Busto di Alessandro Magno divinizzato come Helios |
Nel nipote Aristotele
apprezzava il precoce talento filosofico e la retorica efficace. Ne
deplorava invece il carattere: impetuoso, orgoglioso, poco propenso
ai compromessi; privo insomma di quel buon senso che nell’elevato
linguaggio della sua Etica egli aveva descritto come virtuosa
medietà, e che agli occhi di un giovane poteva anche apparire
nient’altro che piatto conformismo.
Si era preso in casa
Callistene, figlio di una sua cugina, Ero, e di Demotimo, dopo che il
ragazzo era rimasto senza casa e senza patria in quel terribile 348,
quando Filippo di Macedonia aveva rasa al suolo Olinto, colpevole di
fedeltà all’alleanza con Atene e di insubordinazione verso il
nuovo ordine che il potente e collerico sovrano veniva imponendo alla
Grecia. Quante volte avrà cercato di moderare l’indignazione del
giovane Callistene contro il tiranno distruttore ed oppressore, di
spegnere i suoi sogni di vendicare un giorno la libertà dei Greci?
Quanto spesso gli avrà ripetuto le frasi della sua Etica,
secondo le quali l’eccesso di coraggio è vizio al pari della
viltà, e quelle della sua Politica, in cui si sosteneva che
il potere di un re virtuoso può porsi al di sopra della legge che
governa la libera città? È certo che tentò di disciplinarlo
mettendolo al lavoro. Ottenuto dagli Amfizioni di Delfi l’incarico,
prestigioso e remunerativo, ancorché noioso agli occhi di un
giovane, di redigere il catalogo dei vincitori dei Giochi pitici e
soprattutto di quanti li avevano organizzati e sponsorizzati, si
associò Callistene nell’impresa: che zio e nipote compirono con
tanto successo da guadagnarsi una corona e un’iscrizione nel grande
santuario.
L’amico eunuco
Forse, anche questo
lavoro di sobria filologia ottenne un esito opposto alla sperata
moderazione: forse, la corona panellenica contribuì a convincere il
giovane Callistene che lo attendeva un destino di gloria presso i
Greci. Si dedicò poi a scrivere - certo su consiglio dello zio ma
forse con questa aspettativa - una storia della Grecia fra il 386 e
il 356, e abbozzò una narrazione delle gesta di Alessandro.
Nel figlio di Filippo
vedeva probabilmente - secondo la sua stessa propaganda - il
restauratore della libertà dei Greci, il nuovo Achille eversore dei
barbari d’Oriente, e senza dubbio si riprometteva di ottenere da
lui la ricostruzione di Olinto, la patria barbaramente distrutta dal
padre. Del resto, anche nella casa di Aristotele, l’esaltazione
della libertà virtuosa ed eroica non era assente, nonostante i
richiami alla prudenza che il filosofo non cessava di elargire nei
suoi scritti e nella sua conversazione, e nonostante i suoi solidi e
fruttuosi rapporti con la corte macedone.
C’era un personaggio
inquietante, legato alla giovinezza di Aristotele, un eunuco forse di
origini bitine: Ermia, il tiranno crudele ed ambiguo di Asso, che
aveva fondato il suo potere su una serie di tradimenti che l’avevano
visto oscillare tra il suo signore - il gran re di Persia - e Filippo
di Macedonia. Quest’uomo poco rassicurante, adepto della filosofia
platonica, aveva ospitato il giovane Aristotele profugo da Atene
(perché escluso dalla successione di Platone e forse anche perché
sospetto, lui provinciale e straniero, di simpatie filo-macedoni); e
ad Asso, nel sodalizio con Ermia, era nato il primo embrione della
scuola di Aristotele, si era consolidata la sua amicizia con
Teofrasto, in anni di ricerca e di operosa felicità che sarebbero
rimasti indimenticabili.
