Guido Tonelli |
Guido Tonelli, Fisico del
CERN e Professore dell’Università di Pisa, è stato tra gli
scopritori del Bosone di Higgs, occasione per la quale ha poi scritto
La nascita imperfetta delle cose. La grande corsa alla particella
di Dio e la nuova fisica che cambierà il mondo (Rizzoli, 2016).
In questo libro Tonelli racconta cosa vuol dire affacciarsi oltre il
limite estremo della conoscenza, fare la scoperta del secolo e capire
come tutto è cominciato in quel preciso momento, un centesimo di
miliardesimo di secondo dopo il Big Bang in cui si è deciso il
nostro destino. In tale opera si spiegano con chiarezza ed in maniera
coinvolgente i misteri sull’origine del mondo e la possibile fine
dell’universo.
La storia del bosone di
Higgs comincia nel 1964 e si articola nei decenni successivi fino al
2011, anno della scoperta, resa possibile solo grazie
all’acceleratore Lhc (Large hadron collider) al CERN di Ginevra.
Non scenderemo nei dettagli, lasceremo che sia il professore a
raccontarcelo. Quello che è interessante sottolineare è che con il
Bosone di Higgs è stato riempito l’ultimo tassello che era rimasto
vuoto del cosiddetto Modello Standard, ovvero la teoria che descrive
il mondo delle particelle elementari e le incasella in una sorta di
tavola periodica. Ma il Bosone di Higgs, suggerisce Tonelli, potrebbe
spiegare anche molti dei misteri del cosmo. Secondo alcune teorie,
infatti, questa particella potrebbe aver giocato un ruolo importante
nelle primissime fasi dell’universo, per esempio riguardo la
questione dell’asimmetria tra materia e antimateria, che subito
dopo il Big Bang erano presenti in quantità uguali (o quasi): può
essere stata una leggera “preferenza” del Bosone di Higgs per la
materia ad aver consentito a quest’ultima di sopravvivere ai primi
millisecondi di vita dell’universo, mentre l’antimateria
(disintegrandosi con la materia) è completamente sparita.
Per concludere, ora il
Bosone di Higgs non solo lo abbiamo davanti, ma ha anche aperto una
nuova fisica. E pure (anche se non ce ne accorgiamo) un nuovo modo di
vivere. Queste scoperte, che potrebbero apparirci come puramente
accademiche, hanno infatti un’influenza su tutti noi: basti anche
semplicemente pensare alla tecnologia e a quanto essa, tramite le
scoperte scientifiche, ha cambiato la nostra quotidianità. A questo
proposito Tonelli ci dà una grande conferma, ed anche di questo lo
ringraziamo: la continuità che esiste tra i cosiddetti saperi
“scientifici” ed “umanistici” nel terreno della vita
quotidiana dell’uomo.
La
fisica, come anche le materie umanistiche – soprattutto quando si
spingono a un livello molto sperimentale – richiede ingenti
risorse: in cambio di questo investimento esse ci restituiscono una
maggior consapevolezza. Crede che scoperte come quelle fatte al CERN
comportino un cambiamento per la nostra vita quotidiana, in termini
di domande fondamentali e quindi di produzione di senso per la nostra
esistenza come individui e come specie? L’origine della Filosofia
nasce con domande come “chi siamo?” e da “dove veniamo?”; la
Fisica, per certi versi, non tenta di offrire risposte simili?
Alla base di queste
ricerche, che sono sicuramente complesse e richiedono ingenti
investimenti, cosa c’è? C’è una spinta primordiale che è la
curiosità!
Noi siamo esseri umani e
l’umanità di oggi, nata in Africa milioni di anni fa, come si è
evoluta? Grazie a qualche individuo che ha cominciato a spostarsi, ma
perché? Io ho il pregiudizio di pensare che non si sia spostato
dalla savana verso il territorio vicino per bisogno di cibo ma credo
che la spinta più grossa dei nostri antenati ominidi sia la stessa
che motiva noi oggi: la curiosità, il cercare oltre le colline
qualcosa che ancora non abbiamo visto. È il tratto più fondante
dell’umanità.
