Il vescovo Sinesio in una miniatura del XII secolo |
Anche per chi abbia fatto
il liceo classico, il termine mondo antico evoca tutt'al più i nomi
di Cicerone, di Cesare, di Nerone: figure emblematiche, esponenti
significativi d'un momento storico e d'un sistema. Ma esistono anche
personaggi inquieti e contraddittori, attardati o precursori, vissuti
in epoche di trapasso; uomini e donne tormentati, insicuri, spesso
sbalzati loro malgrado ad assumere ruoli ai quali non erano
preparati; esseri umbràtili e pensosi, dominati dall'ansia del
divino, da una sete d'assoluto, eppure costretti a farsi politici e
soldati, pastori di popoli in senso non solo spirituale, ma anche in
quello di patroni e mediatori tra gli umili e i governi.
Appartengono a questa
categoria le figure straordinarie dei laici eletti vescovi a furor di
popolo nelle ore della tormenta, per il loro prestigio, la posizione
sociale, la fermezza di cui avevano dato prova nel pericolo: come
sant'Ambrogio, sant'Agostino, san Dionigi di Auxerre. Non ancora
battezzati né pienamente convertiti, riluttanti ad assumere l'onere
della carica, lacerati tra i doveri del secolo e lo struggente
desiderio di Dio che li dominava per reazione ai torbidi riti
iniziatici dell'ultimo paganesimo e a quella desperatio veri
diffusa nel pensiero laico tardo antico; seguaci, per appagare
l'inclinazione mistica, del neoplatonismo, filosofia dell'élite
intellettuale.
A questo gruppo di
spiriti religiosi in conflitto con se stessi appartiene una figura
singolare e affascinante, quella di Sinesio di Cirene (l'Utet ne
pubblica le opere in un eccellente volume a cura di Antonio Garzya,
pagg. 821 più indici e bibliografia). Nato nel 370 d.C. in una ricca
famiglia dell'alta borghesia di Cirene, Sinesio apparteneva alla
classe dei curiales, una carica obbligatoria ed ereditaria,
tanto pesante che il Codice teodosiano in 117 decreti ne formula i
doveri e il divieto di sottrarvisi. Il curiale, amministratore non
retribuito, doveva provvedere spesso a sue spese alla manutenzione
delle opere pubbliche, all'esazione delle imposte, alla giustizia e
alla difesa. E proprio nell'organizzare la difesa della Pentapoli
(l'area più fertile dell' Africa, di antica cultura greca, così
chiamata perché formata da cinque città), Sinesio aveva dato prova
di coraggio e di autorità; il territorio era infatti funestato da
continui attacchi da parte dei nomadi dell'interno che spesso, non
contenti di devastare le proprietà, catturavano donne e bambini (non
li chiamerei neppure nemici, scriveva Sinesio al fratello, ma
ladroni, banditi e, se esiste, userei un termine ancor più
abbietto...). Alcune lettere di sant'Agostino trovate pochi anni fa
nella Bibliothèque Nationale di Parigi rivelano la sollecitudine del
contemporaneo vescovo d'Ippona per quegli sventurati che, catturati e
rinchiusi nella stiva delle navi, rischiavano d'esser venduti schiavi
nei mercati d'oltremare, nella totale impotenza della polizia
imperiale. “Tutta la provincia - scriveva Sinesio in un'operetta
intitolata Catastasis - è avviluppata dai barbari come da una
rete... are e sepolcri sono violati, chiese distrutte, altari usati
per la mensa, vasellami sacri per usi demoniaci...”.
Il prestigio di Sinesio,
la sua oratoria, le doti letterarie di cui dette prova in varie opere
indussero il Senato della Pentapoli, nel 399 d.C., ad affidargli un
incarico di grande impegno: recarsi a Costantinopoli ed esporre
all'imperatore d'Oriente, il torpido Arcadio figlio di Teodosio il
Grande, le istanze delle popolazioni africane afflitte dalle
incursioni berbere, dall'inflazione, dal frequente flagello delle
cavallette e, soprattutto, da un fiscalismo intollerabile. L'orazione
che il giovane pronunciò al cospetto del sovrano (nota con il titolo
Epì basilèias o De regno) è un breve trattato sul
potere monarchico, i suoi limiti, i doveri che esso comporta;
discende da una tradizione antichissima, dal De republica di
Platone e di Cicerone, dai panegirici dei rètori gallici, da quelli
di Dione di Prusa e Plinio per Traiano, di Elio Aristide per Antonino
Pio. Spesso si elogiava il principe non per le virtù che praticava,
ma per quelle che si auspicavano in lui; lo si ammoniva a mostrarsi
mite, casto, frugale, valoroso, accessibile, severo con se stesso,
alieno dall'imporre tasse e corvées, vero pastore, nocchiero della
nave, padre sollecito dei sudditi. Ma dietro questa descrizione di
maniera, c'è il pensiero dell'oratore e del suo partito, nutrito di
una profonda ostilità vero i Goti, che ormai esercitavano gli alti
comandi nell'esercito d'Oriente, mentre il visigoto Alarico comandava
le armate d'Illiria e il vandalo Stilicone spadroneggiava in
Occidente, in qualità di Capo di Stato Maggiore, console, suocero
dell'imperatori Onorio.