Tanto indimenticabili,
che Ermia il sobrio e prosastico filosofo avrebbe dedicato un inno di
sua composizione, in cui si declamava: «Virtù, ricca di affanni per
la stirpe dei mortali,/ la più bella preda della vita,/ per la tua
bellezza vergine/ anche morire in Grecia è destino ricercato,/ e
soffrire pene atroci, incessanti:/ tale è il frutto che infondi
negli animi,/ immortale, superiore all’oro ed alla nobiltà di
stirpe, ed al sonno che rende tranquilli/ ... Per la tua amata
bellezza il figlio di Atarneo (Ermia) privò gli occhi della luce del
sole;/ per questo è degno di canto immortale per le sue imprese,/ e
lo celebreranno le Muse/ figlie di memoria, aumentando la gloria di
Zeus protettore degli ospiti/ e l’onore della salda amicizia».
Tutto ciò si riferisce
naturalmente al fatto che Ermia era stato fatto uccidere dal re di
Persia in seguito ai suoi tradimenti. In ogni caso, tale era stato il
legame fra i due, che Aristotele faceva cantare l’inno ogni sera
alla sua mensa. Il giovane Callistene non poté non restarne
profondamente colpito; e scrisse un suo trattato in onore di Ermia,
in cui immaginava che il re persiano, «colpito dal suo coraggio e
dalla sua sicurezza di carattere», aveva deciso di lasciarlo libero,
e purtroppo aveva poi nuovamente mutato parere in seguito ad un
intrigo di corte. Morente, Ermia chiese di «annunciare ad amici e
compagni che nulla aveva fatto di indegno della filosofia o di
disonorevole».
Nella fervida fantasia
del giovane Callistene - alimentata in questo caso dall’aria di
casa - il tiranno Ermia diventava dunque un martire della filosofia,
un virtuoso eroe della libertà, capace persino di impressionare con
la sua condotta il duro re dei barbari. Tutto questo non era certo
fatto per temperare il carattere irruento, l’esaltazione imprudente
del ragazzo: un lato oscuro della vita dello zio pesava forse su di
lui più dei moderati ragionamenti etici e politici.
Ma venne finalmente il
giorno. Nicànore, fratellastro di Aristotele e poi suo figlio
adottivo, generale di Alessandro, partiva con il giovane re per la
grande spedizione d’Oriente, che aveva infiammato i sogni e le
speranze di migliaia di giovani greci: la nuova guerra di Troia, la
sconfitta finale del barbaro minaccioso, città da conquistare,
gloria e ricchezze per i nuovi eroi. Fu forse grazie a Nicànore che
Callistene venne aggregato alla spedizione in qualità di
epistolografo o segretario di Alessandro. Certo non mancarono la
raccomandazione e l’incoraggiamento di Aristotele, che pure si
preoccupava per la sorte dell'intemperante nipote: ma senza dubbio
sulla preoccupazione prevalse la speranza di avere in lui il futuro
storico della spedizione, e un intelligente collettore di notizie
sugli animali, le piante, le pietre dell’Oriente, sui suoi costumi
e sui suoi filosofi - quei misteriosi gimnosofisti o fachiri la cui
saggezza si favoleggiava potesse competere con quella dei Greci.
Come di rado accade nella
storia, in quella spedizione la realtà andò ben oltre
l’immaginazione e i sogni di una generazione di giovani. Ci furono
battaglie, vittorie, saccheggi, bottino, gloria. Ci fu anche una
perdita di orientamento, uno smarrimento del limite e della misura.
Nelle inquiete notti del campo, Alessandro, ubriaco di potere più
ancora che di vino, ossessionato dalla paura del tradimento e dalla
fragilità dell’impero, si comportava verso Greci e Macedoni come
un violento despota orientale: il lato oscuro della sua saggia
politica diurna di fusione tra i popoli dei vinti e dei vincitori.
Agli occhi dei giovani che lo attorniavano, il potere lo imbarbariva,
ed egli imbarbariva il potere. Ci fu l’episodio di Stefano.
Sbalorditi per le proprietà del petrolio, di cui avevano scoperto un
giacimento affiorante, Alessandro e i suoi decisero per gioco di
cospargerne il corpo di questo giovane schiavo cantore e gli diedero
fuoco - salvo poi restare sconvolti per l’effetto raccapricciante.
E ci fu la terribile
notte di Clito, uno degli amici più vicini al re. In un diverbio tra
ubriachi, Clito cercava di difendere l’onore dei Macedoni che gli
sembrava dileggiato dal re e dai suoi cortigiani. Con un impeto di
collera incoercibile - perché non tollerava più che si dissentisse
da lui, che al suo potere venisse opposto alcun limite - Alessandro
strappò la lancia a una guardia e uccise l’amico; poi lo pianse
per una notte e un giorno.
