14.5.17

A scuola. Il mio impotente 25 aprile (Daniele Lo Vetere)

Prima di Pasqua, davanti al mio liceo, sono comparsi due ragazzi poco più grandi dei miei studenti a distribuire volantini. Pur in assenza del simbolo di quell'associazione, non ci ho messo molto a capire che quel volantino era prodotto da un gruppo giovanile legato a Casa Pound, che nella città in cui insegno ha da poco aperto una sede, presto seguita da Forza Nuova. Il volantino aveva carattere “tecnico” e prendeva posizione su questioni scolastiche come il contributo cosiddetto volontario dei genitori, la rappresentatività degli studenti, i libri di testo, ma era improntato anche alla retorica del primo fascismo movimentista («Giovinezza al potere», «Siamo nazionalisti e rivoluzionari»). Ero abbastanza convinto che il diffuso disinteresse verso la politica da parte degli studenti avrebbe abbondantemente depotenziato l'effetto di quel volantinaggio; tuttavia fiutavo il rischio e ho deciso di intervenire, parlandone nelle due classi con cui avrei avuto lezione quella mattina.
Quando, nella prima di queste due classi, ho lasciato spazio al dibattito fra gli studenti – che, ho premesso, era assolutamente libero, nessuna opinione era vietata – si è scoperchiato il vaso di Pandora. Era mia intenzione lasciare il reciproco contraddittorio ai ragazzi, riservandomi il ruolo di moderatore. Ma il contraddittorio fra pari non c'è praticamente stato, a parte quello di due studentesse, presto ammutolite dalla schiacciante maggioranza. È emersa un'unica voce, sebbene intonata su registri diversi: ma a questo punto il volantino di Casa Pound era ormai diventato solo un pretesto, perché l'argomento che stava a cuore a tutti era quello del rapporto tra “noi” e “loro”, ovvero la paura dell'immigrazione.
Ecco un piccolo campionario di opinioni: c'era chi manifestava esplicita avversione per gli stranieri, con toni quasi di ripugnanza; chi riteneva che solo l'Italia non sia in grado di respingere quest'invasione e che per contrastarla ci vorrebbero un muro o la chiusura delle frontiere; chi interpretava le bombe di Trump sulla Siria come parte di una strategia solidale con quella di Putin e volta a fermare l'immigrazione verso le nostre coste; chi manifestava irritazione per gli smartphone dei profughi e il loro “star lì a non fare nulla”; chi sosteneva che data la crisi economica non possiamo pensare anche agli stranieri; chi, pur dichiarandosi aperto alla loro presenza, chiedeva pari norme per tutti, raccontando l'episodio di una multa data a un terzetto di adolescenti siriani senza biglietto e la successiva accusa di “razzismo” ai controllori da parte del padre. C'era chi, infine, ha raccontato: «Io sono sempre stata per il rispetto verso tutti. Ma da quando mia nonna è stata derubata da uno straniero, penso che se deve fare del male a una persona cui voglio bene, può pure tornare nel suo paese», non riuscendo a continuare per un accesso di pianto.
Nell'altra classe, con studenti di due anni più grandi, il dibattito è incorso meno spesso in formulazioni generiche ed è stato più adulto, ma il sentimento largamente dominante era lo stesso. Vale la pena aggiungere due dettagli. Questa classe aveva già incontrato faccia a faccia dei profughi per ascoltare la loro esperienza di vita ed era stata coinvolta in un progetto sulla percezione dell'immigrazione e della diversità, che consisteva in due parti: un gioco di ruolo con attori, nel quale gli studenti erano messi nelle condizioni di un immigrato appena sbarcato in Italia, sballottato tra voci stranieri, ordini incomprensibili, esibizione di documenti, schedature; una riflessione sul concetto di razza fondato sulla dissonanza cognitiva di trovarsi di fronte a decine e decine di visi da classificare sulla base di categorie come “bianchi”, “neri”, “orientali”, che dimostrava quanto questa classificazione fosse difficile, dunque arbitraria.
Questi i fatti. La riflessione che segue è molto mesta. Mi rendo conto che dovrei proporre anche delle soluzioni. Ma al di là del fatto che per queste, se seriamente affrontate, dovrei scrivere un intero altro articolo, credo che prima di arrivare al che fare, sia necessario guardare in faccia, senza infingimenti e illusioni, la realtà.

