Quando ero in prima media
(avevo nove anni) le poesie che dovevo studiare a memoria erano
scelte non per la loro bellezza ma perché inerenti al programma di
storia; un metodo che non giovava alla formazione del guasto estetico
ma, se non altro, serviva a ricordare gli aneddoti: "Mesta il
console ha la faccia / parla il console sommesso / cupamente al muro
guarda / e ai nemici che son presso / Pria che il ponte sia distrutto
/ l' avanguardia sarà qua / e se giungon sopra il ponte / chi più
salva la città?". Ma ecco farsi avanti Orazio. Taglia il ponte,
poi si butta a fiume con tutta l'armatura e torna indietro.
Ed eccoci al medioevo:
"Forte esser devi / Rosmunda, bevi" dice l' efferrato
Alboino, offrendo alla sposa la coppa ricavata dal teschio del
suocero da lui ucciso "bevea Rosmunda / ma con lo sguardo /
parea dicesse: re Longobardo / se la vendetta qui non mi langue /
berrò il tuo sangue" - cosa che in seguito effettivamente fece.
Una di quelle poesie (di
nessuna ricordo l'autore) riguardava Brenno, il capo dei Galli che
nel 390 a.C. saccheggiarono Roma. Non contento dei danni che aveva
provocato, d'aver massacrato i senatori (che attendevano i nemici
immoti su i loro scranni, simillimi - scrive Livio – diis,
parevano proprio dèi) prima di andarsene pretese dai Romani qualche
libbra d'oro a guisa di riscatto (lo fece anche il visigoto Alarico,
ottocento anni dopo, ma non se ne andò affatto; lo fece Kappler con
la comunità israelitica romana nel 1943, ma dopo pochi giorni
deportò tutti gli ebrei in Germania). Al momento d'incassare, lo
sleale Gallo gettò la spada sul piatto della bilancia e pronunciò
la frase famosa "Vae victis!" Guai ai vinti: "Guai,
disse ai vinti e la sua spada irato / Brenno gettò su la bilancia in
cui / comprava a peso d'or Roma e il Senato / vergogna e libertate ai
figli sui". L'episodio, come tanti altri del ciclo leggendario
riguardante le ostilità tra i Romani e i Galli, doveva imprimere
nelle menti uno dei pregiudizi razziali degli autori latini: i Galli
sono tracotanti, vanagloriosi, noncuranti del diritto, poco
resistenti al caldo e alla fatica, dediti al vino e nella loro
religione compiono sacrifici umani (così come i Greci, a loro volta,
sono astuti e falsi, gli asiatici effemminati, gli africani
lussuriosi) - i Romani, invece, tutti leali, austeri e coraggiosi.
Prima che, tra folate di nebbia e turbini di neve, uscissero dalle
foreste nordiche i Germani, prima che si imponessero come nemici
irriducibili i Parti, per secoli Roma si scontrò con quelli che,
come scrisse Cesare nel De Bello Gallico, "nella loro
lingua si chiamano Celti, nella nostra Galli". La presenza di
varie tribù celtiche in Italia settentrionale, poi in quella
centrale, precede di due secoli almeno l'avvenimento più noto, la
loro calata fino a Chiusi, a tre giorni di marcia da Roma. Si
azzardarono così a Sud (ma è un pettegolezzo e non c'è da
prenderlo sul serio) perché chiamati da uno sposo etrusco tradito;
non potendo uccidere il rivale, dato che era figlio del Lucumone,
pensò bene per vendicarsi di provocare la rovina della città;
oppure, versione più ragionevole, perché, amanti com'erano del
vino, vollero portarsi via delle pianticelle di vite dalla Toscana
per fare delle loro vaste pianure altrettanti vigneti: e ringraziamo
Dio che l'abbiano fatto.
Le incursioni armate, gli
insediamenti (e gli scambi commerciali che li precedettero) sono
raccontati con documentazione rigorosa e chiarezza narrativa in un
agile volumetto dell'archeologa Maria Teresa Grassi I Celti in
Italia Longanesi, pagg. 125, più illustrazioni, indici e
bibliografia, lire 29.500); una lettura indispensabile per chi visita
la mostra veneziana. Seguendo passo passo Polibio e Tito Livio, la
giovane studiosa fornisce un gran numero di notizie, vale a dire
ripercorre la storia di Roma dal V al II secolo a.C. Racconta tutti
gli scontri delle legioni con i Celti, armate mobili e veloci, più
atte alla guerriglia e alle imboscate che alle battaglie in campo
aperto (Livio infatti parla sempre di "tumultus gallicus"
e non di "bellum"). Si chiamava Gallia Cisalpina (e
cioè, al di qua delle Alpi) il territorio che si stendeva nella
pianura padana, (Transalpina quella al di là). Furono i Celti a
fondare Milano, che rimase un semplice borgo agricolo fino a che i
Romani, lentamente espandendo la conquista verso Nord, non ne fecero
una città.
Il nome Gallia si estese
all'Emilia, alle Marche - sempre a contatto con Umbri ed Etruschi,
sempre in conflitto, con varie vicende, con i Romani. Nelle necropoli
sono stati trovati elmi, spade, foderi, vasellame, scudi, fibule e i
famosi "torques", "girocollo" d' oro che
portavano i Galli, anche se completamente nudi. Il romano Tito Manlio
assunse per sé e per i successori il nome Torquato per averne tolto
uno a un Gallo, da lui ucciso in duello; in un trionfo su un carro ne
furono caricati circa millecinquecento.
La spinta dei Galli verso
Sud indusse i Romani a fondare colonie militari lungo il loro
possibile percorso, Sena Gallica, (Senigallia), e poi Rimini,
Piacenza, Cremona, Modena e infine, per accelerare gli eventuali
aiuti da Roma, a costruire la grande arteria di collegamento tra
l'Urbe e la Gallia Cisalpina, la via Flaminia; centocinquanta anni
dopo, la via Emilia.
Quella lunga serie di
guerre fu celebrata nell'arte, sui frontoni dei templi di Civitalba e
di Talamone, specie dopo che, respinti i Galli dall'Asia Minore, il
re Attalo I di Pergamo volle eternare nel bronzo, su un tempio
dedicato ad Atena, quel successo sui barbari d'Occidente, ponendolo
alla stessa stregua di quello d'Atene sui Persiani: opere splendide,
di cui conosciamo copie romane in marmo (il Gallo morente, il Gallo
suicida con la moglie). L'iconografia tradizionale li raffigura nudi,
atletici, con lunghe chiome, e non manca di rispetto per il loro
valore: atteggiamento tipico dei Greci di fronte al nemico, di Omero
verso il troiano Ettore, di Eschilo verso i nemici Persiani.
Abbiamo ereditato dai
Galli l'uso natalizio del vischio: i loro sacerdoti, i Druidi,
andavano a raccoglierlo su gli alberi con un falcetto d' oro il
giorno del solstizio d' inverno (21 dicembre) e se ne vede moltissimo
sulle querce spoglie. In memoria del loro eroe, Vercingetorige, che
si arrese a Cesare dopo la disperata difesa di Alesia, i francesi
hanno posto una piccola lapide nel carcere Mamertino, dove fu
strangolato la sera del trionfo del dittatore. La sua figura
leggendaria, infine, sopravvive nei fumetti, è il valoroso Asterix,
che si batte contro i cattivi Romani.
“la Repubblica", 2
agosto 1991
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