Per esempio, se uno
prende un bambino piccolo e lo mette in un recinto alto un metro,
questi magari cammina malamente, ma proverà ad alzarsi e a vedere
cosa c’è oltre. Ecco che allora le ricerche si fanno per
soddisfare questa curiosità, che è uno dei tratti più
caratteristici dell’umanità, e guai a quell’umanità che
scoraggiasse la curiosità e inibisse gli individui creativi che
immaginano cose che gli altri non hanno ancora visto, in tutti i
campi: in quello scientifico, artistico o letterario.
Occorre dire che le
ricerche scientifiche cambiano non solo la percezione del mondo, in
quanto hanno effetti su di essa, ma cambiano anche la nostra vita
materiale. Ogni tanto immagino che se al CERN ci fosse un grande
bottone rosso, spingendo il quale si potesse cancellare dalla
quotidianità la meccanica quantistica e la relatività per una
ventina di minuti, la gente capirebbe di quanto le scoperte
scientifiche degli ultimi cento anni siano presenti nella vita di
tutti i giorni: la medicina moderna, le comunicazioni, i cellulari,
internet. Non c’è niente nella vita quotidiana che non sia
debitore di una scoperta scientifica.
Le cose che si sviluppano
nei centri di ricerca producono nuove tecnologie che, in maniera
molecolare e silenziosa, entrano nella vita di ogni giorno. Per
esempio, nessuno poteva immaginare che i primi laser inventati negli
anni ’40/’50 furono inventati avrebbero corretto la miopia o
letto un’etichetta al supermercato o riprodotto la musica. Lo
stesso vale per la risonanza magnetica: gli studi sulle proprietà
magnetiche della materia esistono perché abbiamo capito come questa
funzioni; quindi prima o poi, qualunque funzionamento della materia
che viene compreso (anche quello più astratto) trova delle
applicazioni concrete. Prima o poi questo sapere si diffonde nella
vita quotidiana.
Sembra che il
linguaggio della natura sia distantissimo dai linguaggi degli uomini:
cosa possiamo fare per ridurre questo gap? Secondo Immanuel Kant, la
mente umana non conosce le cose in sé stesse ma le impressioni dei
sensi che rispecchiano solo l’apparenza superficiale delle cose.
Mettendo insieme tali impressioni per mezzo delle strutture
spazio-temporali, la mente costruisce la sua immagine della realtà
in sé stessa, che resterebbe sempre inconoscibile (noumeno).
Dobbiamo ammettere che, in fondo, non sappiamo o non potremo mai
sapere nulla di certo sul mondo che ci circonda, o crede che in
futuro riusciremo ad arrivare ad una spiegazione definitiva? Dobbiamo
rassegnarci, come scrive Kant, al fatto che in fondo la realtà è
inconoscibile?
L’ipotesi di Kant
contiene un’assunzione arbitraria, cioè il fatto che non c’è
nessun elemento per dire che c’è una realtà, ma non potendo
verificarla o sperimentarla non si può nemmeno ipotizzarla.
Io, invece, ho un
atteggiamento diverso che è molto aderente alla maniera in cui noi
uomini della scienza lavoriamo.
Non sono d’accordo con
chi dice che noi scienziati sveliamo attraverso il metodo scientifico
la natura e osservano le leggi della stessa come se fossero lì
davanti a noi e avessimo il compito di scoprirle. In realtà noi
abbiamo una nostra visione del mondo che è la stessa che può avere
anche una scimmia antropomorfa: per esempio lo scimpanzé quando deve
aprire una noce ha un progetto, ovvero prendere un sasso, rompere la
noce e mangiare il seme, quindi ha progettato il futuro dicendo
“utilizzerò un utensile più duro della noce, la aprirò e mi
nutrirò”. Questo progetto è la stessa cosa che facciamo noi, è
un’immagine del mondo. Ma cosa differenzia la scienza moderna dalle
altre immagini del mondo? Che è rigorosa, che si cambia, si plasma,
è pragmatica, accetta di sbagliare, non cerca la verità ma tenta di
spiegare tutte le osservazioni e, quando troverà un’osservazione
che non riuscirà a spiegare, sa già che dovrà trovare un’altra
spiegazione.
