Riprendo un ampio
stralcio della recensione, sotto molti punti di vista eccellente, di
Salvatore Silvano Nigro alla recente riedizione per Adelphi (2017),
curata da Paolo Squillacioti, di A futura memoria,
l'ultimo libro di Leonardo Sciascia. Un elemento di dissenso riguarda
più Sciascia (ed E.A.Poe) che Nigro. La contrapposizione tra
matematica e poesia è sbagliata, come è sbagliato vedere nell'una o
nell'altra un più o un meno di intelligenza. Poesia e matematica
sono in realtà due forme distinte (ma assai simili) di intelligenza
e talora felicemente si accompagnano l'una all'altra. (S.L.L.)
Il monumento a Leonardo Sciascia a Racalmuto. Particolare |
A futura memoria (se
la memoria ha un futuro) è un libro estremo, terminale. Leonardo
Sciascia licenziò le bozze, senza neppure correggerle. Le scorse
soltanto. La data che appose all’Introduzione, «novembre 1989»,
non indicava il giorno. Non poteva. Sciascia era sul letto di morte.
Voleva che le carte, uscite dalle sue mani, fossero comunque segnate
dall’ormai prossima scomparsa del loro autore; e si affidassero
postume ai lettori, come un testamento. Era novembre. La morte arrivò
il 20. Il libro era stato lanciato oltre l’orizzonte, con la
speranza ultima che la «malafede» fanatica di quanti, tra
mascalzonate e patetismi sociologici, avevano tentato di screditare
l’impegno civile dello scrittore, non fosse intanto riuscita a
negare o a rendere corta la «memoria».
[...]
A futura memoria è
una raccolta di scritti polemici (su «certi delitti, certa
amministrazione della giustizia; e sulla mafia») pubblicati su
quotidiani e settimanali nell’arco di un decennio, dal 1979 al
1988. Sciascia auspicava che il libro venisse letto «con serenità».
Con quella serenità che di certo era mancata quando gli articoli
erano apparsi singolarmente, per la prima volta. Basti pensare al
celebre intervento intitolato I professionisti dell’antimafia
(«Corriere della Sera», 10 gennaio 1987) che, riletto oggi, nel
libro, senza la torbida e maligna seduttività della titolazione
redazionale, si stenta a credere che possa essere stato scambiato per
un subdolo attacco personale a uno dei massimi protagonisti della
lotta alla mafia; mentre oggi appare poco più che un ragionevole
articolo di denuncia della procedura (burocraticamente incoerente)
seguita per la promozione del giudice Borsellino al posto di
Procuratore della Repubblica a Marsala. A suo tempo si aprirono,
contro lo scrittore, le cateratte della «retorica nazionale».
Sciascia si sentì messo al bando, collocato ai margini della
«società civile». Reagì volterrianamente, con implacabile
intelligenza; e un (letteratissimo) sorriso sottotraccia. Chiamò
«imbecilli» i falsari del risentimento nazionale, associando
l’imbecillità (com’era solito) al «berretto di Charles Bovary»:
«Flaubert lo descrive per mezza pagina, ma a un certo punto, come
rendendosi conto della “indescrivibilità” dell’oggetto, si
ferma ad assomigliarlo alla faccia di un imbecille. Del resto – e
giustamente – l’imbecillità e gli imbecilli sono apparsi sempre,
a Gustave Flaubert, maledettamente complicati. L’intelligenza –
che come Poe ci insegna è meno mente matematica e più mente poetica
– è semplice e semplificante, produce il semplice e semplifica».
Al generale Dalla Chiesa
piaceva identificarsi con il capitano dei carabinieri del Giorno
della civetta di Sciascia, tanto da pensare che lo scrittore si
fosse ispirato a lui per tratteggiare figura e carattere del
personaggio letterario. Nulla di male. Era un nobile sentimento. Una
legittima illusione. A Sciascia però non si voleva riconoscere il
diritto di rivelare il soggetto vero della sua ispirazione, che era
sì un generale dei carabinieri ma si chiamava Renato Candida. Quando
il disvelamento accadde, l’episodio venne letto (ecco di nuovo un
caso di «complicazione» alla Flaubert) come un atto di bassa
delegittimazione del generale Dalla Chiesa, fra l’altro caduto in
un agguato mafioso a Palermo, insieme alla moglie e all’agente di
scorta; e come una delle possibili prove dell’«alleanza oggettiva»
di Sciascia con le potenze eversive contro le quali diceva di
schierarsi: «Non molti anni fa, a rendere impronunciabili certe
verità, si diceva che facevano il gioco di qualcuno o di qualcosa
che bisognava invece combattere; oggi l’interdetto sulle verità
cade con l’espressione di “alleanza oggettiva”. Ricatto
insopportabile e che non sopporto», scriveva Sciascia.
