17.5.17

Alla ricerca del pesce perduto (Silvia Ceriani - Slow Food)

Entrate in una qualunque pescheria e, con piglio sicuro, chiedete un chilo di gattuccio. Curiosando su un vecchio volume avete letto la ricetta della burrida - si tratta di un condimento a base di aceto e noci per squaloidi lessati in acqua aromatizzata - e vorreste provare a replicarla. Ebbene, a meno che non vi troviate in Sardegna o sulle coste toscane, dove i gattucci sono di casa, vi sarà praticamente impossibile trovarlo. Rinunciate all’impresa e, tristemente, ripiegate sulla solita orata, d’allevamento ovviamente, ché quelle selvatiche hanno raggiunto prezzi impraticabili. All’esito negativo della ricerca consegue, inevitabile, il tracollo della fantasia: ve ne tornate a casa con le vostre orate da porzione, simmetriche e regolari, che del mare non hanno neppure il lontano sentore, con la prescienza di cucinarle, come in altre occasioni, al forno, insaporite con un po’ d’aglio e di rosmarino e contornate di patate novelle o di pomodorini freschi.
Non pensiate, però, che il gattuccio sia unico nel suo genere: la stessa, sconfortante, situazione potrebbe ripetersi se, questa volta con voce più sommessa, ordinaste uno zerro, una mostella, un grongo o un pesce spatola. Oppure qualora cambiaste genere optando, ad esempio, per qualche mollusco non troppo scontato e, ancora, per un pesce d’acqua dolce diverso dall’inflazionatissima trota. Non v’è dubbio, infatti, che tutti quanti conoscano le cozze e le vongole che, dall’interno delle loro retine, affollano i banconi di ogni supermercato, mentre soltanto un’esigua minoranza è pratica di murici, piè d’asino o di cavedani, lasche e coregoni.
Che significato attribuire a queste premesse? Forse in Italia non è mai esistita una tradizione gastronomica capace di trasformare e utilizzare per scopi culinari le centinaia di specie presenti nei
nostri mari. Oppure è completamente scomparsa. La risposta dev’essere, di necessità, duplice.
La tradizione è, almeno apparentemente, morta per quanti, abitando nell’entroterra o lontani da riserve ittiche naturali, ignorano quale e quanta ricchezza popoli le nostre acque. Vedendo sempre e soltanto spigole, orate, rombi, sampietri, naselli, sogliole, trote e salmoni sui banchi ordinati e vagamente asettici delle pescherie cittadine ci creiamo innumerevoli condizionamenti nella pratica domestica. Gli stessi condizionamenti che, troppo spesso, come zavorre influenzano le nostre scelte al ristorante. L’ignoranza orienta i nostri occhi inesperti sui menù delle località pelagiche e lacustri, a dire il vero non sempre così propositivi, portandoci a scartare come privi di attrattiva i piatti più tradizionali e a scegliere, invece, quelli che per rinomanza ci allettano maggiormente. Con l’ovvia conseguenza che molti cuochi, in modo da accontentare palati vergini e “raffinati”, propongano esattamente quello che questi palati vogliono. D’altro canto, chi ha a che fare quotidianamente col mare e non subisce passivamente le richieste dei più, offre un contributo sostanziale alla salvaguardia e al recupero della tradizione.
Nel caso del patrimonio ittico questo termine simboleggia, in primo luogo, la rivalutazione e la valorizzazione dei cosiddetti pesci poveri che, almeno in passato, hanno giocato un ruolo fondamentale sulle nostre tavole. Sono tutti quei pesci ai quali la ristorazione alta non dedica la dovuta attenzione, affidando loro la parte di attori non protagonisti o di meri figuranti o che, addirittura, esclude tout court dal menù. Sono tutte le specie che non conosciamo o che, semplicemente, non cuciniamo perché incapaci di attribuire loro la collocazione più adatta.
Fondamentalmente perché si tratta di soggetti “scomodi”, in quanto difficili da pulire, troppo piccoli o ricchi di scarto. Sono i pesci che, già un tempo, non finivano sui mercati perché privi di valore commerciale e che i pescatori, con arte sapiente, cucinavano direttamente sulle imbarcazioni oppure appena approdati a riva. Dalle esigenze primarie di sostentamento nacquero i vari brodetti della costa adriatica, le zuppe e i guazzetti e, anche se pare più difficile a credersi, il cappon magro che, fra le preparazioni liguri, troneggia come uno fra i piatti più sontuosi e opulenti.