Questo atteggiamento
pragmatico, in cui non ci si pone il problema di cosa sia la realtà,
permette di costruire la propria immagine del mondo che deve essere
il più precisa e rigorosa possibile, nonché riproducibile, e che
funzioni fino a quando non si scopre che c’è un piccolo dettaglio
non congruente e bisogna buttare all’aria tutto e ricorrere ad un
altro modello. Questo è l’atteggiamento che ha fatto fare i
maggiori progressi e che rende un po’ superflua la questione circa
l’esistenza o meno di qualcosa di più profondo: una realtà
oggettiva che esista a prescindere da quella che noi possiamo
costruire.
La scienza non è altro
che una nostra costruzione mentale e, proprio essendo da noi
costruita, ci dobbiamo preoccupare di renderla il più accurata e
precisa possibile.
Il bosone di Higgs,
conosciuto anche come particella di Dio: abbiamo letto molte
speculazioni a riguardo, ma di cosa stiamo parlando concretamente?
Quali sono le implicazioni di questa scoperta e che scenari apre?
Abbiamo scoperto un
momento particolare della nascita dell’universo nel suo complesso,
così oggi noi possiamo raccontare questa storia con un dettaglio
importante che abbiamo collocato temporalmente e che sappiamo
descrivere e precisare: c’è un periodo della nascita dell’universo
– i primi cento miliardesimi di secondo – in cui sono avvenute
cose che ancora non abbiamo capito ma, dal cento miliardesimo di
secondo in poi, da quando il bosone di Higgs si è installato
nell’universo, noi conosciamo la nostra storia.
È come se avessimo fatto
un altro passo per raccontare la nostra nascita: dal cento
miliardesimo di secondo in poi questa particella speciale si è
congelata perché l’universo, espandendosi, si è raffreddato. Il
bosone di Higgs, che era libero e vagava come le altre particelle, si
è quindi bloccato nel vuoto, si è congelato nel suo campo scalare,
il quale aveva un’importante proprietà: le altre particelle
interagirono con lui diventando massicce, alcune hanno preso una
massa, altre un’altra, altre ancora sono rimaste prive di massa. Se
questo meccanismo non fosse avvenuto, la materia non sarebbe
esistita, o meglio ci sarebbe stata ma in una forma diversa, pensiamo
ad un intero universo pieno di particelle che viaggiano alla velocità
della luce prive di massa: un sistema perfetto ma senza
l’imperfezione che siamo noi o le galassie.
La materia infatti,
considerata in atomi e molecole, si è organizzata in tale modo
proprio per le caratteristiche dell’atomo: c’è un protone
intorno ad un elettrone e se l’elettrone non avesse quella massa
ben precisa datagli dal bosone, non potrebbe orbitare intorno al
protone e non ci sarebbe la materia stabile che da miliardi di anni
ci circonda.
Proviamo ad allestire
un semplice esperimento mentale, immaginando una conversazione ideale
tra un fisico e un filosofo. Il filosofo fa presente al fisico che è
impossibile risalire a cosa ci fosse prima del Big Bang, che si può
parlare dell’inizio del tutto soltanto per approssimazione: resta
impossibile scorgere al di là dell’universo in cui viviamo, poiché
esso costituisce un orizzonte intrascendibile. Il fisico dal canto
suo sostiene che, attraverso la ricerca, è possibile – o lo sarà
in futuro – provare a dire perfino cosa ci fosse prima del Big
Bang. Crede che l’osservazione del filosofo sia pertinente o
immagina un futuro in cui sarà effettivamente possibile conoscere
quanto è accaduto, per così dire, prima dell’Universo?
Sono sbagliate entrambe
perché c’è questo pregiudizio: si pensa che il tempo sia separato
dallo spazio, cioè che ci sia stato il big bang, momento in cui lo
spazio si espanse e il tempo sia proceduto a prescindere.
