Prima di Pasqua, davanti
al mio liceo, sono comparsi due ragazzi poco più grandi dei miei
studenti a distribuire volantini. Pur in assenza del simbolo di
quell'associazione, non ci ho messo molto a capire che quel volantino
era prodotto da un gruppo giovanile legato a Casa Pound, che nella
città in cui insegno ha da poco aperto una sede, presto seguita da
Forza Nuova. Il volantino aveva carattere “tecnico” e prendeva
posizione su questioni scolastiche come il contributo cosiddetto
volontario dei genitori, la rappresentatività degli studenti, i
libri di testo, ma era improntato anche alla retorica del primo
fascismo movimentista («Giovinezza al potere», «Siamo nazionalisti
e rivoluzionari»). Ero abbastanza convinto che il diffuso
disinteresse verso la politica da parte degli studenti avrebbe
abbondantemente depotenziato l'effetto di quel volantinaggio;
tuttavia fiutavo il rischio e ho deciso di intervenire, parlandone
nelle due classi con cui avrei avuto lezione quella mattina.
Quando, nella prima di
queste due classi, ho lasciato spazio al dibattito fra gli studenti –
che, ho premesso, era assolutamente libero, nessuna opinione era
vietata – si è scoperchiato il vaso di Pandora. Era mia intenzione
lasciare il reciproco contraddittorio ai ragazzi, riservandomi il
ruolo di moderatore. Ma il contraddittorio fra pari non c'è
praticamente stato, a parte quello di due studentesse, presto
ammutolite dalla schiacciante maggioranza. È emersa un'unica voce,
sebbene intonata su registri diversi: ma a questo punto il volantino
di Casa Pound era ormai diventato solo un pretesto, perché
l'argomento che stava a cuore a tutti era quello del rapporto tra
“noi” e “loro”, ovvero la paura dell'immigrazione.
Ecco un piccolo
campionario di opinioni: c'era chi manifestava esplicita avversione
per gli stranieri, con toni quasi di ripugnanza; chi riteneva che
solo l'Italia non sia in grado di respingere quest'invasione e che
per contrastarla ci vorrebbero un muro o la chiusura delle frontiere;
chi interpretava le bombe di Trump sulla Siria come parte di una
strategia solidale con quella di Putin e volta a fermare
l'immigrazione verso le nostre coste; chi manifestava irritazione per
gli smartphone dei profughi e il loro “star lì a non fare nulla”;
chi sosteneva che data la crisi economica non possiamo pensare anche
agli stranieri; chi, pur dichiarandosi aperto alla loro presenza,
chiedeva pari norme per tutti, raccontando l'episodio di una multa
data a un terzetto di adolescenti siriani senza biglietto e la
successiva accusa di “razzismo” ai controllori da parte del
padre. C'era chi, infine, ha raccontato: «Io sono sempre stata per
il rispetto verso tutti. Ma da quando mia nonna è stata derubata da
uno straniero, penso che se deve fare del male a una persona cui
voglio bene, può pure tornare nel suo paese», non riuscendo a
continuare per un accesso di pianto.
Nell'altra classe, con
studenti di due anni più grandi, il dibattito è incorso meno spesso
in formulazioni generiche ed è stato più adulto, ma il sentimento
largamente dominante era lo stesso. Vale la pena aggiungere due
dettagli. Questa classe aveva già incontrato faccia a faccia dei
profughi per ascoltare la loro esperienza di vita ed era stata
coinvolta in un progetto sulla percezione dell'immigrazione e della
diversità, che consisteva in due parti: un gioco di ruolo con
attori, nel quale gli studenti erano messi nelle condizioni di un
immigrato appena sbarcato in Italia, sballottato tra voci stranieri,
ordini incomprensibili, esibizione di documenti, schedature; una
riflessione sul concetto di razza fondato sulla dissonanza cognitiva
di trovarsi di fronte a decine e decine di visi da classificare sulla
base di categorie come “bianchi”, “neri”, “orientali”,
che dimostrava quanto questa classificazione fosse difficile, dunque
arbitraria.
Questi i fatti. La
riflessione che segue è molto mesta. Mi rendo conto che dovrei
proporre anche delle soluzioni. Ma al di là del fatto che per
queste, se seriamente affrontate, dovrei scrivere un intero altro
articolo, credo che prima di arrivare al che fare, sia necessario
guardare in faccia, senza infingimenti e illusioni, la realtà.
