La fama di Lucio
Mastronardi è legata soprattutto alla cosiddetta “trilogia di
Vigevano”, i tre romanzi ambientati nella provincia lombarda e
negli anni del boom economico.
Qualche estate fa lo scrittore entrò
nei “Coni d'ombra” del “manifesto”, una serie di articoli
dedicati ad autori novecenteschi ingiustamente dimenticati. Angelo
Mastrandrea, autore del testo, reperibile in questo blog (
http://salvatoreloleggio.blogspot.it/2015/10/scrittori-dimenticati-la-rivolta-di.html
), rammentò, fra l'altro, un rapporto difficile – documentato
dall'epistolario - con Italo Calvino, mentore di Mastronardi negli
anni della trilogia, poi fortemente critico verso il tuo tentativo di
cercare nuove strade.
Il ritaglio qui recuperato, senza data, si
colloca tra la tragica morte dello scrittore di Vigevano suicida
(1979) e il 1984. Calvino conferma, anzi rafforza, il giudizio
positivo sui romanzi della trilogia con riferimenti che a Mastronardi
fanno onore, ma mette una pietra sopra tutto il resto. (S.L.L.)
Lucio Mastronardi |
Ricordare Lucio
Mastronardi oggi vuol dire riconoscere in tutto il suo valore
l’arricchimento che la letteratura italiana ha ricevuto, in un
breve volgere d’anni, tra il 1959 e il 1964, dall’inattesa
apparizione d’un ciclo romanzesco che rappresenta tutta una società
nei suoi meccanismi pubblici e privati, nel suo ritmo vitale e nelle
sue ossessioni, nel fitto repertorio di voci e locuzioni idiomatiche
delle sue manifestazioni parlate blaterate imprecate: tutto questo
non registrato dal di fuori, programmaticamente, ma (ed è questo che
conta) trasfigurato da un umore caricaturale implacabile e dalla
musica d’una orchestra interiore in cui predominano i registri
bassi degli ottoni.
L’universo di
Mastronardi ha un nome, dichiarato fin dai titoli in copertina:
Vigevano. Non so quanti e quali nessi si possono trovare tra questa
Vigevano romanzesca e la Vigevano reale: ma so che come immagine
dell’Italia, di trent’anni di storia della società italiana, la
Vigevano mastronardiana funziona egregiamente.
L’eccezionalità
dell’evento Mastronardi sta nel fatto che nella tradizione italiana
non abbiamo
avuto né un Balzac né
un Dickens né tanto meno un Dostoievsky che abbiano trasfigurato la
nostra società in una morfologia e in un’etologia distinguibili da
ogni altra, come una fauna o flora cresciute in una nicchia biologica
a sé stante. Mastronardi nel suo piccolo ha fatto questo; e dico nel
suo piccolo perché l’umanità che lui rappresenta non ha spazio
per guardare più in là dell’autoaffermazione economica più
elementare e di ambizioni di minimo raggio, ma appunto la forza
poetica dello scrittore sta nella coerenza di quest’immagine
rimpicciolita, nella verità che essa trasmette così com’è.
Che un risultato di tanta
forza sia stato ottenuto da un’esistenza in fragile equilibrio col
mondo come quella di Lucio Mastronardi, dalla sua sensibilità di
scorticato vivo, dà a quest’opera un carattere ancor più raro,
perché pagine così sapienti nel costruire e nel giudicare le storie
umane sono state come strappate dal gorgo di sofferenza che Lucio si
portò dentro per tutta la vita e da cui finì per trovar scampo solo
nei gorghi del Ticino.
In una vita che tendeva
inevitabilmente a configurarsi come incubo, anche le soddisfazioni
meritate che ebbe dalla letteratura finivano per moltiplicare le
ansie e le angosce della sua sensibilità. Il successo non fu che la
conseguenza esteriore dei doni con cui le sorti letterarie cercarono
invano di controbilanciare i suoi dolori: la fortuna di realizzare
una comunicazione piena in almeno tre libri; la fortuna di trovare
uno scopritore pronto come Vittorini per rivelarlo al pubblico; la
fortuna d’esser entrato in scena al momento giusto, in una
situazione letteraria abilitata ad accogliere una narrativa d’impasto
dialettale dall’operazione critico-filologica di Contini e
dall’operazione critico-creativa di Pasolini (con sullo sfondo
d’entrambe la sagoma corpulenta dell’ingegner Gadda). Ma la
fortuna di cui più aveva bisogno, quella della pace interiore, non
gli fu mai data; ed è un dono che raramente la letteratura concede.
