9.5.17

Il castoro e il calzolaio. Ricordo di Lucio Mastronardi (Italo Calvino)

La fama di Lucio Mastronardi è legata soprattutto alla cosiddetta “trilogia di Vigevano”, i tre romanzi ambientati nella provincia lombarda e negli anni del boom economico. 
Qualche estate fa lo scrittore entrò nei “Coni d'ombra” del “manifesto”, una serie di articoli dedicati ad autori novecenteschi ingiustamente dimenticati. Angelo Mastrandrea, autore del testo, reperibile in questo blog ( http://salvatoreloleggio.blogspot.it/2015/10/scrittori-dimenticati-la-rivolta-di.html ), rammentò, fra l'altro, un rapporto difficile – documentato dall'epistolario - con Italo Calvino, mentore di Mastronardi negli anni della trilogia, poi fortemente critico verso il tuo tentativo di cercare nuove strade. 
Il ritaglio qui recuperato, senza data, si colloca tra la tragica morte dello scrittore di Vigevano suicida (1979) e il 1984. Calvino conferma, anzi rafforza, il giudizio positivo sui romanzi della trilogia con riferimenti che a Mastronardi fanno onore, ma mette una pietra sopra tutto il resto. (S.L.L.)
Lucio Mastronardi
Ricordare Lucio Mastronardi oggi vuol dire riconoscere in tutto il suo valore l’arricchimento che la letteratura italiana ha ricevuto, in un breve volgere d’anni, tra il 1959 e il 1964, dall’inattesa apparizione d’un ciclo romanzesco che rappresenta tutta una società nei suoi meccanismi pubblici e privati, nel suo ritmo vitale e nelle sue ossessioni, nel fitto repertorio di voci e locuzioni idiomatiche delle sue manifestazioni parlate blaterate imprecate: tutto questo non registrato dal di fuori, programmaticamente, ma (ed è questo che conta) trasfigurato da un umore caricaturale implacabile e dalla musica d’una orchestra interiore in cui predominano i registri bassi degli ottoni.
L’universo di Mastronardi ha un nome, dichiarato fin dai titoli in copertina: Vigevano. Non so quanti e quali nessi si possono trovare tra questa Vigevano romanzesca e la Vigevano reale: ma so che come immagine dell’Italia, di trent’anni di storia della società italiana, la Vigevano mastronardiana funziona egregiamente.
L’eccezionalità dell’evento Mastronardi sta nel fatto che nella tradizione italiana non abbiamo
avuto né un Balzac né un Dickens né tanto meno un Dostoievsky che abbiano trasfigurato la nostra società in una morfologia e in un’etologia distinguibili da ogni altra, come una fauna o flora cresciute in una nicchia biologica a sé stante. Mastronardi nel suo piccolo ha fatto questo; e dico nel suo piccolo perché l’umanità che lui rappresenta non ha spazio per guardare più in là dell’autoaffermazione economica più elementare e di ambizioni di minimo raggio, ma appunto la forza poetica dello scrittore sta nella coerenza di quest’immagine rimpicciolita, nella verità che essa trasmette così com’è.
Che un risultato di tanta forza sia stato ottenuto da un’esistenza in fragile equilibrio col mondo come quella di Lucio Mastronardi, dalla sua sensibilità di scorticato vivo, dà a quest’opera un carattere ancor più raro, perché pagine così sapienti nel costruire e nel giudicare le storie umane sono state come strappate dal gorgo di sofferenza che Lucio si portò dentro per tutta la vita e da cui finì per trovar scampo solo nei gorghi del Ticino.
In una vita che tendeva inevitabilmente a configurarsi come incubo, anche le soddisfazioni meritate che ebbe dalla letteratura finivano per moltiplicare le ansie e le angosce della sua sensibilità. Il successo non fu che la conseguenza esteriore dei doni con cui le sorti letterarie cercarono invano di controbilanciare i suoi dolori: la fortuna di realizzare una comunicazione piena in almeno tre libri; la fortuna di trovare uno scopritore pronto come Vittorini per rivelarlo al pubblico; la fortuna d’esser entrato in scena al momento giusto, in una situazione letteraria abilitata ad accogliere una narrativa d’impasto dialettale dall’operazione critico-filologica di Contini e dall’operazione critico-creativa di Pasolini (con sullo sfondo d’entrambe la sagoma corpulenta dell’ingegner Gadda). Ma la fortuna di cui più aveva bisogno, quella della pace interiore, non gli fu mai data; ed è un dono che raramente la letteratura concede.
