“L’odio del Borghese è l’inizio
della virtù”, scriveva Flaubert a George Sand nel 1867. E dopo di
lui, per più di un secolo, la borghesia è stato l’idolo polemico
di un lungo dibattito storico e politico. Da qualche tempo, tuttavia,
non suscita più molto interesse: in una società in cui le
tradizionali opposizioni di classe appaiono come svuotate, anche la
cultura borghese sembra aver lasciato pochi ricordi di sé. Per
questo Franco Moretti presenta questo suo ultimo libro – Il
borghese, uscito in inglese nel 2013 e ora proposto da Einaudi
nella traduzione di Giovanna Scocchera – come un’opera di
“ingegneria inversa” che nella letteratura cerca tracce di ciò
che non esiste più: il saggio, come sostiene l’autore, è una
sorta di catabasi, un itinerario in “un regno di ombre, dove il
passato riacquista la sua voce e continua a parlarci”.
“Ogni forma d’arte è definita
dalla dissonanza metafisica della vita”: come nel Romanzo di
formazione (1986) e in Opere mondo (1994), punto di
partenza di Moretti è ancora il giovane Lukács di Teoria del
romanzo (1920). L’assunto è che la cultura borghese sia
segnata da una profonda “dissonanza” tra gli imperativi di
giustizia, temperanza e laboriosità e la “struttura di potere”
celata dietro tali slanci. Il linguaggio letterario cercherebbe
disperatamente di ritrovare un equilibrio – la sua “vocazione più
profonda”, scrive Moretti, “sta nel forgiare compromessi tra
sistemi ideologici diversi” –, ma inavvertitamente porta allo
scoperto questa ambiguità. Il sottotitolo del volume, Tra storia
e letteratura, vuole indicare in questo senso sia il metodo di
lavoro sia l’obiettivo del saggio. Se le forme letterarie sono come
i “fossili” di un passato che un tempo è stato vivo, il loro
esame può far luce su dimensioni altrimenti inattingibili. Moretti
fa giocare dialetticamente close e distant reading: le
spie stilistiche sono nel suo saggio paradigmi indiziari, rivelatori
di fenomeni generali. La scommessa del libro è quella di provare che
lo studio della lingua letteraria possa avere il significato di una
ricerca sociale, e che proprio in questo stia “il suo possibile
contributo alla conoscenza storica”. Del resto, già nelle
Conjectures on World Literature (2000) si osservava come nelle
forme letterarie si condensassero tracce di strutture sociali;
nell’analisi linguistica, sarebbe possibile verificare le
variazioni più impercettibili che segnano continuità e
discontinuità nell’immaginario di un’epoca. Il linguaggio,
secondo la lezione di Reinhart Koselleck e di Raymond Williams, non è
soltanto un modo di rappresentare la realtà, ma un vero e proprio
fattore di cambiamento, “strumento”, nelle parole di Émile
Benveniste citate da Moretti, “per dare un assetto al mondo e alla
società”.
Le zone d’ombra della cultura
borghese
Da questa dialettica di lontano e
vicino deriva la struttura del libro, suddiviso in cinque capitoli
che seguono un percorso storico, e sono inframezzati dallo studio di
alcune parole chiave della cultura borghese: “utile”,
“efficienza”, “comfort”, “serio”, “influenza”,
“roba”. Dopo un’introduzione sul metodo di indagine impiegato,
il libro prende le mosse dal Robinson Crusoe (1719) di Defoe,
in cui Moretti vede la prima rappresentazione del passaggio weberiano
dall’“avventuriero capitalistico” al “padrone lavoratore”.
Nel secondo capitolo, rielaborazione di un saggio sul “secolo
serio” già pubblicato nel primo volume di Il romanzo
(2001), sono prese in esame le strategie retoriche con cui di alcuni
romanzi inglesi e francesi producono il proprio “effetto di
realtà”, intercalando il racconto con dei “riempitivi”, vale a
dire episodi narrativi di poco conto, che non avrebbero altro scopo
che produrre il “ritmo di continuità” essenziale alla
rappresentazione della quotidianità borghese. A questo punto, il
saggio si addentra nelle zone d’ombra della cultura borghese, che
rifiuta sistematicamente di autoriconoscersi come tale; l’indagine
di un vasto corpus di romanzi ottocenteschi mostra come le
attestazioni del termine “borghese” siano per quasi tutto
l’Ottocento sporadiche, ben più rare di definizioni come “ricco”,
“agiato”, “benestante”, quasi per distogliere sottilmente il
lettore da ogni possibile giudizio. Il discorso si sposta quindi
verso testi e zone geografiche ai margini della seconda rivoluzione
industriale – il Brasile di Memorie dall’aldilà (1881) di
Machado de Assis, la Sicilia di Mastro-don Gesualdo (1889) di
Verga, la Polonia di La bambola (1890) di Prus, la Spagna
della tetralogia di Torquemada (1889-96) di Pérez Galdós –,
laddove l’arrivo del progresso in contesti ancora preborghesi
esaspera le contraddizioni. Infine, l’ultimo capitolo è dedicato
al teatro di Ibsen, grazie al quale la cultura borghese farebbe
finalmente i conti con il suo essere anche “struttura di potere”:
“Ibsen è l’unico scrittore che guarda il borghese in faccia e
gli chiede: Allora, dopotutto, che cosa hai portato al mondo?”
