6.5.17

Il nipote di Aristotele. Callistene e la virtù smodata (Mario Vegetti)

Busto di Alessandro Magno divinizzato come Helios
Nel nipote Aristotele apprezzava il precoce talento filosofico e la retorica efficace. Ne deplorava invece il carattere: impetuoso, orgoglioso, poco propenso ai compromessi; privo insomma di quel buon senso che nell’elevato linguaggio della sua Etica egli aveva descritto come virtuosa medietà, e che agli occhi di un giovane poteva anche apparire nient’altro che piatto conformismo.
Si era preso in casa Callistene, figlio di una sua cugina, Ero, e di Demotimo, dopo che il ragazzo era rimasto senza casa e senza patria in quel terribile 348, quando Filippo di Macedonia aveva rasa al suolo Olinto, colpevole di fedeltà all’alleanza con Atene e di insubordinazione verso il nuovo ordine che il potente e collerico sovrano veniva imponendo alla Grecia. Quante volte avrà cercato di moderare l’indignazione del giovane Callistene contro il tiranno distruttore ed oppressore, di spegnere i suoi sogni di vendicare un giorno la libertà dei Greci? Quanto spesso gli avrà ripetuto le frasi della sua Etica, secondo le quali l’eccesso di coraggio è vizio al pari della viltà, e quelle della sua Politica, in cui si sosteneva che il potere di un re virtuoso può porsi al di sopra della legge che governa la libera città? È certo che tentò di disciplinarlo mettendolo al lavoro. Ottenuto dagli Amfizioni di Delfi l’incarico, prestigioso e remunerativo, ancorché noioso agli occhi di un giovane, di redigere il catalogo dei vincitori dei Giochi pitici e soprattutto di quanti li avevano organizzati e sponsorizzati, si associò Callistene nell’impresa: che zio e nipote compirono con tanto successo da guadagnarsi una corona e un’iscrizione nel grande santuario.