Ho riletto Il calzolaio di Vigevano e sono rimasto meravigliato forse più d’allora della sua tenuta: la tenuta interna del mondo rappresentato, la logica del «dané fanno dané», della macina produttiva che dà forma alle vite di questo strato oscillante tra l’operaio e il piccolo imprenditore (le memorabili scene della vita coniugale ossessionata dall’idea fissa di fabbricare scarpe e comprare macchine per fabbricare scarpe), e la tenuta stilistico-espressiva del tessuto di voci e battute «dal vivo», un collage di modi di dire e proverbi paragonabile a quello del capolavoro di Verga, ma qui senza alcuna velatura lirico-elegiaca, bensì invece con la rapidità scoppiettante e agra d’un battibecco clownesco.
Forse l’attenzione parossistica di Mastronardi nel cogliere e registrare le voci fuori di lui era una difesa da voci dentro di lui che lo straziavano. Perciò il frutto più pieno e corposo del suo personalissimo talento resta il primo dei suoi romanzi, Il calzolaio, che è anche il più oggettivo, quello in cui l’io dell’autore, non identificandosi con nessuno dei personaggi, può investirsi nell’insieme della materia narrata. Non che nei libri seguenti egli si ripeta, perché la comicità del Maestro sembra scaturire da una vena inesauribile, e nel Meridionale c’è un teatro di personaggi ancor più ricco e maturo: ma il brio della prima opera non ha più la stessa naturalezza. A piccoli passi, raccontando le tristezze dei maestri elementari e lo sradicamento dei meridionali emigrati, egli si avvicinava pericolosamente all’autobiografia, alla storia familiare, ai traumi sempre sanguinanti. Forse non poteva andare più in là. Era nel reinventare la cronaca della sua città che egli poteva esprimere il suo rovello.
La corrispondenza tra il suo «miracolo letterario» e il «miracolo economico» che gli fa da sfondo sembra fatta apposta per la soddisfazione di quanti cercano i rispecchiamenti immediati tra storia sociale e letteratura. Perché se è vero che Il calzolaio si svolge tra la guerra d’Abissinia e l’inizio del dopoguerra, la carica propulsiva gli viene certo dagli anni in cui fu scritto, che erano i primi anni del boom. Con questo non voglio sottovalutare il valore del Calzolaio come romanzo storico: che sta secondo me nel rendere come nessun altro la continuità italiana tra fascismo e post-fascismo, e questo in un’epoca in cui ancora il tema storico della nostra narrativa era la separazione dal presente di quel passato. Il miracolo economico propriamente detto sarà rappresentato nel seguito della saga, dove la prosperità degli industrialotti è vista in contrasto con la miseria degli esclusi, cioè gli impiegati statali (Il maestro di Vigevano) che il sistemo cerca di riassorbire anche attraverso i tentacoli della corruzione pubblica (Il meridionale di Vigevano).
Quest’immagine resta ancora e, più che mai, vera negli anni della crisi, dell’economia sommersa e del lavoro nero, delle piccole città non più soltanto settentrionali dove si moltiplicano le piccole industrie e le non piccole fortune. Come dice una battuta del Calzolaio, in cui la deformazione della lingua orecchiata raggiunge una sublime pregnanza filosofica nell’accettazione della realtà in cui siamo obbligati a operare: «Il mondo è bello perché è avariato».
Quale massima più corroborante potremmo trovare oggi per affrontare il mondo senza mistificazioni?
Montale in una sua recensione aveva visto nell’umanità rappresentata nel Calzolaio un brulicare di castori. Possiamo ora riconoscervi un’immagine dell’Italia della sopravvivenza e concludere che pur vista attraverso la satira più grottesca come quella di Mastronardi essa è ben lungi dall’essere l’Italia peggiore.

“la Repubblica”, ritaglio senza data, forse 1982

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