Ho riletto Il
calzolaio di Vigevano e sono rimasto meravigliato forse più
d’allora della sua tenuta: la tenuta interna del mondo
rappresentato, la logica del «dané fanno dané», della macina
produttiva che dà forma alle vite di questo strato oscillante tra
l’operaio e il piccolo imprenditore (le memorabili scene della vita
coniugale ossessionata dall’idea fissa di fabbricare scarpe e
comprare macchine per fabbricare scarpe), e la tenuta
stilistico-espressiva del tessuto di voci e battute «dal vivo», un
collage di modi di dire e proverbi paragonabile a quello del
capolavoro di Verga, ma qui senza alcuna velatura lirico-elegiaca,
bensì invece con la rapidità scoppiettante e agra d’un battibecco
clownesco.
Forse l’attenzione
parossistica di Mastronardi nel cogliere e registrare le voci fuori
di lui era una difesa da voci dentro di lui che lo straziavano.
Perciò il frutto più pieno e corposo del suo personalissimo talento
resta il primo dei suoi romanzi, Il calzolaio, che è anche il
più oggettivo, quello in cui l’io dell’autore, non
identificandosi con nessuno dei personaggi, può investirsi
nell’insieme della materia narrata. Non che nei libri seguenti egli
si ripeta, perché la comicità del Maestro sembra scaturire da una
vena inesauribile, e nel Meridionale c’è un teatro di personaggi
ancor più ricco e maturo: ma il brio della prima opera non ha più
la stessa naturalezza. A piccoli passi, raccontando le tristezze dei
maestri elementari e lo sradicamento dei meridionali emigrati, egli
si avvicinava pericolosamente all’autobiografia, alla storia
familiare, ai traumi sempre sanguinanti. Forse non poteva andare più
in là. Era nel reinventare la cronaca della sua città che egli
poteva esprimere il suo rovello.
La corrispondenza tra il
suo «miracolo letterario» e il «miracolo economico» che gli fa da
sfondo sembra fatta apposta per la soddisfazione di quanti cercano i
rispecchiamenti immediati tra storia sociale e letteratura. Perché
se è vero che Il calzolaio si svolge tra la guerra
d’Abissinia e l’inizio del dopoguerra, la carica propulsiva gli
viene certo dagli anni in cui fu scritto, che erano i primi anni del
boom. Con questo non voglio sottovalutare il valore del Calzolaio
come romanzo storico: che sta secondo me nel rendere come nessun
altro la continuità italiana tra fascismo e post-fascismo, e questo
in un’epoca in cui ancora il tema storico della nostra narrativa
era la separazione dal presente di quel passato. Il miracolo
economico propriamente detto sarà rappresentato nel seguito della
saga, dove la prosperità degli industrialotti è vista in contrasto
con la miseria degli esclusi, cioè gli impiegati statali (Il
maestro di Vigevano) che il sistemo cerca di riassorbire anche
attraverso i tentacoli della corruzione pubblica (Il meridionale
di Vigevano).
Quest’immagine resta
ancora e, più che mai, vera negli anni della crisi, dell’economia
sommersa e del lavoro nero, delle piccole città non più soltanto
settentrionali dove si moltiplicano le piccole industrie e le non
piccole fortune. Come dice una battuta del Calzolaio, in cui
la deformazione della lingua orecchiata raggiunge una sublime
pregnanza filosofica nell’accettazione della realtà in cui siamo
obbligati a operare: «Il mondo è bello perché è avariato».
Quale massima più
corroborante potremmo trovare oggi per affrontare il mondo senza
mistificazioni?
Montale in una sua
recensione aveva visto nell’umanità rappresentata nel Calzolaio
un brulicare di castori. Possiamo ora riconoscervi un’immagine
dell’Italia della sopravvivenza e concludere che pur vista
attraverso la satira più grottesca come quella di Mastronardi essa è
ben lungi dall’essere l’Italia peggiore.
“la Repubblica”,
ritaglio senza data, forse 1982
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