Ipotesi di lavoro
Razionalmente ho già preso atto da tempo della deriva demagogica e della brutale semplificazione del dibattito politico nelle società occidentali, ma quanto successo con i miei studenti mi ha messo di fronte al problema con un'urgenza emotiva e personale che non avevo mai provato. La deriva era lì davanti ai miei occhi, ma non mi ero mai accorto che avesse queste dimensioni: e stava nascosta nelle pieghe dell'animo di adolescenti con cui lavoro ogni giorno, che sono ragazzi e ragazze intelligenti, simpatici, curiosi.
La mia ipotesi di lavoro è, se si vuole, semplicistica, ma necessaria: i miei studenti non hanno alcuna colpa, non meritano alcuna etichetta, per due ragioni. Da un punto di vista educativo, bisogna sempre ricordare il principio che chi insegna fa il fuoco con la legna che ha: se i miei studenti hanno paura dell'immigrazione e esprimono queste opinioni, io non posso limitarmi a sovrapporre a queste opinioni altre più “decenti”, ma devo farmene carico, assumerle come punto di partenza, perché un'eventuale loro trasformazione non può che passare di qui. A scuola non si enunciano principi giusti, si cerca di fornire gli strumenti per arrivare a comprenderli, se ci si riesce.
In secondo luogo, come sappiamo da un celebre e sempre ristampato libro, il male è banale: la Storia ci trascina tutti, più di quanto non siamo noi a farla. Quanto le opinioni dei miei studenti sono “loro”? Quanto tutte le opinioni che ciascuno di noi esprime ogni giorno sono “nostre”? Ogni persona costruisce il proprio sapere e la propria stessa identità a partire dalle possibilità di comprensione del mondo e di realizzazione nel mondo che la sua epoca gli mette a disposizione, quindi è su ciò che ci circonda che dobbiamo appuntare lo sguardo.

La paura e il degrado della comunicazione pubblica
Nel linguaggio dei miei studenti si coglievano brani di quel chiacchiericcio scomposto cui è ormai ridotta la comunicazione pubblica. Per dare (e darsi) ragione della propria paura, essi usavano quel linguaggio, che ci abita tutti. Questo linguaggio ha alcune caratteristiche.
1) Referenzialità blanda. La quantità di “realtà” che dal mondo entra dentro le nostre teste è ormai enorme: immagini dai quattro angoli del globo e oltre, fatti lontani, opinioni, lontanissime anch'esse, su quei fatti. Tutto a disposizione sui nostri schermi. Ma quasi nessuna di queste informazioni ha davvero a che fare concretamente con la nostra esperienza (fisica e psicologica), sono solo simulacri di realtà. Parole come “guerra in Siria”, “Isis”, “attentati” hanno un significato vaghissimo per la maggior parte di noi, non fanno riferimento a nessuna referente concreto, a nessuna “cosa” che si possa toccare, vedere, udire. Ma ci minacciano, ci aggrediscono. A causa di questa blanda referenzialità, il mondo che si proietta nella nostra mente è confuso e in esso tutto è uguale a tutto: arabo e mussulmano sono la stessa cosa, profugo e immigrato anche, Islam e Isis non meno, ecc... Tra parole e cose lo iato non è mai stato così ampio.
2) Emotività incontrollata. L'uso emotivo del linguaggio (dai pianti in tv, alle urla dei dibattiti, alle metafore politiche aggressive, alla volontà di scioccare) sopravanza qualsiasi altro uso. Il modello è quello della pubblicità: la comunicazione politica e giornalistica ormai stingono sempre di più sulle forme linguistiche dello spot. Ogni parola è parola di seduzione e cerca di insinuarsi nelle viscere, più che nel cervello.
3) Frammentazione e velocità. Le informazioni ci arrivano a pezzetti, e non abbiamo il tempo e le capacità per ricostruire il puzzle. I nessi logici fra di esse sono debolissimi o assenti. Il contenuto emotivo delle informazioni prevale su quello referenziale e razionale anche per questo. Tutto è gridato e ci viene schizzato addosso senza filtri come se fossimo sotto un bombardamento costante, e di bombe a deframmentazione.
4) Decontestualizzazione. Un'informazione, ma anche un concetto, hanno senso, più che in sé, per il contesto nel quale sono collocati. Senza contesto, saranno altri tipi di schemi ricorrenti o contesti artificialmente presi in prestito a fornire lo sfondo sul quale interpretare. Se un atto come il bombardamento in Siria deciso da Trump era addirittura diventato una decisione presa per contrastare l'immigrazione e in sintonia Putin (quando l'atto, semmai, segna una distanza tra Usa e Russia, e di certo l'immigrazione non c'entra nulla) è perché per comprendere, contestualizzare, questi eventi politici – in effetti molto complessi – bisognerebbe possedere una quantità di conoscenze ben integrate fra loro che la maggior parte di noi non ha e che è anche difficile reperire nell'attuale caos. Così l'unico schema interpretativo dentro cui collocare quel bombardamento diventa uno schema sintetico, elementare, quasi favolistico: i due eroi che ristabiliscono l'ordine.
Il tessuto connettivo di senso che sosteneva le intelligenze individuali, fatto dalla cultura umanistica, da quella scientifica, dalle culture politiche, dalla religione, è esploso. Anche la “religione civile” dell'appartenenza alla polis, come dimostra il picco negativo della partecipazione politica, viene meno.
Questo è il mondo in cui viviamo. Questa è la società dell'informazione in cui ci acculturiamo e che dà forma ai nostri pensieri. Le opinioni diffuse dei miei studenti a questo punto diventano meno stupefacenti. Sono opinioni semplicistiche, immediate, prive di rielaborazione. Ma non potrebbe essere diversamente.