L'orazione è ispirata a
un acceso nazionalismo, alla speranza che l'imperatore riesca a
estromettere i barbari e a costituire un esercito composto di soli
sudditi dell'impero: era questa la tesi dei conservatori, memori
delle antiche glorie, un programma suggestivo e utopistico condiviso
dall'imperatrice Eudossia e dal patrizio Giovanni suo amante (il vero
padre, si diceva, dell'erede al trono). Salito al potere nel 400 il
capo della corrente anti-barbarica, Aureliano, a Costantinopoli ebbe
luogo un massacro di Goti e la caduta di coloro che, nostalgici della
politica assimilatrice del defunto Teodosio, erano favorevoli alla
preponderanza germanica nella compagine dello Stato. Di lì a pochi
anni quella corrente (sostenuta dalla Chiesa, perché i Goti erano
bensì cristiani, ma seguaci dell'eresia di Ario) riuscì a imporsi
anche in Occidente: nel 408 Stilicone, ultimo difensore della
penisola mentre l'Europa era tutta invasa, fu decapitato a Ravenna.
Ciò provocò la calata di Alarico in Italia e, dopo due anni di
assedio, il sacco di Roma; evento clamoroso per l'emozione che
suscitò più che importante dal punto di vista politico o militare
(410 d.C.).
In Sinesio, gran signore
e uomo di cultura, convergono le tendenze più significative del
tempo. In lui si riscontra soprattutto quella lenta adesione alla
Chiesa che non si può chiamare conversione come illuminazione e
ripudio del passato, ma evoluzione graduale, non immune da
incertezze, riserve, ambiguità. Circa un secolo dopo l' Editto di
Milano (313 d.C.), il conflitto tra paganesimo e cristianesimo si
svolse in forma paradigmatica nella sua coscienza. Eletto
inopinatamente vescovo di Tolemaide, Sinesio sperimentò
dolorosamente il passaggio dal neoplatonismo al cristianesimo. Paul
Courcelle ha riscontrato, con i testi a fronte, la derivazione da
Plotino di molti scritti di Sant'Ambrogio; Sant'Agostino a sua volta,
nelle Confessioni, riconosce l' influenza esercitata su di lui
da alcuni libri neoplatonici, vale a dire dalle Enneadi di
Plotino. Interessato alla scienza, alla matematica, forse anche
all'alchimia, Sinesio aveva fatto del neoplatonismo la sua religione.
Quella dottrina consisteva in uno struggente desiderio di Dio, un
percorso graduale verso la contemplazione e l'estasi, che doveva
svolgersi in un progressivo distacco dalla materia, ripercorrendo in
ascesa il cammino che l'anima ha compiuto quando, scintilla della
luce divina, è caduta sulla terra e, di pianeta in pianeta, ne ha
assorbito i vizi. Ma il neoplatonismo, dottrina d'élite, non
conosceva l'umiltà, la desolata indigenza del cristiano, la sua
carità: Sinesio aveva ancora molta strada da percorrere e se ne
rendeva conto.
In una lettera al
fratello del 410, anno della sua elezione, si dichiarava totalmente
incapace di adeguarmi alla santità del ministero; tra gli ostacoli
che elenca, riconosce una certa pigrizia, l'amore per la moglie,
l'inclinazione per il raccoglimento e lo studio, l'affetto per i
cavalli e i suoi amatissimi cani, ammissione insolita in un uomo del
suo tempo ma, soprattutto, difficoltà di carattere dottrinario:
“chiamato all'episcopato – scrive - non fingerò di credere in
dogmi in cui non credo...”. Ad Alessandria, che anteponeva ad Atene
come centro di pensiero e di cultura, Sinesio era stato alunno d'una
singolarissima docente di scienze, matematica e filosofia, Ipazia,
che aveva ereditato la cattedra dal padre: figura d'un candore
abbagliante, che viene descritta bellissima e severa, coerente con le
sue convinzioni fino al martirio. Fu massacrata, infatti, da fanatici
cristiani che strappatele le vesti, la dilaniarono con grosse
conchiglie taglienti (415 d.C.). Nel 413 Sinesio, colpito dalla morte
dei tre figli, le scriveva: ho perduto i figli, gli amici, ma la
perdita più grave è la mancanza del tuo spirito divino, la sola
cosa che avevo sperato mi rimanesse per sopportare i capricci della
sorte e i raggiri del fato.... L'ultima sua lettera, poco prima della
morte (413 d.C.) è indirizzata ancora alla venerata maestra: “Detto
questa lettera dal letto dove giaccio: possa tu riceverla in buona
salute, madre, sorella, maestra... la mia debolezza dipende da
ragioni psichiche: il ricordo dei figli che non sono più mi
consuma...”.
Tutto crollava attorno a
lui: l'Europa invasa, il suo paese devastato (“respiro un'aria
inquinata dalla putrefazione dei cadaveri... il cielo è coperto
dalla fosca ombra degli uccelli da preda; eppure, anche in questo
stato, amo la mia patria. E che altro potrei, Libico quale sono, nato
qui, avendo sotto gli occhi le tombe dei miei antenati?...”). Gli
fu risparmiata la notizia della morte atroce di Ipazia e, di lì a
pochi anni, l'invasione dei Vandali. Chissà che lui pure, negli
ultimi istanti, non abbia ricordato le parole di Plotino che furono
udite mormorare da sant'Agostino, mentre si spegneva in Ippona
assediata: "il saggio non si sgomenta se cadono colonne e travi;
poiché la Città non è fatta di mura, è fatta di cittadini...".
“la Repubblica”, 27
maggio 1989
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