Su “Famiglia cristiana”
del 13 novembre leggo in ritardo un breve commento politico di
Francesco Anfossi, dal titolo Il cinque dicembre finisce il
vecchio Pd, che qui riporto
integralmente:
“Sta per nascere 'il
partito del premier' al posto del Pd, come tutto lascia immaginare
dall'ultima Leopolda renziana, il congresso di corrente trasformato
nel luogo delle invettive alla minoranza dem, con tanto di sfratto
esecutivo decretato dal segretario Matteo Renzi al grido di
"fuori-fuori"? In politica tutto è possibile, ma è
difficile che il Partito democratico resti come prima dopo la fatale
data del referendum del 4 dicembre. Questo non significa che il 5
dicembre ci sarà una scissione immediata, ma certamente si innesterà
un processo di disarticolazione: da una parte il segretario-premier
Renzi e i suoi, dall'altra Bersani, D'Alema, Cuperlo e tutti coloro
che sono stati messi nell'angolo dalla componente maggioritaria del
partito. Come spartiacque il referendum sulle riforme costituzionali,
sempre meno tecnico e sempre più politico, man mano che ci si
avvicina alla data fatidica”.
Il commentatore sembra
dare per scontato che il referendum del 4 dicembre approverà la
messa in soffitta della Carta del 1948 e la scelta di un assetto
istituzionale che si pretende più dinamico, veloce e adeguato ai
tempi. In questo caso è del tutto evidente che si scatenerebbe
un'ampia epurazione contro quella parte del Pd che ha manifestato la
sua contrarietà alla riforma considerata sbagliata politicamente e
tecnicamente malfatta, in alcuni casi giungendo a impegnarsi nella campagna
per il No (“i traditori” - li chiamano i fans del presidente del
Consiglio).
Ne conseguirebbe una
scissione (immediata o diluita nel tempo)? l'espulsione dei reprobi?
la riduzione all'insignificanza? Non so dirlo, ma a me la
trasformazione del Pd nel “partito del premier” di cui Anfossi
scrive pare - in caso di vittoria del Sì - più che certa; a maggior ragione se a rimpinguarlo venissero gli
apporti degli “alfaniani” e dei “verdiniani”, per rafforzarne
le file in vista di una campagna elettorale politica, imminente e non
scontatamente trionfale.
Ma la vittoria del Sì,
per quanto resa probabile dall'impegno nel referendum – forse al di
là del galateo politico e perfino del lecito – di tutte le risorse
governative e di tutte le possibili pressioni ricattatorie, non si
può considerare certa. Nell'ipotesi contraria la scelta per il No di
non pochi esponenti del Pd e di dirigenti piddini della Cgil da
“tradimento” potrebbe diventare una risorsa per l'intero partito
e salvarlo dalla disfatta connessa alla inevitabile crisi di
leadership di Matteo Renzi, che ha impegnato in questa sfida tutta la
sua credibilità. La presenza nel Pd di una componente contraria alla
riforma Boschi gli restituirebbe, infatti, il carattere di partito
aperto, plurale e inclusivo che era nelle intenzioni originarie,
favorirebbe il dibattito interno e la individuazione di un nuovo
indirizzo politico e programmatico, prima ancora che di una nuova
leadership, in vista di confronti assai difficili.
Ci sono vecchi militanti, che, a malincuore e non del tutto convinti, hanno scelto il Sì per spirito di partito, in nome di una disciplina che era normale in partiti centralisti come il vecchio Pci, ma è una richiesta assurda in un partito come il Pd, soprattutto in caso di referendum. Se vincesse il No dovranno erigere un monumento a Pierluigi Bersani e a Massimo D'Alema come salvatori della patria.
Ci sono vecchi militanti, che, a malincuore e non del tutto convinti, hanno scelto il Sì per spirito di partito, in nome di una disciplina che era normale in partiti centralisti come il vecchio Pci, ma è una richiesta assurda in un partito come il Pd, soprattutto in caso di referendum. Se vincesse il No dovranno erigere un monumento a Pierluigi Bersani e a Massimo D'Alema come salvatori della patria.
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