La servitù di un
letterato, scrisse molti anni fa un illustre critico, Francesco
Flora, è sempre volontaria anche quando è passiva. Dopo la
pubblicazione del Manifesto della razza, intellettuali,
letterati e giornalisti esercitarono la loro servitù in maniera
particolarmente attiva. Non soltanto gli organi di stampa del
razzismo ufficiale, come La vita italiana di Giovanni
Preziosi, Il Quadrivio o Il Tevere di Telesio
Interlandi, Il Regime Fascista di Roberto Farinacci, ma anche
i quotidiani normali sembrarono animarsi al seguito di una missione,
sia pure turpe. E per un certo numero di scrittori l'antisemitismo
rappresentò una comoda palestra in cui esercitare virtù retoriche e
talenti pedagogici.
Era stato proprio
Interlandi, massimo divulgatore dell'antiebraismo littorio, a
proclamare sulla Difesa della razza, fin dai primi giorni di
agosto del 1938, che la campagna antisemita segnava una vera rivolta
intellettuale, in quanto mirava alla liberazione dell'Italia dai
caratteri remissivi che le erano stati imposti dalle precedenti
classi politiche. Quale occasione migliore, dunque, per mostrarsi
aggiornati e rivoluzionari, senza alcun rischio, anzi avrebbe detto
Francesco De Sanctis, “con licenza de' superiori”? In un saggio
intitolato Le persecuzioni razziali in Italia, pubblicato in
quattro puntate sul Ponte, fra il 1952 e il 1953, Antonio Spinosa
offriva una nutrita antologia di scritti, letterari e giornalistici,
dichiara obbedienza razzistica; e altrettanto ricca, in questo senso,
è la Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo di Renzo
De Felice. Si tratta di documenti penosi, ma istruttivi.
Per questo genere di
letteratura, il 1938 è naturalmente l' anno dei portenti. Esce
appunto in quell'anno un saggio dello storico Gabriele De Rosa,
intitolato La rivincita di Ario, in cui si sostiene l'identità
ebraismo=comunismo, binomio contro il quale c'è l'asse Roma-Berlino.
“Tutti sanno, - scrive De Rosa, - che noi combattiamo in terra di
Spagna non l'iberico nemico, ma la terza internazionale ebraica,
quella creata dall'ingegno giudaico-massonico del Komintern. Gli
fanno eco, fra gli altri, giornalisti come Felice Chilanti e Ugo
D'Andrea. Critici delle più diverse discipline s'impegnano, intanto,
nel denunziare i danni che l'ebraismo infligge alla creazione
artistica. Un noto musicologo, Francesco Santoliquido, definisce
assurdamente, nell'agosto 1938, l'intera musica moderna un vero e
proprio monopolio della razza ebraica. Poco più tardi, un critico
letterario, Francesco Biondolillo, cerca invece di dimostrare che il
pericolo maggiore è nella narrativa. Qui, da Italo Svevo, ebreo di
tre cotte, ad Alberto Moravia, ebreo di sei cotte, si va tessendo
tutta una miserabile rete per pescare dal fondo limaccioso della
società figure ripugnanti. Moravia non era nuovo a simili attacchi.
Già otto anni prima, nel
1931, essendo andato a visitare Giovanni Papini, era stato accolto
con una battuta sconcertante: “Lei collabora alla rivista Solaria.
I solariani sono o zoppi, o ebrei, o omosessuali. Lei è tutte e tre
le cose”. “Si trattava di una frase almeno in parte inesatta”,
commenta ora Moravia. Ma si può aggiungere quel tipo di accoglienza
rientrava nello stile di Papini, autore, proprio nel' 31, di un
romanzo intitolato Gog e ispirato al più schietto
antisemitismo. Fra gli scrittori contemporanei di Papini o anche più
anziani, lo spirito antiebraico non era, d'altronde, ignoto. Per
Alfredo Oriani (1852-1909) dopo Gesù gli ebrei non hanno più
davvero creato: nella filosofia, nella scienza, nell' arte, nella
politica, possono tutto sapere, tutto adoperare: creare no. Simili
umori razzisti sarebbero stati condivisi da Enrico Corradini
(1865-1931), giornalista, letterato e leader politico nazionalista,
poi accostatosi al fascismo. Per non parlare di Ardengo Soffici
(1879-64), ispiratore ideologico fra l' altro di quel Selvaggio che
individuava il proprio nemico nella plutocrazia ebraica
internazionale.
