Il 14 dicembre 2012, in
una scuola elementare di Newtown (Connecticut), un uomo armato di un
fucile d’assalto massacra ventisette persone, tra cui venti
bambini. È la settima strage dall’inizio dell’anno, negli Stati
uniti. «Queste tragedie devono cessare» dichiara il presidente
Barack Obama, prima di annunciare la creazione di una commissione sul
controllo delle armi da fuoco. Poco dopo, le vendite di armamenti
toccano un massimo storico nel Tennessee. In cinque stati, Walmart
deve fare i conti con l’esaurimento delle sue scorte di armi
semiautomatiche; e si aggiungono centomila nuovi soci alla National
Rifle Association (Nra), la potente lobby delle armi da fuoco
(quattro milioni trecentomila aderenti, tra cui uno dei più famosi
resta Charlton Heston).
Il 16 gennaio 2013, Obama
svela le misure elaborate dalla commissione (divieto per i fucili
d’assalto, i caricatori di grande portata, ecc.). Alla Borsa di New
York le azioni dei colossi degli armamenti s’impennano: +5,6% per
Sturm, Ruger & Co, +6,5% per Smith & Wesson. Prima delle
ultime elezioni presidenziali, il presidente-direttore generale di
Sturm, Ruger & Co, Michael O.
Fifer, già confessava:
«Se glielo domandate, penso che la metà della gente che appartiene
all’industria delle armi da fuoco direbbe che non si augura la sua
[di Obama] rielezione. Ma, a conti fatti, sicuramente andranno di
nuovo a votare per lui.» Ritenuto favorevole al controllo delle armi
da fuoco, il presidente democratico si dimostra l’«alleato
oggettivo» degli adepti della polvere da sparo: negli Stati uniti,
la paura del sequestro alimenta a dismisura le vendite, e la minaccia
di un maggiore controllo sulle armi da fuoco favorisce... i
fabbricanti di armi.
Questo paradosso dipende
in parte dall’uso ingegnoso del secondo emendamento della
Costituzione americana (1787). Ogni volta che, in conseguenza di un
massacro, monta una grande ondata di emozione popolare, i difensori
delle armi da fuoco lo ripetono in tutti i modi: i Padri fondatori
hanno voluto che ciascun cittadino avesse il diritto di «detenere e
portare un’arma»; nessun governo ha il diritto di limitare una
libertà così fondamentale.
Ma perché i padri della
nazione hanno introdotto una tale disposizione nella Costituzione? Si
preoccupavano del diritto alla caccia delle future generazioni? Non
credevano che lo stato potesse garantire la sicurezza dei cittadini?
Il secondo emendamento è
spesso sbeffeggiato dai media stranieri, che lo considerano una
bizzarria, un arcaismo della società americana. Vi si associa a
volte tanto il redneck («zotico») avvinghiato al suo fucile
e al suo pick-up, a volte il padre di famiglia vagamente paranoico
che vuole difendere in prima persona i suoi cari. Il diritto alle
armi simboleggia allora l’individualismo del popolo americano. «Lo
sappiamo, le armi da fuoco, sono tipiche della cultura statunitense»,
esclama su Rtl il conduttore Marc-Olivier Fogiel. Il suo
interlocutore, il giornalista Claude Askolovitch, ritiene addirittura
che il fatto sia «consustanziale a quel Paese», perché «gli
americani si considerano ancora degli agricoltori che si battono
contro gli inglesi». Solo «gli intellettuali illuminati della Costa
est» sarebbero immuni da questa mania.
Ahimè! Il diritto alle
armi contenuto nel secondo emendamento fu pensato, nel XVIII secolo,
da «intellettuali illuminati della Costa est». All’epoca la
questione non era né culturale, né individualista, ma politica e
progressista, e si iscriveva in una lunga tradizione, ampiamente
dimenticata oggi. Per secoli, le armi furono in effetti percepite
come simbolo di libertà: che fosse la spada consegnata dal padrone
al servo affrancato, sotto Enrico I d’Inghilterra (1100-1135); o il
fucile negato agli schiavi francesi, a cui era vietato - secondo
l’articolo 15 del Codice nero (1685) - «portare alcun’arma
d’offesa, né grossi bastoni, se non a costo di frustate e del
sequestro». Se i Padri fondatori hanno permesso a tutti i cittadini
di armarsi, non era per «battersi contro gli inglesi», ma per
esercitare un diritto da loro stessi considerato fondamentale:
resistere all’oppressione, alla tirannia, per farla breve a uno
stato che tentasse di oltrepassare le prerogative limitate che gli
conferisce la Costituzione.