Ipotesi di lavoro
Razionalmente ho già
preso atto da tempo della deriva demagogica e della brutale
semplificazione del dibattito politico nelle società occidentali, ma
quanto successo con i miei studenti mi ha messo di fronte al problema
con un'urgenza emotiva e personale che non avevo mai provato. La
deriva era lì davanti ai miei occhi, ma non mi ero mai accorto che
avesse queste dimensioni: e stava nascosta nelle pieghe dell'animo di
adolescenti con cui lavoro ogni giorno, che sono ragazzi e ragazze
intelligenti, simpatici, curiosi.
La mia ipotesi di lavoro
è, se si vuole, semplicistica, ma necessaria: i miei studenti non
hanno alcuna colpa, non meritano alcuna etichetta, per due ragioni.
Da un punto di vista educativo, bisogna sempre ricordare il principio
che chi insegna fa il fuoco con la legna che ha: se i miei studenti
hanno paura dell'immigrazione e esprimono queste opinioni, io non
posso limitarmi a sovrapporre a queste opinioni altre più “decenti”,
ma devo farmene carico, assumerle come punto di partenza, perché
un'eventuale loro trasformazione non può che passare di qui. A
scuola non si enunciano principi giusti, si cerca di fornire gli
strumenti per arrivare a comprenderli, se ci si riesce.
In secondo luogo, come
sappiamo da un celebre e sempre ristampato libro, il male è banale:
la Storia ci trascina tutti, più di quanto non siamo noi a farla.
Quanto le opinioni dei miei studenti sono “loro”? Quanto tutte le
opinioni che ciascuno di noi esprime ogni giorno sono “nostre”?
Ogni persona costruisce il proprio sapere e la propria stessa
identità a partire dalle possibilità di comprensione del mondo e di
realizzazione nel mondo che la sua epoca gli mette a disposizione,
quindi è su ciò che ci circonda che dobbiamo appuntare lo sguardo.
La paura e il
degrado della comunicazione pubblica
Nel linguaggio dei miei
studenti si coglievano brani di quel chiacchiericcio scomposto cui è
ormai ridotta la comunicazione pubblica. Per dare (e darsi) ragione
della propria paura, essi usavano quel linguaggio, che ci abita
tutti. Questo linguaggio ha alcune caratteristiche.
1)
Referenzialità blanda. La quantità di “realtà” che
dal mondo entra dentro le nostre teste è ormai enorme: immagini dai
quattro angoli del globo e oltre, fatti lontani, opinioni,
lontanissime anch'esse, su quei fatti. Tutto a disposizione sui
nostri schermi. Ma quasi nessuna di queste informazioni ha davvero a
che fare concretamente con la nostra esperienza (fisica e
psicologica), sono solo simulacri di realtà. Parole come “guerra
in Siria”, “Isis”, “attentati” hanno un significato
vaghissimo per la maggior parte di noi, non fanno riferimento a
nessuna referente concreto, a nessuna “cosa” che si possa
toccare, vedere, udire. Ma ci minacciano, ci aggrediscono. A causa di
questa blanda referenzialità, il mondo che si proietta nella nostra
mente è confuso e in esso tutto è uguale a tutto: arabo e
mussulmano sono la stessa cosa, profugo e immigrato anche, Islam e
Isis non meno, ecc... Tra parole e cose lo iato non è mai stato così
ampio.
2)
Emotività incontrollata. L'uso emotivo del
linguaggio (dai pianti in tv, alle urla dei dibattiti, alle metafore
politiche aggressive, alla volontà di scioccare) sopravanza
qualsiasi altro uso. Il modello è quello della pubblicità: la
comunicazione politica e giornalistica ormai stingono sempre di più
sulle forme linguistiche dello spot. Ogni parola è parola di
seduzione e cerca di insinuarsi nelle viscere, più che nel cervello.
3)
Frammentazione e velocità. Le informazioni ci
arrivano a pezzetti, e non abbiamo il tempo e le capacità per
ricostruire il puzzle. I nessi logici fra di esse sono debolissimi o
assenti. Il contenuto emotivo delle informazioni prevale su quello
referenziale e razionale anche per questo. Tutto è gridato e ci
viene schizzato addosso senza filtri come se fossimo sotto un
bombardamento costante, e di bombe a deframmentazione.