L’amico eunuco
Forse, anche questo lavoro di sobria filologia ottenne un esito opposto alla sperata moderazione: forse, la corona panellenica contribuì a convincere il giovane Callistene che lo attendeva un destino di gloria presso i Greci. Si dedicò poi a scrivere - certo su consiglio dello zio ma forse con questa aspettativa - una storia della Grecia fra il 386 e il 356, e abbozzò una narrazione delle gesta di Alessandro.
Nel figlio di Filippo vedeva probabilmente - secondo la sua stessa propaganda - il restauratore della libertà dei Greci, il nuovo Achille eversore dei barbari d’Oriente, e senza dubbio si riprometteva di ottenere da lui la ricostruzione di Olinto, la patria barbaramente distrutta dal padre. Del resto, anche nella casa di Aristotele, l’esaltazione della libertà virtuosa ed eroica non era assente, nonostante i richiami alla prudenza che il filosofo non cessava di elargire nei suoi scritti e nella sua conversazione, e nonostante i suoi solidi e fruttuosi rapporti con la corte macedone.
C’era un personaggio inquietante, legato alla giovinezza di Aristotele, un eunuco forse di origini bitine: Ermia, il tiranno crudele ed ambiguo di Asso, che aveva fondato il suo potere su una serie di tradimenti che l’avevano visto oscillare tra il suo signore - il gran re di Persia - e Filippo di Macedonia. Quest’uomo poco rassicurante, adepto della filosofia platonica, aveva ospitato il giovane Aristotele profugo da Atene (perché escluso dalla successione di Platone e forse anche perché sospetto, lui provinciale e straniero, di simpatie filo-macedoni); e ad Asso, nel sodalizio con Ermia, era nato il primo embrione della scuola di Aristotele, si era consolidata la sua amicizia con Teofrasto, in anni di ricerca e di operosa felicità che sarebbero rimasti indimenticabili.
Tanto indimenticabili, che Ermia il sobrio e prosastico filosofo avrebbe dedicato un inno di sua composizione, in cui si declamava: «Virtù, ricca di affanni per la stirpe dei mortali,/ la più bella preda della vita,/ per la tua bellezza vergine/ anche morire in Grecia è destino ricercato,/ e soffrire pene atroci, incessanti:/ tale è il frutto che infondi negli animi,/ immortale, superiore all’oro ed alla nobiltà di stirpe, ed al sonno che rende tranquilli/ ... Per la tua amata bellezza il figlio di Atarneo (Ermia) privò gli occhi della luce del sole;/ per questo è degno di canto immortale per le sue imprese,/ e lo celebreranno le Muse/ figlie di memoria, aumentando la gloria di Zeus protettore degli ospiti/ e l’onore della salda amicizia».
Tutto ciò si riferisce naturalmente al fatto che Ermia era stato fatto uccidere dal re di Persia in seguito ai suoi tradimenti. In ogni caso, tale era stato il legame fra i due, che Aristotele faceva cantare l’inno ogni sera alla sua mensa. Il giovane Callistene non poté non restarne profondamente colpito; e scrisse un suo trattato in onore di Ermia, in cui immaginava che il re persiano, «colpito dal suo coraggio e dalla sua sicurezza di carattere», aveva deciso di lasciarlo libero, e purtroppo aveva poi nuovamente mutato parere in seguito ad un intrigo di corte. Morente, Ermia chiese di «annunciare ad amici e compagni che nulla aveva fatto di indegno della filosofia o di disonorevole».
Nella fervida fantasia del giovane Callistene - alimentata in questo caso dall’aria di casa - il tiranno Ermia diventava dunque un martire della filosofia, un virtuoso eroe della libertà, capace persino di impressionare con la sua condotta il duro re dei barbari. Tutto questo non era certo fatto per temperare il carattere irruento, l’esaltazione imprudente del ragazzo: un lato oscuro della vita dello zio pesava forse su di lui più dei moderati ragionamenti etici e politici.
Ma venne finalmente il giorno. Nicànore, fratellastro di Aristotele e poi suo figlio adottivo, generale di Alessandro, partiva con il giovane re per la grande spedizione d’Oriente, che aveva infiammato i sogni e le speranze di migliaia di giovani greci: la nuova guerra di Troia, la sconfitta finale del barbaro minaccioso, città da conquistare, gloria e ricchezze per i nuovi eroi. Fu forse grazie a Nicànore che Callistene venne aggregato alla spedizione in qualità di epistolografo o segretario di Alessandro. Certo non mancarono la raccomandazione e l’incoraggiamento di Aristotele, che pure si preoccupava per la sorte dell'intemperante nipote: ma senza dubbio sulla preoccupazione prevalse la speranza di avere in lui il futuro storico della spedizione, e un intelligente collettore di notizie sugli animali, le piante, le pietre dell’Oriente, sui suoi costumi e sui suoi filosofi - quei misteriosi gimnosofisti o fachiri la cui saggezza si favoleggiava potesse competere con quella dei Greci.
Come di rado accade nella storia, in quella spedizione la realtà andò ben oltre l’immaginazione e i sogni di una generazione di giovani. Ci furono battaglie, vittorie, saccheggi, bottino, gloria. Ci fu anche una perdita di orientamento, uno smarrimento del limite e della misura. Nelle inquiete notti del campo, Alessandro, ubriaco di potere più ancora che di vino, ossessionato dalla paura del tradimento e dalla fragilità dell’impero, si comportava verso Greci e Macedoni come un violento despota orientale: il lato oscuro della sua saggia politica diurna di fusione tra i popoli dei vinti e dei vincitori. Agli occhi dei giovani che lo attorniavano, il potere lo imbarbariva, ed egli imbarbariva il potere. Ci fu l’episodio di Stefano. Sbalorditi per le proprietà del petrolio, di cui avevano scoperto un giacimento affiorante, Alessandro e i suoi decisero per gioco di cospargerne il corpo di questo giovane schiavo cantore e gli diedero fuoco - salvo poi restare sconvolti per l’effetto raccapricciante.
E ci fu la terribile notte di Clito, uno degli amici più vicini al re. In un diverbio tra ubriachi, Clito cercava di difendere l’onore dei Macedoni che gli sembrava dileggiato dal re e dai suoi cortigiani. Con un impeto di collera incoercibile - perché non tollerava più che si dissentisse da lui, che al suo potere venisse opposto alcun limite - Alessandro strappò la lancia a una guardia e uccise l’amico; poi lo pianse per una notte e un giorno.