Invece no: tempo e spazio
sono nati insieme. Non si può dire ‘prima’ – non esiste –,
perché lo spazio e il tempo prima che ci fossero spazio e tempo non
c’erano. Quindi la risposta del fisico è sbagliata così come
l’osservazione del filosofo perché il fatto di essere all’interno
di questo universo, quindi di questo fenomeno spazio-temporale, ci
permette di capire cosa sia potuto succedere in esso; e a quel punto
niente ci impedisce di immaginare altri fenomeni che avvengano in un
non-tempo e in un non-spazio (non esistono spazio-tempo al di fuori
dell’universo in cui siamo).
Per esempio esistono le
teorie dei multiversi che ritengono che il nostro non sia l’unico
universo materiale ma uno dei tanti. E come potrebbero essere
verificate se non possiamo osservare e vedere da un universo
all’altro?
Ci sono delle ricerche in
corso sull’esistenza di questi altri universi possibili: alcune
osservazioni che si fanno del nostro universo, studiando tutti i suoi
angoli, vanno alla ricerca di zone in cui ci potrebbe essere
l’evidenza di un altro universo, un’altra bolla che si sia
sovrapposta alla nostra. Per esempio le onde gravitazionali, scoperte
recentemente, potrebbero servire a tale scopo. Se uno vede una zona
in cui lo spazio-tempo è increspato senza motivo e non c’è nulla
che lo deforma, quella potrebbe essere una zona in cui il nostro
universo si sovrappone ad un altro universo: questa sarebbe la prova
sperimentale dell’esistenza di più universi.
Saperi scientifici e
saperi umanistici vengono spesso contrapposti, ma non è possibile
trovare tra di essi dei punti di tangenza per potersi anche integrare
maggiormente? La complessità della Fisica contemporanea è giunta a
livelli tanto elevati che la persona non addetta ai lavori tende a
non comprendere le questioni o corre il rischio di affidarsi a
formule fuorvianti, come quelle utilizzate dai media. In questo non
pensa che le materie umanistiche potrebbero aiutare la scienza a
costruire una narrazione accessibile a tutti ma nel contempo precisa,
perché sorta dal confronto con esperti come lei?
Sì assolutamente. Io
faccio fisica perché amo la filosofia. Odiavo la fisica al liceo e
amavo la filosofia e mi è rimasto questo amore appassionato per il
dibattito filosofico che seguo da amatore.
Il cervello è uno: io mi
appassiono per le meraviglie della natura così come mi appassiono
per un brano di musica o per un bel libro o per una bella discussione
tra un filosofo ed un teologo. La divisione è del tutto artificiale
e la considero un residuo ottocentesco: non solo le materie
umanistiche arricchiscono il sapere scientifico e viceversa, ma nel
momento in cui dobbiamo spingere la nostra conoscenza al di fuori del
conosciuto (è questa la ricerca moderna) ci ritroviamo su un confine
in cui si corrono inevitabilmente dei rischi ed è lo stesso in cui
si muovono i letterati che vogliono produrre qualcosa di nuovo, gli
artisti che vogliono raffigurare qualcosa di nuovo, i musicisti che
vogliono fare ascoltare qualcosa di nuovo: che differenza c’è?
Nessuna. Ogni volta che mi imbatto in uno di loro li sento vicini
perché abbiamo tutti le stesse paure, le stesse intuizioni, – a
volte giuste a volte sbagliate – ma è lo stesso atteggiamento nei
confronti della ricerca del nuovo.
Ci sarebbe tutto da
guadagnare ad avere un intreccio maggiore tra le varie discipline, a
moltiplicare i momenti di conoscenza. Scienze naturali e scienze
umanistiche sono due modi avanzati in cui si sviluppa la conoscenza e
vanno conosciute entrambi: solo in questo modo ne ricaveremmo di
sicuro dei benefici.
Intervista rilasciata
il 3 settembre 2016 in occasione del Festival della Mente di Sarzana
(La Spezia)
dal sito “la chiave di
sophia” http://www.lachiavedisophia.com/blog/category/ospite/
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