4)
Decontestualizzazione. Un'informazione, ma anche un
concetto, hanno senso, più che in sé, per il contesto nel quale
sono collocati. Senza contesto, saranno altri tipi di schemi
ricorrenti o contesti artificialmente presi in prestito a fornire lo
sfondo sul quale interpretare. Se un atto come il bombardamento in
Siria deciso da Trump era addirittura diventato una decisione presa
per contrastare l'immigrazione e in sintonia Putin (quando l'atto,
semmai, segna una distanza tra Usa e Russia, e di certo
l'immigrazione non c'entra nulla) è perché per comprendere,
contestualizzare, questi eventi politici – in effetti molto
complessi – bisognerebbe possedere una quantità di conoscenze ben
integrate fra loro che la maggior parte di noi non ha e che è anche
difficile reperire nell'attuale caos. Così l'unico schema
interpretativo dentro cui collocare quel bombardamento diventa uno
schema sintetico, elementare, quasi favolistico: i due eroi che
ristabiliscono l'ordine.
Il tessuto connettivo di
senso che sosteneva le intelligenze individuali, fatto dalla cultura
umanistica, da quella scientifica, dalle culture politiche, dalla
religione, è esploso. Anche la “religione civile”
dell'appartenenza alla polis, come dimostra il picco negativo della
partecipazione politica, viene meno.
Questo è il mondo in cui
viviamo. Questa è la società dell'informazione in cui ci
acculturiamo e che dà forma ai nostri pensieri. Le opinioni diffuse
dei miei studenti a questo punto diventano meno stupefacenti. Sono
opinioni semplicistiche, immediate, prive di rielaborazione. Ma non
potrebbe essere diversamente.
Sì, ma c'è la
scuola
C'è una risposta facile,
consolatoria, a tutto questo: è la retorica dell'alterità della
scuola. La scuola sarebbe uno spazio protetto, o l'unico e l'ultimo
spazio in cui difendere un'idea di cultura e di civiltà. Questa
risposta sopravvaluta la nostra resilienza all'influenza della
società, di cui rappresentiamo solo una piccola parte. Possiamo e
dobbiamo puntare alto, essere utopisti, ma non possiamo confondere la
scommessa dell'utopia con l'effettiva dinamica sociale. La scuola non
crea la realtà: può al massimo modificare in parte quella che le è
offerta.
Prendiamo solo un aspetto
di questa retorica dell'alterità della scuola, l'idea che la cultura
fornisca capacità di pensiero critico e quindi capacità di
demistificazione dei mille messaggi falsi che circolano. C'è un
punto di rottura, dato dalla quantità di menzogne o semplificazioni
che si è in grado di rielaborare, oltre il quale l'esercizio di
decodifica e interpretazione diventa una lotta contro i mulini a
vento.
Ho detto che una delle
mie classi aveva già affrontato percorsi sul tema della diversità e
dell'immigrazione. Ma né l'incontro coi profughi, ovvero il
confronto diretto, scottante e commovente con la realtà, né il
gioco di immedesimazione e la dissonanza cognitiva hanno funzionato.
Gli strumenti tanto decantati della didattica attiva hanno fallito. E
stiamo parlando di esperienze già piuttosto raffinate. Di solito
temi come quello della diversità vengono affrontati in forme
pedagogizzanti e moralistiche. Non è un'accusa alla buona volontà
di chi quei progetti li mette in campo. È la constatazione
dell'impotenza dell'unico strumento che abbiamo a scuola, la parola.
Parole e significati
Dobbiamo adottare una
logica radicalmente pragmatica per guardare alla comunicazione. Una
parola non ha senso in sé: ha il senso che le dà il contesto. Per
le parole scambiate a scuola questo contesto è rappresentato dalla
società.
La scuola, per statuto e
compito sociale, mette sempre nelle proprie parole una precisa
intenzionalità pedagogica (attenzione: che il singolo insegnante lo
voglia o no. Sono il luogo stesso e i suoi rituali che danno questa
curvatura alla nostra comunicazione). Quell'intenzionalità può
essere così espressa: “quello che ti sto dicendo, che stai
leggendo, che stai ascoltando ... ti migliorerà”. Immaginiamo che
l'argomento affrontato sia la poesia d'amore. Lo studente sarà ben
disposto a lasciarsi “migliorare”, perché la nostra società ha
una grande attenzione verso la conoscenza psicologica, i rapporti
personali, i sentimenti, la cura di sé. Ma se il tema è
l'immigrazione e nella società quel tema è diventato il precipitato
stesso della paura, l'intenzionalità pedagogica della scuola
produrrà la ben nota reazione di rigetto verso il “buonismo”. Al
livello pubblico magari lo studente farà buon viso a cattivo gioco,
per non perdere la reputazione, ma, intimamente, non si lascerà
“migliorare” in alcun modo.