Il vero protagonista del saggio è la
prosa, in quanto “ritmo della continuità”: “La prosa come lo
stile borghese per eccellenza, nel suo senso più ampio; un modo per
stare al mondo, non solo un modo per rappresentarlo”.
“Le minutiae della lingua
rivelano segreti che le grandi idee spesso mascherano: l’attrito
tra nuove aspirazioni e vecchie abitudini, le false partenze, le
esitazioni, i compromessi”, scrive Moretti. Il suo saggio esamina
le tracce letterarie della cultura borghese e delle sue ambiguità,
alternando osservazioni linguistiche sottili – per fare appena
qualche esempio: l’uso dei tempi verbali in Defoe; le storia delle
trasformazioni semantiche di parole come “industria”; la
connotazione morale che assumono coppie di parole formate da un
sostantivo concreto e un aggettivo astratto –, con analisi
statistiche e riflessioni sul dibattito storiografico e sociologico
sulla figura del borghese. Il vero protagonista del saggio, tuttavia,
è la prosa, in quanto “ritmo della continuità”: “La prosa
come lo stile borghese per eccellenza, nel suo senso più ampio; un
modo per stare al mondo, non solo un modo per rappresentarlo”. In
Illusioni perdute (1839) di Balzac, c’è un passo in cui il
giornale per cui sta per scrivere il protagonista si trova a corto di
argomenti e occorre buttare giù un articolo in fretta e furia.
Queste “parole scritte per colmare
uno spazio vuoto” sono immagine metaletteraria dell’espediente
retorico del “riempitivo”: come l’articolo, molti episodi dei
romanzi ottocenteschi non avrebbero una funzione strutturale
all’interno delle rispettive trame, essendo piuttosto un discorso
sul tempo. Come aveva già osservato Auerbach a proposito di Madame
Bovary (1857), ci sono scene in cui “non accade nulla di
straordinario. È un momento qualsiasi di un’ora che ritorna
regolarmente. Non accade nulla, ma il nulla è diventato qualche cosa
di pesante, di oscuro, di minaccioso”.
Fog, (nebbia), è la metafora che dà il titolo al capitolo sulle zone d’ombra della cultura borghese. Tra i romanzi che meglio descrivono la dissonanza borghese, c’è senz’altro Cuore di tenebra (1899) di Conrad. Quando all’inizio, sul Tamigi, rievoca il suo viaggio africano, Marlow osserva che la verità di un racconto è come l’alone soffuso di nebbia rivelato dalla luna. In risposta alla domanda di Ibsen alla borghesia – “che cosa hai portato al mondo?” – il romanzo offre una storia incontrovertibile: tra le imprese più redditizie del capitalismo fin-de-siècle c’era quanto di più abietto si potesse pensare. Eppure, una volta tornato a casa, Marlow, nel salotto borghese della fidanzata di Kurtz – le finestre alte, il camino, il pianoforte a coda –, non sa più ripetere ciò che ha visto: “La verità profonda rimane nascosta – per fortuna, per fortuna”.
Fog, (nebbia), è la metafora che dà il titolo al capitolo sulle zone d’ombra della cultura borghese. Tra i romanzi che meglio descrivono la dissonanza borghese, c’è senz’altro Cuore di tenebra (1899) di Conrad. Quando all’inizio, sul Tamigi, rievoca il suo viaggio africano, Marlow osserva che la verità di un racconto è come l’alone soffuso di nebbia rivelato dalla luna. In risposta alla domanda di Ibsen alla borghesia – “che cosa hai portato al mondo?” – il romanzo offre una storia incontrovertibile: tra le imprese più redditizie del capitalismo fin-de-siècle c’era quanto di più abietto si potesse pensare. Eppure, una volta tornato a casa, Marlow, nel salotto borghese della fidanzata di Kurtz – le finestre alte, il camino, il pianoforte a coda –, non sa più ripetere ciò che ha visto: “La verità profonda rimane nascosta – per fortuna, per fortuna”.
L'Indice, Maggio 2007
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