Sono stato proprietario
di una sola automobile, in vita mia. Era una Fiat 500 L, bianca,
targata PZ58517. La comprai nel 1971 per necessità. Fino a quel
momento avrei giurato che nel corso dell’esistenza non mi sarei
concesso lussi di nessun genere. Fu il mio primo cedimento. Invece,
mentre Allende concepiva il proposito di nazionalizzare le miniere
cilene, io, che facevo l’insegnante e guadagnavo centocinquantamila
lire al mese con moglie e figli a carico, decisi di acquistare una
Cinquecento, che costava settecentomila e passa. Abitavo a Viggiano e
insegnavo nella locale sezione staccata del liceo classico «Quinto
Orazio Flacco» di Potenza. Viggiano è un bel posto in cima a una
montagna, all’inboccatura della valle dell’Agri: un eden. La
gente si spostava per l’eden o a dorso di mulo o in automobile.
Dopo molti tentennamenti,
optai per l’automobile. Prima di firmare cambiali, pensai a lungo:
sono pazzo, che sto facendo?
La Cinquecento mi era già
molto familiare. Era stata la prima vettura in uso nella mia famiglia
di appiedati, alla fine degli anni cinquanta. Riuscivamo a entrarci
in sette: padre, madre, cinque figli. Era resistente. L’oblò
posteriore, incorporato nella capote, era plastificato. Temevamo
sempre che la carrozzeria si ammaccasse, il motore si rompesse,
dissipassimo i nostri risparmi. Ma eravamo fieri del numero
spropositato di chilometri che faceva con un solo litro di benzina.
Solo mio padre era un poco amareggiato perché ci sorpassavano tutti.
Una volta una grossa pietra riuscì a incastrarsi tra ruota e
parafango e l’auto non si mosse più. Un marinaio americano di
passaggio sollevò la nostra automobile da solo e la scosse. Tememmo
che ce la rompesse; invece la liberò del sasso. Per anni ho pensato
che l’impresa del marinaio fosse stata una cosa da film. Ma quando
divenni proprietario di Cinquecento, scoprii che la poteva sollevare
chiunque.
Acquistai l’auto da un
concessionario di Potenza. Mi convinse a non prendere la «nuova
cinquecento», quella «normal». Volle che preferissi quella
«special» categoria L. «L» stava per lusso e avere la Cinquecento
L. dava al proprietario un’aura che la «normal» non gli dava.
Decisi che se avevo fatto trenta potevo fare trentuno. Pensai che i
miei alunni avrebbero sghignazzato di meno, se mi avessero visto in
Cinquecento L. Poi mi accorsi che la L aveva solo certi tubicini
arrotolati ai lati del parafango anteriore e di quello posteriore. Ma
ormai l’acquisto era fatto.
Avevo preso la patente in
età avanzata, a ventisette anni, ma al primo colpo, senza ripetere
l’esame. Era stato un grave errore degli esaminatori di Viggiano,
che avevano pensato che, se uno fa il professore, presto o tardi
impara anche a guidare. Falso. Sebbene professore e patentato, non
sapevo guidare, non so guidare, non guidavo volentieri, non guido
volentieri. Avevo optato per la Cinquecento anche perché avevo
pensato che, essendo piccola, doveva essere anche un marchingegno
semplice. Invece amici e parenti si affrettarono subito a spiegarmi
che la Cinquecento era la macchina più difficile da portare. Se uno
riusciva a giostrare con quella, poteva guidare un aereo.
La cosa più complicata
da fare era la «doppietta». Fratelli, cognati, cugini erano tutti
professori in materia. Mi fecero schemi chiari di tutte le
operazioni, sia oralmente che per iscritto. Dunque. Il cambio non era
sincronizzato. Per passare da una marcia all’altra, bisognava in
pochi secondi: a) abbassare la frizione; b) portare il cambio a
folle; c) dare un bel colpo di accelleratore; d) ingranare la marcia;
e) togliere il piede dalla frizione. Io a stento sapevo dov’erano i
pedali. Quando la macchina cominciava a muoversi, ero vinto da un
tale incantamento, che quel poco che avevo imparato lo dimenticavo.
Già mi era difficile pensare che potessi fare qualcosa coi piedi
alla cieca, senza gettare uno sguardo sotto lo sterzo. Figuriamoci se
ero in grado di fare velocemente tutte quelle operazioni da ballerino
di tip tap, tra l’altro con l’auto in movimento. La folla dei
miei insegnanti diradò. Pochi abbandonarono gli schemini e si
imbarcarono in una lezione pratica. Quei pochi non passarono mai a
una seconda lezione, ma diedero per spacciata l’automobile e me, e
sparirono. Grattavo. Rovinavo il cambio. Agghiacciavo il sangue nelle
vene dell’autista provetto. In curva, quando scalavo le marce,
rischiavo sempre di finire fuori strada per colpa della «doppia».
Una volta ci sono finito sul serio, con qualche danno. Alla fine
l’auto si abituò a scalare le marce con un’impennata, un raschio
e un tonfo da pugno al torace.
E misteriosamente
sopravvisse.