Sì, ma c'è la scuola
C'è una risposta facile, consolatoria, a tutto questo: è la retorica dell'alterità della scuola. La scuola sarebbe uno spazio protetto, o l'unico e l'ultimo spazio in cui difendere un'idea di cultura e di civiltà. Questa risposta sopravvaluta la nostra resilienza all'influenza della società, di cui rappresentiamo solo una piccola parte. Possiamo e dobbiamo puntare alto, essere utopisti, ma non possiamo confondere la scommessa dell'utopia con l'effettiva dinamica sociale. La scuola non crea la realtà: può al massimo modificare in parte quella che le è offerta.
Prendiamo solo un aspetto di questa retorica dell'alterità della scuola, l'idea che la cultura fornisca capacità di pensiero critico e quindi capacità di demistificazione dei mille messaggi falsi che circolano. C'è un punto di rottura, dato dalla quantità di menzogne o semplificazioni che si è in grado di rielaborare, oltre il quale l'esercizio di decodifica e interpretazione diventa una lotta contro i mulini a vento.
Ho detto che una delle mie classi aveva già affrontato percorsi sul tema della diversità e dell'immigrazione. Ma né l'incontro coi profughi, ovvero il confronto diretto, scottante e commovente con la realtà, né il gioco di immedesimazione e la dissonanza cognitiva hanno funzionato. Gli strumenti tanto decantati della didattica attiva hanno fallito. E stiamo parlando di esperienze già piuttosto raffinate. Di solito temi come quello della diversità vengono affrontati in forme pedagogizzanti e moralistiche. Non è un'accusa alla buona volontà di chi quei progetti li mette in campo. È la constatazione dell'impotenza dell'unico strumento che abbiamo a scuola, la parola.

