Nessuno degli spettatori
riuniti in quella sera d’estate del 2 agosto 1947 per assistere a
una delle tante Gioconde del dopoguerra avrebbe certo immaginato che
a quel donnone di origine greca sbarcato dall’America che
rispondeva (allora) al nome di Maria Kallas, sarebbero state un
giorno dedicate decine di biografie, discografie commentate, film,
serie televisive, drammi, siti internet, poesie, cartoline, magneti
per il frigorifero e persino un convegno universitario. Proprio
questo incontro, svoltosi all’Università di Roma Tre nel 2007, è
all’origine del bel volume pubblicato da Quolibet, curatissimo in
ogni sua parte e corredato di una ricchissima bibliografia (Mille
e una Callas. Voci e studi, a cura di Luca Aversano e Jacopo
Pellegrini) che raccoglie, in cinque sezioni per oltre seicento
pagine, una trentina di interventi dedicati alla personalità
artistica che più d’ogni altra scosse il teatro d’opera del
Novecento, suscitando entusiasmi, delirî, polemiche, ostilità,
disprezzo, mai indifferenza. “A occuparsi della Callas c’è
sempre da battagliare contro qualcuno o qualcosa” dice giustamente
Jacopo Pellegrini nel suo contributo sulle interpretazioni del
Rossini comico.
C’è poco da fare:
nonostante in ognuno di noi possa insinuarsi una certa, legittima,
sazietà nel sentire celebrare per l’ennesima volta il nome della
cantante greca (magari dimenticandone tanti altri che servirono più
a lungo di lei e con altrettanta dedizione l’arte del canto),
questa voce, a quarant’anni dalla scomparsa (16 settembre 1977),
impressiona e scuote l’animo di chi la ascolta, dal neofita al
collezionista più smaliziato, come il richiamo, notturno e
inquietante, di un altro mondo, cui pure noi sentiamo misteriosamente
di appartenere. Dall’esordio italiano, dopo quasi un decennio di
gavetta in Grecia, al ritiro dalle scene (1965) furono nemmeno
vent’anni di carriera, di cui non più di una decina nel pieno dei
mezzi vocali. «Divina !» gridò qualcuno dal loggione sulle ultime
battute dell’aria finale dell’Anna Bolena (Milano, aprile
1957), quasi a spezzare anzitempo l’insopportabile incanto prodotto
da quella voce che dipanava la semplice e triste melodia donizettiana
in una tensione senza fine, tenendo tutto il teatro sospeso a una
voce. La divinizzazione, l’assunzione allo statuto di mito della
cantante giunse allora ad accertare definitivamente la portata
storica di quella meteora, di cui nessuno fino a quel momento aveva
visto fino ad allora l’eguale, e ad accompagnarne da lontano lo
spegnersi (dopo il chiasso prodotto dalle vicende private di
separazioni e amori impossibili) nella solitudine e nel silenzio di
un lussuoso appartamento parigino.
Raccogliendo le
testimonianze giornalistiche, anche le più recondite, di quanti
ascoltarono la Callas agli inizi della sua carriera italiana (dal
1947 fino alla consacrazione del 1953), questo volume ben documenta
come ascoltatori e critici si trovassero a tutta prima disorientati;
soggiogati sì, ma non di rado anche infastiditi da una voce
inclassificabile che passava, con la stessa facilità e la stessa
immedesimazione, in uno slancio metamorfico e sacrificale
apparentemente senza limiti, dal Parsifal al Turco in
Italia, dalla Gioconda ai Puritani, dalla
Sonnambula alla Tosca. Nel sostanziale classicismo
vocale italiano, avvezzo a ricercare sempre e comunque la «bella»
voce anche nei temperamenti più focosi, l’irrompere sulle scene
della Callas fece un effetto simile alla riscoperta di Shakespeare
nel Settecento: il caso singolo diventava occasione per un dibattito
estetico più ampio, acceso e persino tumultuoso (vedi le polemiche
sulla sua Medea, che coinvolsero personaggi del calibro di
Praz e Paratore, qui illustrate da un bel saggio di Franco Serpa).
Callas filologa e
grande attrice, luoghi comuni da sfatare
Il primo dei meriti di
questa raccolta di saggi sta nella revisione di alcuni luoghi comuni
impostisi nella storiografia, o meglio nella mitografia e agiografia
callasiane degli ultimi trent’anni: primo tra tutti quello della
presunta fedeltà assoluta della cantante greca allo spartito e alle
intenzioni del compositore. Di qui la leggenda di una Callas
«filologa» o l’altra, anche più inverosimile (ma quanto
tenace!), di una Callas restauratrice dell’autentico spirito della
musica di Donizetti, di Verdi e di altri ancora (magari con
l’immancabile richiamo alla lezione di Toscanini, col quale il
soprano sembra avere avuto in comune soprattutto una mancanza
pressoché totale di senso dell’umorismo e di autoironia). Con
questi ditirambi spavaldi e strambi è chiaro che oggi, dopo decenni
di agguerrita filologia esercititasi sul melodramma
primo-ottocentesco, si è avuto buon gioco nel ridimensionare e
persino demolire, non senza facili sarcasmi, le tradizionalissime
(almeno sul piano testuale) scelte callassiane nonché le idee, o
meglio gli umori, della Divina in fatto di tagli, puntature e
licenze.
