il tonno non è soltanto
quello che se ne sta compresso nelle scatolette e che, soprattutto,
il migliore non è il “pinna gialla”, tanto decantato dagli
annunci pubblicitari. Fa sì che guardiamo con occhi meno pudichi il
fegato o la trippa di una rana pescatrice che, non a caso, sono fra i
bocconi più apprezzati dai pescatori. Dà dignità agli sgombri che,
benché acquisiscano presto un gusto oleoso per via delle carni
grasse e facilmente alterabili, sono tuttavia ottimi qualora li si
consumi appena pescati. In buona sostanza, si potrebbe stilare un
lungo elenco, che a ogni tratto di costa attribuisca preparazioni
specifiche e consone per quei pesci che la generosità del mare e il
trascorrere delle stagioni giornalmente concedono. La tradizione
gastronomica è anche segno patente della mescolanza e di
un’intelligente commistione con altre culture. Tempi lontani in cui
siciliani e sardi assimilarono dai mercanti arabi l’arte di
preparare il cuscus, mentre a Livorno e a Roma le comunità ebraiche
elaboravano preparazioni adatte alle triglie - in tal senso le
“triglie alla livornese” costituiscono una derivazione delle
“triglie alla mosaica” - o alle alici - tipici pesci poveri ai
quali nel ghetto romano fu intitolata la ricetta degli “aliciotti
con indivia”. Tale contaminazione è altresì deducibile
dall’onomastica di piatti come il pilau, che tradisce la sua
origine persiana e che, nella versione pelagica, è praticato sulla
costa calasettana, o l’arcinoto e conteso cacciucco, la cui etimo
sembra riconducibile all’equivalente turco di “minutaglia”.
Il richiamo alla
tradizione dovrebbe, inoltre, farci concludere, ma solo se siamo
dotati di una minima sensibilità ecologica, che alcune preparazioni
possono salvarsi soltanto qualora venga garantita la sopravvivenza
della materia prima. È il caso, fra gli altri, dello storione che,
almeno un tempo, abitava le nostre acque interne. Il degrado
ambientale cui si unisce la ricercatezza di un pesce, per sua
sfortuna, pregiato per le carni e, ancor più, per le uova, ha
portato a un passo dall’estinzione della specie. E a questa
sussegue, come logica conseguenza, la pressoché totale scomparsa di
una preparazione tipica del ferrarese. A un analogo rischio non vanno
incontro i soli pesci “aristocratici”, ma anche varietà plebee
come le lamprede, incapaci di adattarsi alle progressive modifiche
del loro habitat.
La tradizione
gastronomica, a ogni modo, resiste ed è viva. Grazie a quanti
praticano ancora una “pesca responsabile” e a coloro che operano
per il recupero delle tradizioni locali, magari rileggendole e
reinterpretandole alla luce della loro sensibilità, senza però
stravolgerle. Quanto ai consumatori, benché sia vero che nei negozi
di molte città il gattuccio sia soltanto una chimera, sarebbe
auspicabile che, almeno altrove, rinunciassero all’orata al forno
in favore di qualche piatto tipico del territorio. Con questo non si
vuole promuovere alcuna crociata contro le orate e i branzini. Già
Plinio e Columella ne elogiavano il sapore e raccontavano di come gli
antichi romani praticassero forme embrionali di acquacoltura. Si
vuole soltanto ricordare che, a fronte di pesci che godono di fama,
anche letteraria, ne esistono innumerevoli altri, più umili e meno
conosciuti. Non avrete la burrida a Torino. E, in fondo, è
giusto che sia così. Ma, quanto meno a Cagliari, non mancate
d’assaggiarla.
Da
Scritto e mangiato. Sale in zuppa – Supplemento
a “il manifesto”, febbraio 2004
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