Senza baci
In questi giorni confusi e smarriti, ebbri ed esaltati, Callistene sentì su di sé la responsabilità che gli veniva dalla sua famiglia, dalla sua educazione, dalla sua scelta di vita filosofica. Sentì il dovere di offrirsi come un sicuro punto di riferimento: adottò, quasi provocatoriamente, «un modo di vivere ordinato, augusto e indipendente», secondo le parole di Plutarco. Fin qui, era fedele al suo grande zio. Ma fu fedele anche a se stesso, a quel suo carattere che lo zio temeva e deplorava. Raccolse intorno a sé dei giovani, suscitò forse in loro l’immagine gloriosa dei tirannicidi e liberatori Ar-modio e Aristogitone venerati in Atene. Andava dicendo che avrebbe abolito la tirannide, e i suoi giovani amici presero a onorarlo come «il solo uomo libero fra tante migliaia di schiavi» (sono ancora parole di Plutarco).
Quando Alessandro, alla maniera dei despoti orientali, pretese di fronte a sé la prosternazione come gesto di adorazione della regalità divina, Callistene fu il solo a rifiutarla: a testimoniare della libertà del cittadino, che accetta il comando ma non l’asservimento, della dignità del filosofo, della virtù greca. Avrà pensato, in quel momento, al dignitoso comportamento di Ermia di fronte al re di Persia, di cui aveva cantato e scritto le lodi; avrà pensato che Alessandro avrebbe compreso e approvato quel gesto virtuoso, e si sarebbe forse fermato nella corsa che lo conduceva alla tirannide. In ogni caso, Callistene non poteva genuflettersi: avrebbe cancellato, in un solo momento, l'immagine di sé come greco e come filosofo, disonorato la corona delfica che gli era stata tributata. Non ebbe comunque esitazioni. Come segno di irritazione per la mancata genuflessione, Alessandro gli negò il consueto bacio di saluto, e lui disse ad alta voce: «Ebbene, me ne vado con un bacio di meno».
Le cose precipitarono rapidamente verso un epilogo inevitabile. Alessandro non poteva tollerare una presenza indipendente e fortemente simbolica come quella che Callistene ormai impersonava - un limite intollerabile al suo potere, un punto di riferimento per Greci e Macedoni, un ostacolo al suo progetto di creare un regno culturalmente ed etnicamente integrato. Non fu difficile accusarlo di un complotto tirannicida, e chiuderlo in carcere incatenato mani e piedi. Vi morì dopo sette mesi, sfinito per le malattie; secondo altri, venne invece impiccato, o gettato in pasto ad un leone, nel 328. Non ebbe, dopo la morte, gli onori che egli aveva tributato ad Ermia, e la fama che forse aveva sognato di martire della libertà greca e della virtù filosofica. C’è qualcosa di beffardo nel fatto che fu proprio suo zio Nicànore a leggere nel 324 ad Olimpia l’editto in cui Alessandro imponeva alle poleis greche di tributargli onori divini, come già faceva l’Oriente. Teofrasto, l'amico fraterno di Aristotele, gli dedicò un trattato, Callistene o del pianto: ma, a quanto sembra, Teofrasto insisteva soprattutto sulla durezza del carattere di Callistene.
Un esempio di uomo irruento e tetragono, condannato dal carattere come da un destino, invece che di virtù intransigente. La prudenza dei tempi, che Callistene aveva sfidato, faceva del coraggio e della coerenza un deplorevole eccesso, e rendeva l’immaginazione generosa una irragionevole esaltazione. Così la memoria di Callistene venne rapidamente resa inoffensiva, perché non turbasse più del dovuto i delicati rapporti fra il Peripato e le monarchie macedoni.

NOTA
La fonte principale per la storia di Callistene è la Vita di Alessandro di Plutarco. Per altre fonti, e la loro interpretazione, si vedano L. Prandi, Callistene, Milano 1985, e C. Natali, Bios Theoretikos, Bologna 1991.


“il manifesto”, 18 agosto 1992

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