Ma ora, nei tardi anni
Trenta, quei lontani precedenti si amalgamavano in una parola
d'ordine unitaria, e gli intellettuali antisemiti diventavano una
pletora. Fra i più zelanti fu Guido Piovene, autore, sul “Corriere
della Sera” del 15 dicembre 1939, di una recensione entusiastica a
un libro immondo, Contra judaeos di Telesio Interlandi. La virtù
principale di quest'opera consisteva, a suo parere, nell'aver ridotto
all'osso la questione ebraica. Secondo Piovene, comunque, salvarsi
dagli influssi semitici non era difficile: si deve sentire d'istinto,
e quasi per l'odore, quello che v'è di giudaico nella cultura. Nel
libro La coda di paglia (1962), lo scrittore avrebbe poi
abiurato queste posizioni, confessando di aver obbedito da schiavo,
senza sentirsi mai partecipe alle direttive del regime e aggiungendo
che, nel ricordo, il fascismo era diventato per lui la figura stessa
della sua umiliazione, umana, e soprattutto intellettuale. In altri
casi, come quello di Amintore Fanfani il quale, in un saggio del '39,
sosteneva che per la potenza e il futuro della nazione gli italiani
devono essere razzialmente puri un'abiura altrettanto recisa e
penitenziale non c'è stata. E neppure c'è stata nel caso di
Gioacchino Volpe, storico insigne (1876-1971), al quale nel 39 la
politica della razza parve una tappa verso la costruzione di
un'Europa veramente unita e solidale.
Ma torniamo a letterati e
giornalisti. Con lo scoppio della guerra l'antisemitismo diventa un
condimento abituale nei racconti degli inviati speciali. Dal ghetto
di Varsavia, nel '39, Paolo Monelli scrive sul “Corriere della
Sera”: “Nulla ci pare di aver in comune con questa schiatta
ebraica, con la sua strana lingua, le sue insegne illeggibili, gli
esotici costumi, i gesti paurosi, l'andare sbilenchi il più rasente
al muro possibile”. Dalla Jugoslavia gli risponde, due anni più
tardi, Alfio Russo, affermando sulla “Stampa” che “Stato
Maggiore, Chiesa ortodossa, ebrei agivano nascostamente da tempo,
preparavano la vanga per scavare la fossa della Jugoslavia”. Dalla
Cecoslovacchia, Curzio Malaparte denunzia sul “Corriere” il
pericolo sociale che rappresenta, per le città boeme, l'enorme massa
del proletariato giudaico; mentre Giovanni Ansaldo scopre sulla
“Gazzetta del Popolo” che sono stati gli ebrei a volere il
conflitto mondiale: i rabbi di Nuova York, spingendo l'America alla
guerra, hanno seguito l'istinto e la tradizione della razza.
Ci sono poi gli ossessi,
come Mario Appelius e Marco Ramperti. Per il primo, Israele,
traditore del mondo è un bersaglio continuo, alla radio e sui
giornali. Per il secondo, “più che dalla stella gialla gli ebrei
si riconoscono dalla ferocia dello sguardo”. Così scrive nel
dicembre 1941, e continua: “gote livide, bocche ferine, occhi di
fiamma ossidrica, spianti e perforanti di sotto in su. Se potessero,
gli ebrei farebbero una strage”. E fra gli ebrei, Ramperti ne
elegge uno, destinatario privilegiato dei suoi furori: il più sozzo,
il più ripugnante, il più disumano e nemico è Charlot... l'avaro
Charlot, l'indecente Charlot, il montecatto Charlot. E qui siamo alla
trascrizione letterario-anedottica, con l' aggiunta di una furibonda
retorica, delle teorie di Giovanni Preziosi e di Julius Evola.
Furono tutti così?
Sostenerlo sarebbe fuori luogo. Perfino nell'intellighenzia fascista
si riscontrano casi di adesione soltanto parziale al razzismo, o
addirittura di ripudio. Nella prima categoria va inserito per fare
qualche rapido esempio Giuseppe Bottai che, a detta di un suo
biografo, Alexander J. De Grand, fu in grado di limitare
l'applicabilità alla cultura delle teorie antisemite; nella seconda,
Filippo Tommaso Marinetti, che espresse la sua disapprovazione fin
dal novembre 1938. In ambiente cattolico, Giorgio La Pira fu tra i
più ostili alla campagna antisemita. A divisioni significative si
assiste anche nel dibattito sul tema arte e razza. Ugo Ojetti si
riconosce nel fanatismo razzista. L'ex futurista Carlo Carrà si
schiera invece con coraggio sulla trincea opposta: “Chiamare
ebraizzante l'arte moderna italiana, non potendo chiamare ebrei gli
artisti che oggi meglio la rappresentano, è tutto sommato molto
puerile”. Siamo nel dicembre del ' 38. Pochi giorni prima, il 28
novembre, si è suicidato a Modena, gettandosi dall'alto della torre
Ghirlandina, un intellettuale ebreo: il sessantenne editore Angelo
Fortunato Formiggini. Era un uomo colto, con una vera di caustico
anticonformismo, come dimostra un suo pamphlet del 1923 contro
Giovanni Gentile. Aveva creato una casa editrice di buon livello. In
una lettera indirizzata alla moglie poco prima di uccidersi, scrisse
che sentiva un dovere impellente: dimostrare l'assurdità malvagia
dei provvedimenti razzisti. Forse Formiggini non immaginava, con
queste parole, di dettare un'epigrafe. Su se stesso e su un momento
assai triste della storia d' Italia.
“la Repubblica”, 12
luglio 1988
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