La tradizione, dunque, insegna a impiegare ogni singola varietà di pesce, trasformandola e confezionandole la veste più calzante. Offre innumerevoli spunti per cucinare e conservare le acciughe e il loro novellame e per preparare le anguille e il baccalà. Ci racconta che il tonno non è soltanto quello che se ne sta compresso nelle scatolette e che, soprattutto, il migliore non è il “pinna gialla”, tanto decantato dagli annunci pubblicitari. Fa sì che guardiamo con occhi meno pudichi il fegato o la trippa di una rana pescatrice che, non a caso, sono fra i bocconi più apprezzati dai pescatori. Dà dignità agli sgombri che, benché acquisiscano presto un gusto oleoso per via delle carni grasse e facilmente alterabili, sono tuttavia ottimi qualora li si consumi appena pescati. In buona sostanza, si potrebbe stilare un lungo elenco, che a ogni tratto di costa attribuisca preparazioni specifiche e consone per quei pesci che la generosità del mare e il trascorrere delle stagioni giornalmente concedono. La tradizione gastronomica è anche segno patente della mescolanza e di un’intelligente commistione con altre culture. Tempi lontani in cui siciliani e sardi assimilarono dai mercanti arabi l’arte di preparare il cuscus, mentre a Livorno e a Roma le comunità ebraiche elaboravano preparazioni adatte alle triglie - in tal senso le “triglie alla livornese” costituiscono una derivazione delle “triglie alla mosaica” - o alle alici - tipici pesci poveri ai quali nel ghetto romano fu intitolata la ricetta degli “aliciotti con indivia”. Tale contaminazione è altresì deducibile dall’onomastica di piatti come il pilau, che tradisce la sua origine persiana e che, nella versione pelagica, è praticato sulla costa calasettana, o l’arcinoto e conteso cacciucco, la cui etimo sembra riconducibile all’equivalente turco di “minutaglia”.
Il richiamo alla tradizione dovrebbe, inoltre, farci concludere, ma solo se siamo dotati di una minima sensibilità ecologica, che alcune preparazioni possono salvarsi soltanto qualora venga garantita la sopravvivenza della materia prima. È il caso, fra gli altri, dello storione che, almeno un tempo, abitava le nostre acque interne. Il degrado ambientale cui si unisce la ricercatezza di un pesce, per sua sfortuna, pregiato per le carni e, ancor più, per le uova, ha portato a un passo dall’estinzione della specie. E a questa sussegue, come logica conseguenza, la pressoché totale scomparsa di una preparazione tipica del ferrarese. A un analogo rischio non vanno incontro i soli pesci “aristocratici”, ma anche varietà plebee come le lamprede, incapaci di adattarsi alle progressive modifiche del loro habitat.
La tradizione gastronomica, a ogni modo, resiste ed è viva. Grazie a quanti praticano ancora una “pesca responsabile” e a coloro che operano per il recupero delle tradizioni locali, magari rileggendole e reinterpretandole alla luce della loro sensibilità, senza però stravolgerle. Quanto ai consumatori, benché sia vero che nei negozi di molte città il gattuccio sia soltanto una chimera, sarebbe auspicabile che, almeno altrove, rinunciassero all’orata al forno in favore di qualche piatto tipico del territorio. Con questo non si vuole promuovere alcuna crociata contro le orate e i branzini. Già Plinio e Columella ne elogiavano il sapore e raccontavano di come gli antichi romani praticassero forme embrionali di acquacoltura. Si vuole soltanto ricordare che, a fronte di pesci che godono di fama, anche letteraria, ne esistono innumerevoli altri, più umili e meno conosciuti. Non avrete la burrida a Torino. E, in fondo, è giusto che sia così. Ma, quanto meno a Cagliari, non mancate d’assaggiarla.


Da Scritto e mangiato. Sale in zuppa – Supplemento a “il manifesto”, febbraio 2004

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