Questo diritto alla
rivolta, compresa quella violenta, fu teorizzato nell’Europa del
XVII secolo dai precursori degli Illuministi: «Il popolo sopporterà,
senza rivolte, né proteste, certi errori gravi dei suoi governi,
numerose leggi ingiuste - scriveva per esempio il filosofo inglese
John Locke nel suo Trattato sul governo civile —. (...) Invece, se
una lunga serie di abusi, di prevaricazioni e di frodi rivela
un’unità d’intenti, che non può sfuggire al popolo,
quest’ultimo prende coscienza del peso che lo opprime e scorge ciò
che lo aspetta; non bisogna stupirsi, a quel punto, se si ribella.»
L’idea ha attraversato
i secoli e le frontiere. Durante la Rivoluzione francese, Maximilien
de Robespierre chiese che «si costruiscano delle fucine negli spazi
pubblici dove fabbricheremo delle armi per armare il popolo». Appena
un secolo più tardi, quando il governo autoritario di Adolphe Thiers
decide di sequestrare i duecento ventisette cannoni collocati a
Belleville e a Montmartre, che appartengono al popolo parigino,
quest’ultimo si rivolta e instaura la Comune di Parigi. «Armi!
Tutti i cittadini hanno il diritto di averne come sola garanzia
seria, efficace, dei loro diritti», proclama allora il
rivoluzionario di Narbona. L’idea è ripresa in seguito dai
repubblicani spagnoli nel 1936, che chiedono armi all’estero per
lottare contro il franchismo; dai partigiani della seconda guerra
mondiale, che cercano di armare il popolo parigino; poi dai
rivoluzionari cubani.
Trascurata dai
progressisti, che hanno realizzato una forma di simbiosi con lo
Stato, questa doppia tradizione dell’arma emancipatrice e del
diritto alla resistenza è stata ripresa, negli Stati uniti, dai
conservatori. Solo loro invocano ormai lo spirito originario del
secondo emendamento: quello che «non è stato scritto per proteggere
il vostro diritto a sparare a un daino, ma per proteggere il vostro
diritto a sparare contro un tiranno se egli si impossessasse del
vostro governo», ribadiva per esempio su “Fox News”
l’editorialista Andrew Napolitano. In questo tentativo di recupero,
i difensori delle armi da fuoco non esitano ad arruolare Martin
Luther King, apostolo della disobbedienza civile non violenta. Larry
Ward, militante attivo del secondo emendamento e ispiratore della
«giornata in onore delle armi» (Gun Appreciation Day), la cui prima
edizione si è tenuta il 19 gennaio, affermava così su Cnn: «Io
credo che questa giornata onori l’eredità del dott. King. Se egli
fosse ancora vivo, sarebbe d’accordo con me nel dire che la
schiavitù non sarebbe mai durata così a lungo nella nostra storia
se gli afro-americani avessero avuto il diritto di portare un’arma
sin dalla nascita di questo paese». Wayne LaPierre, l’inamovibile
vice-presidente della NRA, evoca senza mezzi termini il ricordo del
genocidio degli ebrei d’Europa: «In Germania, il controllo delle
armi da fuoco ha consentito il successo della Shoah».
I partigiani di una
regolamentazione del commercio delle armi da fuoco sarebbero dunque
altrettanti schiavisti o nazisti inconsapevoli, E, poiché la
Costituzione permette a ciascuno di possedere un’arma per
combattere la tirannia, chiunque proponga di circoscrivere questo
diritto è paragonabile a un potenziale tiranno. Insomma, il popolo
deve armarsi per difendere il suo diritto alle armi.
I cittadini americani
avrebbero tuttavia ben altre occasioni per proteggere l’eredità
dei Padri fondatori. In seguito agli attentati dell’ 11 settembre
2001, il loro governo ha autorizzato lo spionaggio di cittadini
innocenti senza mandato, l’incarcerazione dei presunti terroristi
senza processo, le esecuzioni extra-giudiziarie; esso ha dichiarato
guerra senza chiedere il permesso al Congresso. Così facendo, ha
ridicolizzato il quarto, quinto, sesto e ottavo emendamento. Senza
che neanche una delle trecento milioni di armi da fuoco in
circolazione negli Stati uniti sia stata brandita per esigere il
rispetto della Costituzione...
“Le monde diplomatique”
febbraio 2013 Ed.Italiana (traduzione di V. C.)
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