Parole e significati
Dobbiamo adottare una logica radicalmente pragmatica per guardare alla comunicazione. Una parola non ha senso in sé: ha il senso che le dà il contesto. Per le parole scambiate a scuola questo contesto è rappresentato dalla società.
La scuola, per statuto e compito sociale, mette sempre nelle proprie parole una precisa intenzionalità pedagogica (attenzione: che il singolo insegnante lo voglia o no. Sono il luogo stesso e i suoi rituali che danno questa curvatura alla nostra comunicazione). Quell'intenzionalità può essere così espressa: “quello che ti sto dicendo, che stai leggendo, che stai ascoltando ... ti migliorerà”. Immaginiamo che l'argomento affrontato sia la poesia d'amore. Lo studente sarà ben disposto a lasciarsi “migliorare”, perché la nostra società ha una grande attenzione verso la conoscenza psicologica, i rapporti personali, i sentimenti, la cura di sé. Ma se il tema è l'immigrazione e nella società quel tema è diventato il precipitato stesso della paura, l'intenzionalità pedagogica della scuola produrrà la ben nota reazione di rigetto verso il “buonismo”. Al livello pubblico magari lo studente farà buon viso a cattivo gioco, per non perdere la reputazione, ma, intimamente, non si lascerà “migliorare” in alcun modo.
Naturalmente non sto dicendo che solo temi “individualistici” possano avere buona accoglienza. Ma è vero, quanto meno, che tutti i temi che si propongano esplicitamente come politici o civici, sono delicati. Di norma, chi è già convinto della bontà del messaggio di civiltà lo accoglie senza problemi, chi non condivide il punto di vista dell'insegnante o quello, che sente “politicamente corretto”, dell'istituzione scolastica, fa resistenza silenziosa. In un certo senso possiamo parlare con efficacia di certe cose solo a chi ne è già convinto.
È anche molto difficile individuare lo “specifico della paura”. I miei studenti – ne sono certo – non hanno problemi a dichiararsi contrari alla classificazione degli esseri umani sulla base della razza, sanno che non funziona. Quindi non si può dire, in effetti, che il laboratorio sulla percezione dell'alterità sia stato inutile. Solo, ha agito soltanto a livello razionale, non è stato in grado di arrivare al cuore della paura. E chissà dove sta, questo cuore.
A volte ironizziamo sulla frase «non sono razzista, ma...», ma in effetti essa è il chiaro sintomo di un tentativo di compromesso psicologico fra tendenze opposte che ci abitano: so benissimo che le razze non esistono, so che non si deve condannare qualcuno pregiudizialmente perché appartiene a una certa etnia o cultura, ma di fronte alla presenza concreta dell'altro, in condizioni percepite di “competizione” (per il lavoro, la sicurezza, ecc...), la paura emerge da altri canali che non sono quelli delle convinzioni razionali. Così esprimo la mia paura mettendo le mani avanti, facendo distinzioni che possono apparire logicamente capziose, ma che sono psicologicamente spiegabilissime.
Ormai più di un esperimento psicologico ha confermato che nessun dato, nessun ragionamento fondato su riscontri positivi, nessuna autorità scientifica, è in grado di convincere chi non voglia essere convinto (che una notizia sia una bufala o che i vaccini non causino l'autismo). Ma già Schopenauer sapeva benissimo che l'uomo prima aderisce prerazionalmente a una tesi, poi costruisce intorno a quella un'armatura argomentativa. Si capisce, quindi, che quanto più paure irrazionali e dicerie vaghe si diffondono nella società, tanto più la scuola sarà impotente, perché noi agiamo prevalentemente sul piano razionale e discorsivo, non su quello inconscio.

Troppe parole, nessun senso
C'è un piccolo aneddoto che può aiutarci a capire, in conclusione, su quale pericoloso crinale ci troviamo.
Su un tema centrale nell'educazione come quello della Shoah, la produzione industriale di film e libri ha generato una vera e propria spettacolarizzazione pop, che ha finito per trasformare il racconto di una tragedia storica in un forma di consumismo della memoria.
In una prima superiore i ragazzi pensavano di sapere molto su questo argomento, perché ne avevano sentito parlare spesso, avevano letto libri, visto film, qualcuno aveva anche fatto un laboratorio specifico nella scuola media. Ma interrogati su fatti elementari della persecuzione razziale degli ebrei, avevano idee che dire confuse è eufemistico. Non era chiaro perché si fosse scatenata una persecuzione, né quali tappe essenziali essa avesse percorso; persino il luogo-simbolo stesso dello sterminio, Auschwitz, era confuso in una nebbia indistinta. Per loro la Shoah era soprattutto un bambino con il pigiama a righe, non la Storia: i fatti e la loro concretezza drammatica avevano perso ogni consistenza. Anzi, molti dicevano di essere pure un po' stufi: avrebbero voluto parlare d'altro, basta con 'sta storia degli ebrei, che si ripete puntualmente ogni anno.
La morale è evidente: se il contesto sociale, mentale, linguistico sul quale noi depositiamo le nostre parole è questo, esse perdono ogni valore, ogni senso preciso, ogni forza morale. Di storia, di letteratura, di scienza parliamo, anche molto, ma la storia, la letteratura, la scienza, non arriviamo a farle conoscere. Rischiamo, anzi, di produrre un senso di sazietà paradossale: sappiamo tutto di tutto, quindi basta. In verità, non sappiamo niente.


Dal sito “La letteratura e noi”, 25 aprile 2017

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