Naturalmente non sto
dicendo che solo temi “individualistici” possano avere buona
accoglienza. Ma è vero, quanto meno, che tutti i temi che si
propongano esplicitamente come politici o civici, sono delicati. Di
norma, chi è già convinto della bontà del messaggio di civiltà lo
accoglie senza problemi, chi non condivide il punto di vista
dell'insegnante o quello, che sente “politicamente corretto”,
dell'istituzione scolastica, fa resistenza silenziosa. In un certo
senso possiamo parlare con efficacia di certe cose solo a chi ne è
già convinto.
È anche molto difficile
individuare lo “specifico della paura”. I miei studenti – ne
sono certo – non hanno problemi a dichiararsi contrari alla
classificazione degli esseri umani sulla base della razza, sanno che
non funziona. Quindi non si può dire, in effetti, che il laboratorio
sulla percezione dell'alterità sia stato inutile. Solo, ha agito
soltanto a livello razionale, non è stato in grado di arrivare al
cuore della paura. E chissà dove sta, questo cuore.
A volte ironizziamo sulla
frase «non sono razzista, ma...», ma in effetti essa è il chiaro
sintomo di un tentativo di compromesso psicologico fra tendenze
opposte che ci abitano: so benissimo che le razze non esistono, so
che non si deve condannare qualcuno pregiudizialmente perché
appartiene a una certa etnia o cultura, ma di fronte alla presenza
concreta dell'altro, in condizioni percepite di “competizione”
(per il lavoro, la sicurezza, ecc...), la paura emerge da altri
canali che non sono quelli delle convinzioni razionali. Così esprimo
la mia paura mettendo le mani avanti, facendo distinzioni che possono
apparire logicamente capziose, ma che sono psicologicamente
spiegabilissime.
Ormai più di un
esperimento psicologico ha confermato che nessun dato, nessun
ragionamento fondato su riscontri positivi, nessuna autorità
scientifica, è in grado di convincere chi non voglia essere convinto
(che una notizia sia una bufala o che i vaccini non causino
l'autismo). Ma già Schopenauer sapeva benissimo che l'uomo prima
aderisce prerazionalmente a una tesi, poi costruisce intorno a quella
un'armatura argomentativa. Si capisce, quindi, che quanto più paure
irrazionali e dicerie vaghe si diffondono nella società, tanto più
la scuola sarà impotente, perché noi agiamo prevalentemente sul
piano razionale e discorsivo, non su quello inconscio.
Troppe parole,
nessun senso
C'è un piccolo aneddoto
che può aiutarci a capire, in conclusione, su quale pericoloso
crinale ci troviamo.
Su un tema centrale
nell'educazione come quello della Shoah, la produzione industriale di
film e libri ha generato una vera e propria spettacolarizzazione pop,
che ha finito per trasformare il racconto di una tragedia storica in
un forma di consumismo della memoria.
In una prima superiore i
ragazzi pensavano di sapere molto su questo argomento, perché ne
avevano sentito parlare spesso, avevano letto libri, visto film,
qualcuno aveva anche fatto un laboratorio specifico nella scuola
media. Ma interrogati su fatti elementari della persecuzione razziale
degli ebrei, avevano idee che dire confuse è eufemistico. Non era
chiaro perché si fosse scatenata una persecuzione, né quali tappe
essenziali essa avesse percorso; persino il luogo-simbolo stesso
dello sterminio, Auschwitz, era confuso in una nebbia indistinta. Per
loro la Shoah era soprattutto un bambino con il pigiama a righe, non
la Storia: i fatti e la loro concretezza drammatica avevano perso
ogni consistenza. Anzi, molti dicevano di essere pure un po' stufi:
avrebbero voluto parlare d'altro, basta con 'sta storia degli ebrei,
che si ripete puntualmente ogni anno.
La morale è evidente: se
il contesto sociale, mentale, linguistico sul quale noi depositiamo
le nostre parole è questo, esse perdono ogni valore, ogni senso
preciso, ogni forza morale. Di storia, di letteratura, di scienza
parliamo, anche molto, ma la storia, la letteratura, la scienza, non
arriviamo a farle conoscere. Rischiamo, anzi, di produrre un senso di
sazietà paradossale: sappiamo tutto di tutto, quindi basta. In
verità, non sappiamo niente.
Dal sito “La
letteratura e noi”, 25 aprile 2017
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