Persino il mito della
grande attrice non va esente, in più d’uno dei saggi qui raccolti,
da un giusto revisionismo: la Callas fu infatti anzitutto una grande
attrice nella voce prima che nel gesto o nel movimento scenico (di
cui rare sono peraltro le testimonianze video e quasi tutte ormai,
per così dire post res perditas), in ciò erede e maestra di
quel «cantar recitando» che fu, secondo la formulazione di Nino
Pirrotta, alle origini del rinnovamento musicale da cui sarebbe
scaturito il teatro per musica. È solo nel canto, infatti,
nell’accento, nella dizione scolpita, nel fraseggio dalle sfumature
infinite che va cercata la Callas. Poche frasi di un recitativo
cantato da lei bastano a tratteggiare una figura a tutto tondo.
Riascoltiamola nella Gioconda («Profonda è la laguna… »,
IV atto) e noi vediamo la Giudecca inghiottita nella notte
inchiostrata a colpi di grandiosi effettacci da Boito &
Ponchielli; «Dammi tu forza o cielo…» (La traviata, atto
II) e sentiamo dentro di noi tutta l’eroica voluttà masochistica
di Violetta, sacrificata all’onore del clan Germont; «Invan…»
(una parola!) e in quel sospiro c’è tutta la composta
rassegnazione di Aida chiusa nella tomba con Radamès; « Gli
dicevo che oggi è Pasqua… » e da quei suoni (non belli, ma che
importa?) prorompe tutta la gelosa protervia della Santuzza
verghiana. Norma, Butterfly, Lucia, Abigaille, Anna Bolena, Medea,
Armida, Lady Macbeth, Imogene…: una galleria di personaggi (spesso
interpretati una sola volta e per poche recite) l’uno diverso
dall’altro per ognuno dei quali, con una stupefacente «abilità
trasformistica» (Pellegrini), trovò linee e colori sempre diversi,
se pur con quella medesima tinta di fondo fosca, affranta, da
tregenda (persino nelle rare incursioni comiche) che fu solo sua.
I ricordi dei
testimoni dell’arte callasiana
Uno degli aspetti più
interessanti di questo volume risiede nelle testimonianze di critici,
studiosi, intellettuali che furono anche giovani spettatori delle
recite callasiane, molti dei quali oggi non sono più tra noi. Il
tono accademico cede allora alla rievocazione divertita,
entusiastica, commossa di interpretazioni che il disco non ci ha
conservate: dal Don Carlo e Ratto dal Serraglio scaligeri (Marcello
Conati) alle recite romane di Medea del 1955 che innescarono una
polemica tra critici e filologi (qui ripercorsa da un filologo e
callasiano come Franco Serpa) fino alle mirabolanti pagine del
fedelissimo Alberto Arbasino da cui è tratto il titolo, immaginifico
e eloquente, di tutto il volume. Accanto a queste, particolarmente
preziose sono le memorie di altri testimoni dell’arte callasiana
che nessuno fin qui aveva mai interpellato, come il compianto Bruno
Bartoletti (collaboratore degli anni fiorentini che consacrarono il
soprano greco), Filippo Crivelli (assistente di Zeffirelli nel Turco
in Italia e di Visconti nella Sonnambula), il compositore
Hans Werner Henze (suo precoce ammiratore, con l’amica Bachmann),
gli amici Paolo Poli e Franca Valeri, il traduttore inglese William
Weawer, interprete di rango dei nostri classici, che firma in questo
volume un piccolo capolavoro di ammirazione, di umorismo e di pietas,
da mettere tra le pagine più vere e toccanti mai scritte sulla
Callas.
Accanto ai ricordi non
mancano ovviamente gli studi, i ritratti più propriamente
storico-interpretativi, spesso su zone meno indagate o discusse della
carriera callasiana, tra cui ricordo almeno (ma andrebbero citati
tutti) i saggi di Aldo Nicastro sul repertorio francese e di Cesare
Orselli sul verismo, mentre Gina Guandalini (autrice di uno dei più
bei libri nella nostra lingua, Callas l’ultima diva, edito
nel 1987 e purtroppo mai ristampato) illustra entusiasmi e resistenze
della critica italiana e straniera.
Originale e sorprendente,
infine, la sezione di contributi dedicata al «mito», dove persino
il fan più agguerrito scoprirà il proliferare di film, racconti,
romanzi, documentari, quadri e ritratti a lui ignoti, prodotti negli
angoli più diversi del mondo e ispirati alla vita e all’arte
(spesso più alla prima che alla seconda) della cantante greca. Segno
di una passione collettiva che, nonostante la sazietà di cui si
diceva, non sembra destinata a spegnersi. Montale, se pur a denti
stretti (lui che avrebbe immortalato in una poesia del 1978 un’altra,
diversissima, «Divina» della sua gioventù, la schiva ed elegiaca
Claudia Muzio), l’aveva a suo tempo riconosciuto: «fenomenale
soprano leggero tragico di sapore espressionistico. Un miscuglio di
cui non avevamo precedenti. Sacerdotessa e Pizia invasata, quando non
canterà più lascerà dietro di sé una leggenda; e anche allora
avrà i suoi fanatici e i suoi avversari… » (recensione alla
Sonnambula scaligera del 1955).
Forse il segreto di
questa passione collettiva sta nel fatto che ciò che quella voce ci
porta va ben al di là del sopracuto abbagliante, della volatina, del
trillo, del prodigio vocale o della correttezza testuale (tutti
aspetti in cui la Callas è già stata e sarà superata da cantanti
tecnicamente e culturalmente ben più agguerrite di lei). È, rubando
le parole al citato Weaver, un «fremito di immedicabile tristezza »
proveniente da zone più lontane e profonde dell’esistenza umana,
di cui la Callas si fece allora sulla scena, e grazie al disco si fa
ancora oggi, il vas electionis, l’inconsapevole e
travolgente messaggera.
L'Indice, aprile 2017
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