È con il nome di Candida
che si chiude A futura memoria: «E infine, quel che i lettori
si aspettano che io dica: non solo per Il giorno della civetta, ma
per ogni mio racconto in cui c’è il personaggio di un
investigatore, la figura e gli intendimenti di Renato Candida, la sua
esperienza, il suo agire, più o meno vagamente mi si sono presentati
alla memoria, all’immaginazione». Del resto Candida «aveva
scritto sulla mafia un libro che precorre di trentadue anni, rompendo
il silenzio che le istituzioni e gli uomini che le rappresentavano
rigorosamente mantenevano, quella volontà di abbatterla che oggi
sembra anche diffondersi, oltre che nella coscienza degli italiani,
nelle istituzioni». Di questo libro Sciascia, tra l’agosto e
l’ottobre del 1956, discusse a lungo con l’editore Vito Laterza
in un manipolo di lettere che non sono state accolte nel recente
carteggio Sciascia-Laterza, L’invenzione di Regalpetra
(Editore Laterza, Introduzione di Tullio De Mauro, 2016). Vale la
pena trascrivere almeno la prima di queste lettere inedite datata 9
agosto 1956: «Caro Dr. Laterza, (…) un maggiore dei carabinieri,
pugliese, comandante dei gruppi di Agrigento, lavora a un saggio
sulla mafia nell’agrigentino che ritengo possa riuscire di grande
interesse. Il lavoro è destinato, per trattative intercorse, a
Sciascia editore: ma io, senza mancare di lealtà verso Salvatore
Sciascia, vedrei meglio il saggio nei Suoi Libri del tempo. Debbo
farLe presente che il maggiore scrive… correntemente. Ma è la
materia che è interessantissima, e rivela un mondo anche per me
sconosciuto. Se riuscissi a convincere Sciascia a rinunciare alla
pubblicazione del libro (rinuncia che sarebbe salutare per lui,
stante che opera in una città [Caltanissetta] che è focolaio di
mafia), Lei sarebbe disposto, in linea di massima ad accettarlo? – Io,
ma con discrezione, cercherei di mettere mano nella definitiva
stesura del saggio».
La mafia, il pentitismo,
i cadaveri eccellenti, l’ingiusta detenzione, l’errore
giudiziario sono i temi terribili (per la coscienza, la civiltà, la
politica, la storia) che Sciascia affronta in questo libello. La sua
prosa è tersa, inquieta nella sintassi che si avvolge e si districa
per accerchiare infine, con fulminante esattezza, il punto cieco nel
quale si annida lo scandalo della ragione. Gli articoli si concedono
diversioni aneddotiche, racconti brevi, minimi: l’osservazione
degli eventi è per lo più filtrata da varie suggestioni letterarie.
Il libro va letto anche come reinvenzione della scelta corsara della
polemica civile, con la consapevolezza che essa sempre e comunque
appartiene alla letteratura. Può capitare talvolta che le
conclusioni di Sciascia (ed è il caso del “suicidio” di Calvi)
non siano più condivisibili (dopo anni e nuove acquisizioni). Poco
importa. Voltaire si sbagliò sul caso Calas. Ma scrisse quel
capolavoro che si chiama Trattato della tolleranza. Ce lo
ricorda lo stesso Sciascia.
Fra gli aneddoti
piacevoli intramati nel libro, uno, evocato a proposito della
inespugnabilità della prosa burocratica, è spendibile nel dibattito
in corso sull’uso della lingua italiana nella nostra scuola:
«Quando io andavo a scuola, e la scuola già appariva abbastanza
malandata (ma davvero c’è stato un tempo in cui andava bene?), si
raccontava l’aneddoto di quella commissione d’esami in cui,
interrogato in storia, il candidato dice a un certo punto: «i galli
hanno sceso per le Alpi». Al che il professore di lettere dolcemente
osserva: “se si potrebbe dire”, così suscitando l’indignazione
del presidente, che esclama: “dove abbiamo giunto”». Anche la
questione linguistica faceva e continua a far parte della questione
civile.
“Il Sole 24 Ore
Domenica”, 28 marzo 2017
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