Senza baci
In questi giorni confusi
e smarriti, ebbri ed esaltati, Callistene sentì su di sé la
responsabilità che gli veniva dalla sua famiglia, dalla sua
educazione, dalla sua scelta di vita filosofica. Sentì il dovere di
offrirsi come un sicuro punto di riferimento: adottò, quasi
provocatoriamente, «un modo di vivere ordinato, augusto e
indipendente», secondo le parole di Plutarco. Fin qui, era fedele al
suo grande zio. Ma fu fedele anche a se stesso, a quel suo carattere
che lo zio temeva e deplorava. Raccolse intorno a sé dei giovani,
suscitò forse in loro l’immagine gloriosa dei tirannicidi e
liberatori Ar-modio e Aristogitone venerati in Atene. Andava dicendo
che avrebbe abolito la tirannide, e i suoi giovani amici presero a
onorarlo come «il solo uomo libero fra tante migliaia di schiavi»
(sono ancora parole di Plutarco).
Quando Alessandro, alla
maniera dei despoti orientali, pretese di fronte a sé la
prosternazione come gesto di adorazione della regalità divina,
Callistene fu il solo a rifiutarla: a testimoniare della libertà del
cittadino, che accetta il comando ma non l’asservimento, della
dignità del filosofo, della virtù greca. Avrà pensato, in quel
momento, al dignitoso comportamento di Ermia di fronte al re di
Persia, di cui aveva cantato e scritto le lodi; avrà pensato che
Alessandro avrebbe compreso e approvato quel gesto virtuoso, e si
sarebbe forse fermato nella corsa che lo conduceva alla tirannide. In
ogni caso, Callistene non poteva genuflettersi: avrebbe cancellato,
in un solo momento, l'immagine di sé come greco e come filosofo,
disonorato la corona delfica che gli era stata tributata. Non ebbe
comunque esitazioni. Come segno di irritazione per la mancata
genuflessione, Alessandro gli negò il consueto bacio di saluto, e
lui disse ad alta voce: «Ebbene, me ne vado con un bacio di meno».
Le cose precipitarono
rapidamente verso un epilogo inevitabile. Alessandro non poteva
tollerare una presenza indipendente e fortemente simbolica come
quella che Callistene ormai impersonava - un limite intollerabile al
suo potere, un punto di riferimento per Greci e Macedoni, un ostacolo
al suo progetto di creare un regno culturalmente ed etnicamente
integrato. Non fu difficile accusarlo di un complotto tirannicida, e
chiuderlo in carcere incatenato mani e piedi. Vi morì dopo sette
mesi, sfinito per le malattie; secondo altri, venne invece impiccato,
o gettato in pasto ad un leone, nel 328. Non ebbe, dopo la morte, gli
onori che egli aveva tributato ad Ermia, e la fama che forse aveva
sognato di martire della libertà greca e della virtù filosofica.
C’è qualcosa di beffardo nel fatto che fu proprio suo zio Nicànore
a leggere nel 324 ad Olimpia l’editto in cui Alessandro imponeva
alle poleis greche di tributargli onori divini, come già
faceva l’Oriente. Teofrasto, l'amico fraterno di Aristotele, gli
dedicò un trattato, Callistene o del pianto: ma, a quanto
sembra, Teofrasto insisteva soprattutto sulla durezza del carattere
di Callistene.
Un esempio di uomo
irruento e tetragono, condannato dal carattere come da un destino,
invece che di virtù intransigente. La prudenza dei tempi, che
Callistene aveva sfidato, faceva del coraggio e della coerenza un
deplorevole eccesso, e rendeva l’immaginazione generosa una
irragionevole esaltazione. Così la memoria di Callistene venne
rapidamente resa inoffensiva, perché non turbasse più del dovuto i
delicati rapporti fra il Peripato e le monarchie macedoni.
NOTA
La
fonte principale per la storia di Callistene è la Vita
di Alessandro di
Plutarco. Per altre fonti, e la loro interpretazione, si vedano L.
Prandi, Callistene,
Milano 1985, e
C. Natali, Bios Theoretikos,
Bologna 1991.
“il manifesto”, 18
agosto 1992
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