Non mi ricordavo che
mettersi in Cinquecento significava sedersi per terra. Quando mi
infilavo sul «sedile» posteriore di quella di mio padre, ero un
ragazzino e tutto mi pareva accettabile. Ma nel 1971 ero altro un
metro e ottantasette. Sedersi al posto di guida era inabissarsi.
Calavo su un sedile rosso, incastravo le gambe sotto il cruscotto,
impugnavo un cerchietto meschino di colore beige collocato a pochi
centimetri dallo sterno (era il volante), sistemavo il cranio contro
la stoffa della capote, che in poco tempo si era arcuata secondo la
forma della testa. Così accomodato, persone e oggetti diventavano di
proporzioni enormi. Regolavo con cura lo specchietto retrovisore,
anche se dall’oblò posteriore non si vedeva niente, specialmente
quando qualcuno andava a soffrire sul «sedile» di dietro. E
partivo. D’inverno il vetro era sempre appannato. Con una mano
tenevo il volante e con l’altra davo colpi di pezzuola. Viaggiavo
alla cieca. E infine: come mi sgomitolassi dall’auto era una cosa a
cui i miei alunni assistevano con sempre meno entusiasmo.
I viaggi fuori della Val
d’Agri erano avventurosi, in particolare nella cattiva stagione. La
pioggia e il freddo rendevano la visibilità zero. Il riscaldamento
era assicurato da una levetta a terra, alle spalle del guidatore.
Faceva una puzza da stroncare lo stomaco. Le volte che altre auto più
potenti, targate Pz, mi sorpassavano tra nebbia e vento, su per le
montagne, strombazzavano con entusiasmo. In seguito scoprii che i
claxon servivano a festeggiare incontri veloci tra compaesani. Ma,
date le condizioni di guida, per un po’ pensai che incoraggiassero
la mia audacia.
Il godimento del rischio
era assicurato soprattutto sull’autostrada del sole, tratto
Contursi-Polla. La Cinquecento era un’auto resistente, che una
volta avviata rasentava gli 80 senza disinvoltura, con un rombo
assordante di motore allo stremo. Vibrava la carrozzeria, cigolava
ogni bullone, a ogni lieve asperità dell’asfalto rischiavo di
bucare col cranio il telo della capote. Ma la vettura svelava una sua
eroica capacità di tenuta.
L’essenziale era non
finire dietro un camion. Allora occorreva rallentare, perdeva energia
e per riprendersi ce ne voleva. Sicché mi concedevo qualche sorpasso
di automezzo con rimorchio, di quelli sovraccarichi e lenti: non
conoscevo altra necessità di sorpasso. Il peggio era quando mi
vedevo costretto a superarli sui viadotti nei giorni di pioggia e di
vento. Si sa che i camion hanno enormi ruote, ma la loro mostruosità
è visibile a pieno solo dall’interno di una Cinquecento in fase di
sorpasso. Con l’acceleratore pestato fino in fondo, sotto le
raffiche di vento che spingevano l’auto contro la fiancata del
camion, con l’acqua mista a fango sollevato dalle gomme enormi fino
a polverizzarsi nell’aria e sbattere insieme alla pioggia contro il
vetro come una serie di sferzanti secchiate, cercavo di portare a
termine sorpassi eterni, fianco a fianco per chilometri con camion
cocciuti, i denti stretti che sembravano non solo trattenere la vita
a rischio, ma anche la carrozzeria, i pistoni. Invocavo non Agnelli,
nel quale non avevo alcuna fiducia, ma le ombre degli operai. E
speravo che, malgrado lo sfruttamento, avessero avvitato bulloni con
coscienza. Auspicavo che salvassero le vite dei miei figli e non
facessero ai miei alunni il dono del mio cadavere.
Non sono morto. E
malgrado tutto, penso alla Cinquecento con affetto. I rischi corsi
insieme alla fine avevano creato un certo affiatamento. Qualche volta
cedeva, è vero. Una domenica d’inverno mi lasciò poco dopo
Contursi con i giunti spaccati, sotto la neve. E un’altra volta,
d’estate, si spezzò la cinghia della ventola nel deserto sotto S.
Chirico Raparo, tra Viggiano e Policoro. Me la cavai tutt’e due le
volte. Le cose cominciarono a peggiorare solo alla fine degli anni
70, quando fui trasferito in un centro urbano di cospicue
proporzioni. Allora scoprii che i ladri l’amavano. Non tutta: a
pezzi. Forzavano il deflettore, ma più spesso, tagliavano la capote
con taglio a forma di sette. Nel 1977 mi portarono via i sedili. Per
settimane, fino a quando non trovai da sostituirli presso uno
sfasciacarrozze, guidai seduto su un secchio «Moplen» rovesciato
che tenevo ben fisso al pavimento facendo pressione con la testa
contro la capote.
Alla fine me la rubarono per intero. La ritrovai in un rugginoso obitorio per veicoli, dove la polizia l’aveva depositata. C’era solo la carcassa. Pagai centomila lire perché un killer con canottiera e catena d’oro massiccio al collo la maciullasse definitivamente.
Alla fine me la rubarono per intero. La ritrovai in un rugginoso obitorio per veicoli, dove la polizia l’aveva depositata. C’era solo la carcassa. Pagai centomila lire perché un killer con canottiera e catena d’oro massiccio al collo la maciullasse definitivamente.
"il manifesto", 28 aprile 1990
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